Alfonso Gianni

Gilberto Corbellini si chiedeva come mai nessuno ha reagito al bell'articolo di David Bidussa sul rapporto fra scienza e sinistra. La sua supposizione è che nessuno lo ha capito. Ma forse c'è un'ipotesi più semplice: non tutti, e sono i più, lo avevano letto. Io tra questi (può succedere di non trovare l'Altro in edicola quando si viaggia) e ho colmato la lacuna solo in queste ore, proprio su sollecitazione dell'articolo di Corbellini. Senza bisogno di parlar male di Gregory Bateson, accusandolo del tutto gratuitamente di incompetenza epistemologica, si può ampiamente concordare con le considerazioni di Bidussa, peraltro assai equilibrate e prudenti. Quello che mi riesce più difficile è stabilire una così rigida concatenazione e consequenzialità tra le tesi di Bidussa e le convinzioni che Corbellini professa in materia di Ogm. Ma andiamo con ordine. Mi pare purtroppo che sia giusto dire che nel campo della sinistra radicale l'attenzione nei confronti del ruolo e dei temi della scienza abbia da tempo segnato il passo. La critica sacrosanta al mito della neutralità della scienza non ha prodotto uguali successi nella costruzione di una nuova teoria epistemologica. Spesso si è teso a confondere o quantomeno a non separare nel modo dovuto scienza da tecnologia. E anche quando ciò è stato fatto correttamente non si è saputo tenere fede all'antico monito di Adorno, per il quale la sinistra non avrebbe mai dovuto porsi al di sotto della tecnologia o restare indifferente alle sue problematiche. Oppure abbiamo assistito ad un uso del tutto disinvolto e altrettanto improprio di categorie scientifiche calate, senza alcun spirito critico e rispetto semantico, nel dibattito politico. Questa fine è stata riservata in particolare alle teorie scientifiche del novecento, si pensi agli svarioni di significato cui è sottoposta da sempre la teoria della relatività, finanche confusa con il relativismo in campo filosofico, o alle indebite e vuote generalizzazioni che hanno dovuto subire in particolare il principio di indeterminatezza di Heisemberg o il teorema di incompletezza di Godel. Non si ha torto nel dire che questo atteggiamento così superficiale nei confronti delle tematiche scientifiche non è poi solo così recente, non deriva soltanto da una lettura affrettata e mal digerita di quello splendido libro che fu L'ape e l'architetto di Marcello Cini. Anche nella migliore tradizione comunista del nostro paese fu così, si intende con le sue lodevoli eccezioni. La prevalenza di un'impronta crociana nella concezione stessa del sapere è stata probabilmente determinante nel separare nettamente la conoscenza scientifica da quella storico-filosofica. Il che per converso ha portato a considerare inattaccabile la scienza e quasi sacrale la figura dello scienziato, proprio perché scissi dal loro contesto, e quindi a portare acqua al mulino delle teorie sulla presunta neutralità e assoluta oggettività della scienza stessa. Queste riflessioni dovrebbero imporci di considerare il dibattito scientifico come parte integrante di un moderno e complesso processo di decisione politica e la cultura scientifica come parte decisiva nel processo di formazione di una nuova classe dirigente. Altrove questo è avvenuto e tuttora avviene. Non mi riferisco solo al mondo anglosassone, ma anche, ad esempio, alla Cina, ove la nuova classe dirigente, anzi i gruppi dirigenti più ristretti, dello Stato e del Partito, non fuoriescono da facoltà umanistiche, come avveniva in passato, ma prevalentemente da quelle scientifiche, come quelle dell'università Hsinua di Pechino. Naturalmente, proprio perché la scienza non è neutrale, questo nulla dice della qualità e del segno politici di questi gruppi dirigenti, ma indica comunque una sensibile modificazione di modelli e percorsi formativi.Per compiere questo passo anche da noi dovremmo però liberarci da ogni forma di fondamentalismo, in tutti i sensi e in tutte le direzioni. Non credo alla equazione tabù = "buon sistema di convinzioni comprovate e stabilizzate" che ha tratteggiato Scandurra in un precedente articolo. Credo invece che bisogna sempre essere intellettualmente pronti a rimettere in discussione i propri paradigmi (nel senso che a questa parola attribuiva Thomas Khun) quando l'evidenza empirica può revocarli in dubbio. Tuttavia la traslazione che Corbellini fa di questi concetti nel campo degli Ogm non mi pare convincente per alcuni motivi che elenco a modo di domanda, nel tentativo di risultare almeno chiaro. Primo. Fermo restando che l'eterogenesi dei fini esiste e grandi esempi se ne possono trovare proprio in campo scientifico, non è forse vero che la ricerca scientifica non avviene in un ambiente astratto e ideale, ma in compresenza di sistemi di pensiero, teorie scientifiche dominanti, scelte politiche e economiche, gruppi di finanziamento e di pressione che, tutti insieme, concorrono a indirizzarla in una direzione piuttosto che verso un'altra? Non è forse vero dunque che il cosa si vuole cercare è importante almeno quanto il come cercarlo? E dunque non è forse necessario affrontare in partenza gli orientamenti e i presupposti della ricerca scientifica, mettendo in discussione gli esiti desiderati, senza perciò stesso apparire come oscurantisti? Secondo. Non è forse vero che tanta parte della letteratura economica, e non di una parte sola, ci spiega che il problema della fame nel mondo non deriva da una carenza produttiva , in atto e in potenza, dell'attuale agricoltura mondiale, ma da altre ragioni economiche e sociali, antiche e recenti, fra le quali le stesse speculazioni finanziarie, come è stato recentemente dimostrato dagli andamenti del mercato delle commodities agricole? Che dunque il problema non è trovare i sistemi per produrre di più in campo agricolo, ma di distribuire meglio non solo i prodotti finiti ma le coltivazioni all'origine? Che dunque la difesa della diversità biologica o l'opzione della filiera corta non derivano da fantasticherie georgico - bucoliche, ma da criteri di economia e di giustizia sociali? E cioè che non è alla diffusione degli Ogm che è legata la salvezza dalla fame nel mondo? Terzo. Non è forse vero che la modificazione dei geni praticata su larga scala rafforza e concentra il potere proprietario delle grandi imprese nell'agricoltura mondiale, conferendo a queste multinazionali una nuova stagione di straordinaria accumulazione di profitti, dopo il lungo livellamento nel tempo del loro saggio medio, quella che gli americani chiamano una "sopravvenienza attiva monopolistica" (windfall profits) e che Schumpeter chiamava "premi straordinari"? Non solo, ma non è forse anche vero che il ricorso agli Ogm possono favorire lo spostamento del potere delle multinazionali dalla "semplice" proprietà dei mezzi di produzione agricola (la terra, i semi, gli strumenti del lavoro ecc.) a quello ancora più invasivo della determinazione della qualità del gusto e del consumo per miliardi di persone? Quarto. Non è forse vero, come ho spesso letto senza trovare smentite convincenti, che l'utilizzo di semi geneticamente modificati provoca un effetto di invasione di quel tipo di colture a causa della loro maggiore resistenza e aggressività, a scapito di altri tipi di coltivazione che pure a parole si vorrebbero preservare? E che dunque non è affatto privo di fondamento o puramente ideologico il richiamo al principio di cautela? So bene che il numero delle domande non si esaurisce qui, ma se intanto qualcuno volesse provare a tranquillizzarmi su qualche punto, forse l'intero dibattito potrebbe entrare più nel vivo.

