
Lo scorso 6 ottobre, presso la libreria 'Feltrinelli' di via Appia Nuova in Roma, lo storico israeliano, Ilan Pappè, ha presentato il suo ultimo libro pubblicato per i tipi di Fazi Editore, con la traduzione di Nazzareno Mataldi. Si tratta di un importante contributo dopo opere fondamentali per la storiografia del conflitto israelo-palestinese, quali: ‘La pulizia etnica della Palestina’ (2008); ‘Palestina e Israele: che fare?’ (2015); ‘La prigione più grande del mondo: storia dei territori occupati’ (2022); ‘Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina dal 1882 a oggi’ (2024). Quest’ultimo lavoro si occupa, ovviamente, del collasso del progetto sionista in Palestina, inevitabile per lui dopo il 7 ottobre 2023 e il genocidio a Gaza, ma anche di uno scenario di pace possibile: uno spiraglio di luce intravisto e immaginato con la forza delle rivoluzioni. Titolo italiano: ‘Fine di Israele: il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina’. Titolo originale: ‘Israel on the Brink and the Eight Revolutions that Could Lead to Decolonization and Coexistence’. Docente di Storia all'Istituto di studi arabi e islamici e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter (UK), Ilan Pappè, in dialogo con il giornalista Daniele Mastrogiacomo, ha esposto le proprie tesi aprendosi a riflessioni sulla nostra attualità, sui fatti che, di recente, hanno scosso l'opinione pubblica e hanno spinto milioni di cittadini italiani a manifestare la propria contrarietà alle scelte di un esecutivo rivelatosi complice, ottuso nella propria vigliacca sudditanza rispetto a uno Stato genocida. Argomento d’apertura della presentazione: la straordinaria mobilitazione internazionale innescata dalla miccia sociale e politica della Global Sumud Flotilla. Mobilitazioni che, se da un lato producono un “impatto cumulativo” che magari non oggi, non domani, ma un giorno certamente avrà ricadute positive e strappano “almeno per qualche minuto un sorriso ai gazawi”, dall’altro non fanno che evidenziare il profondo scollamento da governi sui quali nemmeno i sindacati riescono più a far leva. In questi giorni di trattative, spacciate da Donald Trump come ‘piano di pace’, ma nella sostanza ennesimo progetto neocoloniale, due sono i punti principali che spingono molti ad accettarla come unica soluzione possibile: il ritiro dell’Idf da Gaza e la previsione di un governo tecnico per i palestinesi. Ma quali sono le reali prospettive? Stando a Pappé, "nel migliore dei casi, si potrebbe sperare in un cessate il fuoco come breve momento di tregua e in uno scambio di prigionieri". Tuttavia, lo storico rimane scettico persino sul raggiungimento di questi obiettivi minimi: i bombardamenti sono ancora in azione ed è lampante che Netanyahu desideri che la guerra continui. Il piano non prevede, inoltre, alcuna fattiva partecipazione dei palestinesi e il problema principale persiste: il sionismo. Il piano di pace si basa sull’assunto per cui può bastare il consenso dei leader arabi o dell'autorità palestinese. Ma questi sono sintomi, non la causa dei problemi. E la causa risiederebbe nel concetto di base del progetto sionista: l’equivalenza tra giudaismo e nazionalismo. Una corrispondenza impossibile, così come nel caso delle altre due religioni monoteiste: cristianesimo e islamismo. Nel libro, Pappé presenta le due facce di Israele: quella vecchia e laica, in apparenza liberale e socialista, fondata sulla visione del popolo palestinese come corpo alieno – una tesi ipocritamente razzista; e lo Stato di Giudea, basato su un’interpretazione messianica e teocratica sviluppatasi negli insediamenti in Cisgiordania. Dominante da 15 anni, è quest’ultima concezione a controllare, ormai, la magistratura, i media e la politica, inglobando, di fatto, la vecchia Israele. L’idea di poter ‘risolvere’ l’antisemitismo costruendo uno Stato ebraico nel cuore del mondo arabo-musulmano, a spese dei palestinesi, non funziona senza l’uso della violenza. Soprattutto se, a fronte dell’escalation, i palestinesi continuano a resistere. Proprio questo renderà sempre più arduo per Israele trovare alleati: "Può davvero Israele", si chiede lo studioso, "continuare a esistere attraverso l’uso sistematico della violenza, come fosse una ‘nuova Sparta’ del mondo arabo? E' possibile, ancora, nel XXI secolo, immaginare uno Stato basato sull’oppressione e sul costante uso della forza"? Per queste ragioni, secondo Pappé, “Israele è destinato in qualche modo a implodere: sia nella sua anima teocratica, sia in quella laburista, entrambe accomunate dallo stesso ‘nemico’. Questo è il cortocircuito che porterà alla fine del sionismo: come colmare il vuoto che tutto questo lascerà"? Sul collasso, lo storico non ha dubbi: è già iniziato con l'isolamento. Ed è necessario, sin da ora, cercare di immaginare “una realtà migliore di quella attuale. You cannot do the revolution without immagination”, ha affermato nel corso della presentazione, citando Gramsci. Una visione del futuro positiva, quella proposta da Pappé, da costruire assieme ai palestinesi, soprattutto giovani - ma non solo - con cui è costantemente in contatto. Consapevole che il declino di Israele non porti