A partire dalla fine degli anni '70 del secolo scorso, un certo cinema americano - esaurito il moto d’esaltazione per i grandi maestri del cinema italiano - ha pensato bene di rappresentare un’Italia intrisa di stereotipi. L’abominevole ‘uomo-spaghetti e mandolino', da non confondersi con lo ‘spaghetti-western’, genere magistrale del cinema italiano, girato tra le campgne di Pomezia e le Falasche che ha fatto scuola negli Usa, vive e vegeta nelle pellicole d’oltreoceano allo scopo di delegittimare e declassificare un’intera cultura e creare una sorta di pregiudizio. Caratteristica fondamentale di tale delegittimazione era una ripetitività che sfociava in una sorta di visione caricaturale di ambienti e dei personaggi, prigionieri di una semplicistica e distorta visione. Un’Italia che non ci si aspetta è quella del film ‘Il talento di Mr. Ripley’ del 1999, scritto e diretto da Antony Minghella con un cast stellare: da Matt Damon a Gwyneth Paltrow, da Jude Law a Cate Blanchett e Philip Seymour Hoffman. Le prime sequenze del film dipingono un ‘America elegante e laboriosa, con il ricco e industriale americano in pena per la sorte del figlio Dickie (Jude Law) che, in fuga dalla civiltà, si rifugia in un paesino del sud d'Italia: “terra di selvaggi” come dirà lo stesso Dickie durante una scena drammatica del film. In seguito, Freddie (Philip Seymour Hoffman) e Ripley (Matt Damon) s'incontrano a Roma. Il primo, amante della “dolce vita e delle donne”, vuole umiliare Ripley, che si circonda di busti pacchiani e anticaglie di dubbio valore per apparire colto, mentre invece è solo un americano del New Jersey privo di talento: così, l’americano di buona famiglia può 'sgassare' con la sua auto nuova per le vie della città vecchia, mentre i ragazzi romani, “poveri, ma belli” di ‘risiana' memoria, vengono descritti come beceri molestatori di ragazze nei vicoli.
L’uso improprio dell’antichità: Roma è solo una ‘magna magna’
E ancora: nel più recente ‘Mangia, prega e ama’ (2010), diretto da Ryan Murphy, nell’episodio che riguarda Roma, pur essendo un film ambientato nei primi anni 2000 sembra di essere nel dopoguerra: l’appartamento che la turista americana, Elizabeth Gilbert (Julia Roberts), prende in affitto cade a pezzi e la padrona di casa parla in siciliano come se lo sbarco degli alleati a Salerno fosse appena avvenuto. Quando Elizabeth visita un non ben definito sito archeologico nel centro della città (sporco e trasandato, dove alloggiano alcuni senzatetto), si convince che la decadenza e l’arretratezza abbiano compiuto il miracolo di renderla migliore di loro: quel 'museo a cielo aperto' che è la ‘città eterna’, equivale a un rudere, a una carta da parete strappata. L’americana abbandonerà presto il ‘magna-magna’ romano: un istinto bestiale, da sublimare in India.
La falsa teatralità del gesto
Elizabeth sbeffeggia Giovanni (uno sconsolato Luca Argentero), improvvisando un romanesco improbabile, descrivendo gli italiani come delle marionette sguaiate che parlano solo a gesti e s'ingozzano di cibo, amanti del dolce far niente. L’uso improprio della teatralità del gesto rende quest’ultimo distopico e denigratorio di una 'dolce vita' dematerializzata da decenni, già tema anacronistico ai tempi de ‘La dolce vita’ di Federico Fellini, affresco tridimensionale di una Roma instupidita e corrotta, in piena crisi di valori.
Primi segnali della sindrome suprematista?
Al di là dell'indubbio valore delle pellicole segnalate, il tentativo di racchiudere una cultura millenaria e una società multiforme come quella italiana in una cartolina ‘bizzarra’ è il principale sintomo di un certo suprematismo nordamericano, mai sopito nei confronti del nostro cinema. Una ripicca per il sublime ‘Americano a Roma’ di ‘sordiana’ memoria? Noi pensiamo proprio di sì.