Maria Pia Cantarini

Paolo Adinolfi, un giudice scomodo, che stava indagando i poteri forti e la criminalità organizzata, è scomparso dal 2 luglio 1994. Un mistero che dura da ben 31 anni, al quale non si è mai data una risposta. Quel sabato mattina, il magistrato, prima di uscire di casa, salutò la moglie Nicoletta dicendole che sarebbe tornato per l'ora di pranzo. Da quel momento in poi, del giudice non si sono avute più notizie. Sembrava essersi dileguato nel nulla. Di lui non si trovarono più tracce. Adinolfi, all'epoca della scomparsa, aveva 52 anni e viveva con la moglie, Nicoletta Grimaldi e i due figli, Lorenzo e Giovanna, in un appartamento in via della Farnesina, nel quartiere Vigna Clara: una zona molto bella di Roma nord. Un giudice integerrimo, che aveva un alto senso dello Stato. Oggi, a distanza di oltre tre decenni, potremmo trovarci di fronte a una svolta: le indagini sulla sua scomparsa sono state riaperte. Investigatori, tecnici e cani molecolari sono impegnati alla ricerca del corpo del giudice, tra i sotterranei della Casa del Jazz di Roma, nota anche come Villa Osio. Questo immobile, infatti, è appartenuto a Enrico Nicoletti: il cassiere della banda della Magliana. Negli anni ’90 del secolo scorso, Nicoletti venne condannato per usura, estorsione e associazione a delinquere. La villa gli venne sequestrata nel 1996 e confiscata definitivamente nel 2001, quando venne assegnata al Comune di Roma. In seguito, il sindaco Veltroni ne fece un centro polifunzionale dedicato alla musica. La villa fu costruita negli anni ’30 del novecento, su commissione dell’avvocato Arturo Osio, fondatore e primo presidente della Banca nazionale del lavoro. Negli anni ‘80 passò nelle mani di Enrico Nicoletti, noto boss della banda della Magliana. La ottenne a un prezzo ‘stracciato’. Il giudice Adinolfi, di formazione cattolica, era a conoscenza dei più grandi fallimenti aziendali di quel periodo: una serie di truffe, bancarotte fraudolente e reati vari che vedevano, quasi sempre, una connessione tra circuiti politici occulti e criminalità organizzata. Il magistrato della sezione fallimentare cercò di bloccare un sistema corruttivo che, in quegli anni, stava dilagando fra le fila di società e gruppi criminali romani. Un giudice che, con il suo operato, era andato a toccare un sistema scottante, facendo inceppare la più importante catena organizzativa di illegalità della capitale d’Italia. Nella Casa del Jazz di Roma sono attualmente in corso degli scavi, al fine di arrivare al tunnel sotterraneo che si trova sotto la villa. La ricerca è seguita anche da un magistrato in pensione, Guglielmo Muntoni: è proprio a lui che si deve l'iniziativa di tornare a scavare, per decisione della prefettura, al fine di portare alla luce elementi riconducibili all'attività criminale della banda della Magliana, che allora la faceva da 'padrona' sul territorio capitolino. L'ipotesi di Muntoni è che la galleria sia stata chiusa proprio dalla banda della Magliana, per nascondere tracce importanti: armi, esplosivi, gioielli, documenti. Non è certo, però, che possano trovarsi anche i resti del giudice Adinolfi. Lo stesso Muntoni l'ha definita: "Un'ipotesi astratta". La Polizia scientifica aveva cercato il corpo del magistrato nei sotterranei della villa già nel 1997, ma la mancanza di fondi aveva impedito di proseguire con accertamenti più approfonditi e mirati. Adinolfi ha lavorato per più di dieci anni alla sezione fallimentare del Tribunale civile di Roma. Per questo motivo, gli capitò di doversi occupare di tutti quei casi malavitosi di corruzione e illegalità che sembravano imperare, a Roma e non solo. A un certo punto, gli capitò di indagare proprio sugli illeciti del tesoriere della banda della Magliana. E fu allora che emerse, presso la sezione fallimentare, un primo possibile collegamento con la banda criminale di cui Nicoletti curava gli interessi. Lo stesso