necessariamente a un miglioramento e che il rischio della catastrofe sia sempre alle porte. Ricorda quanto accaduto in Siria: la sua è una "possibile’ realtà futura". Diventa perciò essenziale, sin da adesso, pensare alla Palestina del futuro, una volta liberata dal sionismo, dalla pulizia etnica e dalla strategia genocidiaria. "E’ essenziale reintegrare i palestinesi nei loro luoghi, non in Europa”. Questo riguarda anche la Siria, il Libano e la Giordania. Senza cadere in facili slogan, Pappé riflette sulle caratteristiche che dovrebbe avere lo Stato di Palestina. In primis, i suoi valori-cardine: il principio di uguaglianza, che per la prima volta in un secolo consentirebbe una vita normale; e quello di giustizia di transizione, che permetta di affrontare problema per problema a partire dal diritto di ritorno per i rifugiati palestinesi. Reintegrare i palestinesi all’interno del loro mondo naturale – quello arabo – costituisce una buona parte dei problemi del mondo musulmano e, potenzialmente, la 'chiave' della loro risoluzione. La proposta dei “due popoli, due Stati”, secondo Pappé, è ormai “un cadavere in decomposizione”. Lo Stato deve essere unico e democratico: come arrivarci? Con strumenti che già esistono: quelli offerti dalla giustizia di transizione e dal diritto internazionale. Già esistono diversi programmi, che spiegano come attuare il diritto di ritorno dei rifugiati. Non c'è un’impossibilità tecnica, ma una mancanza di volontà politica. In tal senso, Pappé nutre grande fiducia nei giovani palestinesi e nelle giovani generazioni, che sono più pragmatiche. Che si decida di riformare la vecchia Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndr) o si decida di crearne una nuova, ciò che è certo è che debbano prenderne parte anche i “palestinesi della diaspora”. Nel suo libro, Pappé non parla neanche di pace, ma di decolonizzazione, con relativi applausi in sala. Dopo 200 anni di oppressione, non può essere un passaggio facile: si tratta di processi complicati, difficili, anche violenti. Come possiamo parlare di pace tra oppressore e oppresso? La comunità internazionale non ha mai avuto a cuore una reale giustizia per i palestinesi. L’unico interesse è sempre stato garantire la "sicurezza di Israele". Quest’ultima, che Pappé definisce "l’ortodossia della pace", è sostanzialmente “un business della pace, che ha alimentato tutti i piani – falliti – del XX e di parte del XXI secolo. Sono decenni che milioni di persone vivono oppresse da uno Stato che pratica l’apartheid e la pulizia etnica e che controlla, ormai, tutto il territorio della Palestina storica: come si può parlare di pace quando una delle due parti tiene lo stivale sulla faccia dell’altra? Per prima cosa, bisogna rimuovere lo stivale”. E’ una narrazione della Palestina differente, quella che emerge dai documenti ufficiali e ufficiosi dell’Esercito, dei servizi segreti e del ministero della Difesa: la distruzione sistematica di 500 villaggi; le numerose stragi; il cambio di nomenclatura dei luoghi; la costruzione di parchi sulle rovine. Tutto ciò discende da un unico piano: il sogno della ‘Grande Israele’. Il sionismo nasce come classico movimento colonialista europeo: costruire una nuova Europa al di fuori dell'Europa, con la conseguente rimozione delle popolazioni indigene. Un processo già sperimentato negli Stati Uniti, in Sudamerica e in Australia. Mentre, però, il vecchio Stato di Israele intendeva controllare tutto il territorio della Palestina storica senza espellere i palestinesi, bensì creando due grandi prigioni a cielo aperto, spacciate al mondo come "processo di pace", il nuovo Stato ha scelto di adottare una politica di genocidio. Obiettivo: rimuovere con ogni mezzo ciascun palestinese, estendendosi anche in Libano, Siria e Giordania. Se l’idea di fondo è simile e il nemico sempre lo stesso, a cambiare è la tattica. “Affinché il processo di decolonizzazione funzioni”, conclude Pappé, “la società ebraica dovrà accettare di essere definita nello stesso modo in cui vengono definiti i tanti gruppi etnici del Mediterraneo orientale. Finché non sarà sradicata l’ideologia nazionalista ebraica, non si giungerà mai a una soluzione”. La serata si si è chiusa tornando all’attualità più recente: come diventare più concreti, più efficaci? La cronaca delle ultime settimane ha chiaramente rivelato quanto la classe politica sia “moralmente povera”, al punto da non poter essere convinta con argomentazioni morali. Secondo lo storico, “le carriere politiche dovrebbero essere, in qualche modo, dipendenti dalle posizioni assunte non solo sulla questione palestinese, ma anche su temi fondamentali quali l’ambiente o la sanità. L’attuale modello economico, oligopolista e strapieno di barriere di entrata, soprattutto nei confronti delle iniziative dei giovani, non offre una soluzione sul lungo periodo: si opprimono i palestinesi, così come si opprimono milioni di persone in povertà, rimanendo insensibili ai disastri ecologici cui troppo spesso assistiamo”. Che la straordinaria sollevazione innescata dalla Global Sumud Flotilla possa aiutarci a riflettere non solo su come salvare i palestinesi, ma anche su come guarire la nostra società.