Vittorio LussanaDi recente, il Governo Renzi ha fatto approvare da un 'ramo' del parlamento italiano una sorta di delega 'in bianco', che l'esecutivo ha promesso di 'riempire' con il cosiddetto 'Jobs act'. Proviamo, dunque, a proporre un ragionamento che possa fornire un contributo di 'partenza' in merito alla condizione del nostro mercato del lavoro. A tal riguardo, occorre infatti sottolineare come sia sempre esistita, in Italia, una componente 'primaria' del mercato del lavoro che non subisce alcuna influenza dall'andamento ciclico della domanda globale, congiunta a una componente 'secondaria' formata da lavoratori 'scoraggiati' o 'addizionali', che invece si mobilitano solamente quando la situazione congiunturale diventa buona. Un'argomentazione del genere indica una cronica scarsità di investimenti da parte delle nostre classi imprenditoriali, una caratteristica comprovata a più riprese da sociologi ed economisti delle più svariate provenienze e inclinazioni dottrinarie. Non può sfuggire, infatti, come a un'attenta analisi dei tassi specifici di attività, coloro che vengono regolarmente espulsi dal 'parco' della forza-lavoro, o che proprio non riescono a entrarvi siano, da sempre, i giovani e le donne. Da ciò discendono alcuni indici tecnico-finanziari di 'refrattarietà', connessi a una domanda di lavoro tradizionalmente debole e assai selettiva, rispetto alla quale non sono mai esistite, in Italia, forze politiche o sindacali in grado di riassestare in qualche modo quei dati che in genere gli economisti definiscono: "Tassi di partecipazione all'attività lavorativa". Il caotico assalto all'istruzione, tanto per fare un esempio storico, anziché derivare da un adeguamento alle nuove esigenze del nostro apparato produttivo, qui da noi si è sempre configurato come un effetto - e non come una causa - dell'inoccupazione giovanile, trasformando le nostre scuole e università in gigantesche e spesso inutili aree di parcheggio. Da tale ragionamento si può tranquillamente dedurre come si sia storicamente strutturata, in Italia, una domanda di lavoro distinta in tre diversi 'mercati' - quello operaio, quello intellettuale e quello marginale - in cui gli ultimi due accolgono la mano d'opera respinta dal primo. Dando quindi per accertato uno squilibrio negativo sostanzialmente irrimediabile tra domanda e offerta di lavoro, diviene naturale dedurre una costante diminuzione del tasso di attività del nostro Paese, dovuta all'arretratezza di un sistema sociale ancora oggi basato sulla famiglia 'seminucleare', ovvero quella in cui un solo membro percepisce regolarmente uno stipendio, mentre gli altri componenti o vivono a suo carico, oppure concorrono al bilancio familiare con sussidi pensionistici o brevi ingaggi a termine e 'in nero'. In pratica, un'impostazione socioeconomica da anni '50 del secolo scorso, che non può più reggere il confronto demografico con la realtà di oggi. Tutto ciò finisce col ricadere pesantemente sulla morfologia di quella speciale variante del 'welfare state' che è sempre stato l'assistenzialismo italiano, a norma del quale la mano pubblica, anziché erogare servizi collettivi creando sane opportunità di impiego, deve invece limitarsi a consolidare l'occupazione 'fissa' impegnando mezzi ingenti nella sicurezza sociale, oppure rilanciare gli investimenti finanziari accollandosi una parte degli aggravi - rappresentati appunto dal costo del lavoro - mediante politiche di esenzioni tributarie nelle aree depresse, oppure ancora attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali. Ma questo modo superato di interpretare il sistema occupazionale italiano finisce col condizionare tutto il resto del Paese, poiché 'fulcro' e leva dell'equilibrio dei singoli mercati diviene soprattutto l'esigenza di consumare. Dunque, anche il nostro intero modello di 'civiltà dei consumi' sarebbe da rivedere. Non tanto perché il possesso di ricchezze mobiliari o immobiliari da trasmettere in eredità non rappresentino più un segno tangibile di distinzione, quanto perché la delega del rischio alla pubblica amministrazione, che continua a garantire la stabilità del potere d'acquisto con una legislazione sociale favorevole o con provvedimenti antinflazionistici, incita i cittadini-consumatori a forme di spesa indirizzate verso beni 