 




(articolo tratto dal quotidiano 'l'Altro')

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Giuseppe - Milano - Mail - mercoledi 9 settembre 2009 7.10
Non credo per la verità che il rapporto tra scienza, conoscenza scientifica e sinistra sia così latente come indicato nell'articolo, ma anzi credo che le questioni politiche indotte dall'evoluzione della scienza e della tecnica e l'analisi delle conseguenze sulla vita delle collettività sia tuttora una prerogativa del pensiero di sinistra; mi riferisco in particolare alle tematiche ecologiche che sono inequivocabilmente patrimonio del pensiero progressista e riformatore della sinistra nel nostro Paese ed ancora mi riferisco ai temi attinenti alla critica del capitalismo nei suoi aspetti più deteriori di generatore della diseguaglianza socialei. Condivido tuttavia il parere di chi oggi sottolinea come le scelte politiche siano fortemente condizionate dai "tecnici" e quanto questo possa essere pericoloso per il futuro dell'umanità (Beck) posto che la scienza e la tecnica non sono in grado di creare una conoscenza esatta su cui poter fondare certezze. Errori di tecnici e scienziati sono stati all'origine di guerre (quanto la previsione scientifica di un evento dannoso possa influire sulle libertà individuali è un fatto ormai acquisito!!) financo i più esperti tecnici di finanza non hanno saputo prevedere la crisi globale che ha distrutto immense risorse in termini di risparmio e lavoro. Credo che vi sia quindi oggi bisogno di recuperare un più forte senso della politica, nella consapevolezza che il meglio indicato dal tecnico e dallo scienziato non necessariamente coincide con il meglio per l'interesse della collettività.


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