Nicoletti era un personaggio centrale dell’attività malavitosa; negli anni ‘90, parecchie organizzazioni criminali cambiarono il loro 'modus operandi', riciclando il danaro 'sporco' in attività legali, utilizzando anche prestanome o società fittizie. Queste inchieste importanti passarono per le mani proprio del giudice Adinolfi, integerrimo servitore dello Stato. Adinolfi combatteva questo sistema, cercando di ‘incagliare’ questo meccanismo di corruzione corrente. Egli si era occupato dei fallimenti della Fiscom, della Casina Valadier e di Ambra assicurazioni "che conducevano a personaggi legati ad ambienti malavitosi”. Fino a scoprire il punto di congiunzione tra potere economico, servizi deviati e criminalità organizzata. In seguito ad alcune indagini sulla Fiscom Spa, una società di intermediazione finanziaria, Adinolfi ne dichiarò il fallimento: una decisione poi revocata a sua insaputa, mentre era in ferie. Fu per questo motivo che il giudice chiese di essere trasferito presso la Corte di Appello. Nel maggio del 1991, il quotidiano ‘la Repubblica’ diede notizia che la procura di Roma aveva aperto un fascicolo su Giuseppe Ciarrapico. Le ipotesi di reato erano quelle di bancarotta e falso in atto pubblico. Al centro delle indagini ci finirono l'imprenditore Giuseppe Ciarrapico, l'amministratore unico, Romeo Lancia e il notaio Michele di Ciommo. Il giudice Adinolfi seguì anche la procedura fallimentare relativa alla vecchia gestione della Casina Valadier. All'epoca, la società Italfin, anch’ssa intestata a Giuseppe Ciarrapico, si stava interessando per l'acquisto delle quote della vecchia gestione. Sembrerebbe, però, che la registrazione dell'atto riportasse una data successiva a quella del fallimento: “Un errore della segretaria del notaio”, fece notare una delle parti in causa. Un errore, però, che sollevò molti dubbi nel magistrato circa la validità dell'atto. Fu così che al giudice Adinolfi, nel 1992, gli venne revocato il fascicolo. Proprio due giorni prima della sua scomparsa. Il magistrato aveva contattato il pm di Milano, Carlo Nocerino, che stava indagando sul 'crack' dell'Ambra assicurazioni, di cui anche Adinolfi, quando era giudice della sezione fallimentare, si era occupato. Egli voleva riferire alcuni particolari importanti ai giudici milanesi. Particolari legati ai procedimenti di cui era a conoscenza, archiviati frettolosamente. Tornando alle indagini relative alla sua scomparsa, una prima inchiesta, aperta nel 1996, si concluse con un’ipotesi di allontanamento volontario da parte del giudice. In una seconda inchiesta, invece, del 2003, la procura di Perugia, titolare della nuova indagine, decise anch’essa l'archiviazione, con la motivazione che la scomparsa del magistrato fosse dovuta "alle sue attività presso la sezione fallimentare del Tribunale civile di Roma" e che era stato vittima, probabilmente, della criminalità organizzata. In sostanza, pur non arrivando a conclusioni precise, Perugia scartava l'ipotesi del suicidio o dell’allontanamento volontario, anche se i responsabili non erano stati identificati. Le conclusioni, dunque, accreditarono l’ipotesi che il magistrato fosse stato ucciso e il suo corpo occultato per le attività d’indagine da lui svolte. Un giudice scomodo, insomma. Anche per gli stessi colleghi con cui lavorava, per il suo 'modus operandi', assai tenace e non certo apprezzato. Un professionista che si era speso per il rispetto dei valori e delle istituzioni più sane del nostro Paese. La famiglia e noi tutti, ancora oggi, cerchiamo una risposta. Si spera di ritrovarne il corpo, magari proprio da quei rilievi che si stanno facendo nei sotterranei di Villa Osio, oggi Casa del Jazz. Perché Paolo Adinolfi era un giudice che voleva ripristinare la legalità là dove c'era solamente corruzione. E che, proprio per questo, ha pagato con la propria vita.


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