'secondari'. Ciò in quanto il volume dei guadagni non raggiunge mai un equilibrio tale da garantire un'effettiva politica dei redditi in grado di far accumulare risparmi o proprietà a basso quoziente di remunerazione, mentre è più che sufficiente ad assecondare l'acquisto di generi voluttuari, caratteristica che contraddistingue da sempre i Paesi in cui vigono forme di capitalismo arretrato. In sostanza, non è la scarsità di mano d'opera a basso costo il vero problema del nostro mercato del lavoro, bensì il fatto che esso sia rimasto sostanzialmente strutturato sulla famiglia 'monoreddituale', ovvero su un modello che risulta obsoleto, rigido, incapace di 'puntare' sulle giovani generazioni, poiché nessuno è in grado di garantire nient'altro che forme di occupazione fortemente parziali, instabili e precarie. Sostenere che la famiglia sia ancora la 'pietra angolare' della società, mentre il sistema produttivo è ormai pienamente indirizzato verso i bisogni del singolo individuo-consumatore analizzato di per sé, ci obbliga a dover prendere atto che i destini del Paese sono stati messi nelle mani di un ceto politico di incompetenti, che pretendono di continuare a trattare e a far vivere gli italiani come se fossimo in un perenne ciclo di 'boom' economico: una classe politica e imprenditoriale malata di psicologia, poiché convinta che la ripresa economica si basi sulle aspettative, 'sull'ottimismo' della massimizzazione dei profitti come se fossimo negli Stati Uniti, in cui vige un tessuto economico assolutamente distinto rispetto a quello italiano ed europeo. Ciò nella speranza, il più delle volte infondata, che ogni singola questione socio-economica, come per esempio quella dell'occupazione giovanile, col tempo finisca con lo stabilizzarsi da sola. Ma la verità è ben altra: noi siamo un popolo che, da almeno 20 anni, si è gettato alle spalle ogni etica del lavoro, della professionalità e della produttività, al fine di inseguire forme di reddito totalmente sganciate dalle prestazioni. E appare clamoroso come non ci si accorga che la deriva verso un simile 'populismo di massa' sia alla base dell'attuale incapacità di delineare un'idea di futuro basata su una società più equa e più giusta, non più dominata dalla legge delle aspettative crescenti e dal 'dogma' della rigidità delle retribuzioni verso il basso. Ideologismi cupamente conservatori vengono continuamente mescolati a forme di adesione ai feticci più clamorosi della società di massa. E le nuove tecnologie di comunicazione vengono continuamente affiancate da prestiti culturali di tutt'altro segno, che portano i giovani ad arrendersi a una cultura puramente 'edonista', che assume come proprio caposaldo teorico un'esasperata autonomia individuale e, come principale 'bussola' di orientamento, una richiesta esclusiva ed esasperata di favoritismi, di 'scorciatoie' egoistiche, che non risolvono affatto il problema di un robusto assorbimento occupazionale, ma viceversa generano forme di competitività assolutamente 'sleali', totalmente prive di regole, contrarie a ogni meritocrazia, lontane intere galassie da ogni compattezza gruppuscolare - e persino di consapevolezza generazionale - da parte dei giovani stessi. Un appiattimento omologativo spaventoso, che disincentiva la riqualificazione della mano d'opera operaia e la competenza nei comparti impiegatizi e di concetto, quelli dei cosiddetti 'colletti bianchi'. Un sistema divenuto 'schiavo' del puro marketing, spesso e volentieri promosso da elementi privi di ogni reale cultura, devoti solamente a una concezione nozionistica, o puramente intuitiva, della programmazione economica. Il 'pesce' puzza dalla 'testa', dunque: è perfettamente vero. Ma non solo per l'incapacità della politica, dei Partiti o dei sindacati, bensì a causa, soprattutto, di un apparato imprenditoriale ancorato a un dirigismo talmente qualunquista da aver perso ogni capacità di analisi, ogni visione d'insieme, di previsione e di programmazione economica a medio-lungo termine. Il futuro si fonda sul presente: in linea di principio, ciò è fuori discussione. Ma se il presente viene mal interpretato, esso rischia di uccidere ogni forma possibile di futuro, finendo col diventare il principale colpevole dell'andamento declinante del nostro intero 'sistema-Paese'.




Direttore responsabile di www.laici.it e della rivista 'Peridoico italiano magazine' (www.periodicoitalianomagazine.it)
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Marina - Urbino - Mail - martedi 4 novembre 2014 17.22
Più che malato trovo che il nostro sistema abbia bisogno della Estrema Unzione.
Roberto - Roma - Mail - lunedi 3 novembre 2014 0.34
Solo per la cronaca, Lussana, io ho votato Pd alle politiche del 2013 e la lista Tsipras alle europee.
Cristina - Milano - Mail - lunedi 3 novembre 2014 0.7
Comunque si affrontino gli argomenti, c'è un'unica certezza: il sistema è malato alla fonte. Il mondo imprenditoriale è stato troppo legato al'ambiente politico e si è creato un legame malsano che ci ha portati a questa crisi spaventosa e occorre prendere provvedimenti immediati e risolutori.
Carlo Cadorna - Frascati - Mail - domenica 2 novembre 2014 18.33
Complimenti al Direttore! E' un'analisi realistica di pochi che hanno il coraggio della verità: c'è un problema culturale che sta condizionando, negativamente, tutta la nostra società. Se non si rimuove quello, continueremo in un lento declino...
Vittorio Lussana - Roma/Milano/Bergamo - Mail - domenica 2 novembre 2014 16.3
RISPOSTA A ROBERTO: gentile lettore, a un certo punto in questo articolo ho scritto: "Noi siamo un popolo che, da almeno 20 anni, si è gettato alle spalle ogni etica del lavoro, della professionalità e della produttività, al fine di inseguire forme di reddito totalmente sganciate dalle prestazioni". Dunque, che ci siano degli squilibri all'interno del mondo del lavoro è solo un aspetto del problema, mentre nella presente analisi ho semplicemente allargato lo sguardo, occupandomi, in via più generale, del mercato del lavoro, più che dei rapporti interni al mondo del lavoro e delle professioni. Inoltre, scusi se glielo dico, ma non passa settimana che lei non lasci una sua sentenza da qualche parte su questo sito: possibile che lei non abbia mai un diavolo da fare, anziché star qui a cogliere ogni minzione fuoriuscita, anche solo per sbaglio, dal 'vaso'? Mi spiegherà un giorno da cosa deriva tutto questo suo attaccamento a questo sito e alla mia persona? Dovrei forse dire, fare e pensare esattamente quello che vuole lei? Mettiamo in chiaro che, forse, in quanto persone, nessuno di noi è perfetto? Lei, poi, se non ricordo male, non è uno di quelli che ha votato per le 5 stelle? E le farebbe piacere se la accusassi di essere un anarcoide avventurista e irresponsabile? No, vero? Ecco: allora, mi faccia il piacere di non mettersi qui col suo 'bilancino' a giudicare questo bel sito di riflessioni, che è un po' troppo comodo pontificare sul lavoro degli altri senza neanche averne minimamente alcun titolo... VL
Roberto - Roma - Mail - domenica 2 novembre 2014 15.9
Non facilmente digeribile, questo editoriale. E comunque mi sembra sia la tesi espressa da Landini da Lucia Annunziata. Anche se scritta in maniera scientificamente ineccepibile (almeno credo) mi sembra normale considerarlo in piena contraddizione da quanto da lei scritto nelle settimane precedenti. Si metta d'accordo con se stesso, per piacere.


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