![Luisa Trojanis]()
Poche righe di cronaca su un processo durato diciotto anni e una sentenza destinata a far epoca, con la quale si garantisce il libero pascolo delle renne al popolo Sami del villaggio di Tossåsen, nello Jämtland - Svezia settentrionale - su quelle aree che, fino a ieri, erano loro vietate dai proprietari terrieri della zona. E’ accaduto dalle mie parti, nell’Härjedalen, una delle sei contee svedesi nelle quali è forte la presenza delle popolazioni Sami, che noi in Italia chiamiamo impropriamente “lapponi”, dal momento che ‘lapp’ significa ‘toppa’ in svedese e, da qui, la definizione dispregiativa della parola ‘lappone’, che significa persona ‘di pezze’. Senza sapere che i Sami, che nascono nomadi e hanno una storia ricca di tradizioni, sono una popolazione indigena di 70 mila persone stanziata nella parte settentrionale della Fennoscandia, in un'area da loro chiamata appunto Sápmi che si estende dalla penisola di Kola fino alla Norvegia centrale, includendo anche le regioni più settentrionali della Finlandia e della Svezia. Sicché, l’area così detta Sápmi è divisa dalle frontiere di quattro stati: Norvegia, Finlandia, Russia e Svezia, dove sono rimasti in 17 mila e dei quali tremila si occupano dell’allevamento delle renne. Perché anche qui - come nelle altre nazioni circostanti dove sono presenti - molti sono morti assieme alle renne dopo il disastro di Chernobyl (26 aprile 1986) e, a tutt’oggi, vi sono ancora vittime di quelle contaminazioni (http://www.saamicouncil.net). Naturalmente, quella che ufficialmente è definita l’area Sápmi continuo (per la comodità di chi mi legge) a chiamarla ‘Lanche’, perché la “mia Lapponia” - a dirla tutta - non coinciderebbe con quella disegnata sulle carte geografiche. Poiché infatti questa parola - Lapponia, appunto - quando la si pronuncia riempie la bocca, essa evoca lo scenario di una terra dell’abbondanza, del magico, di lontananze pervase di leggende, come lo potrebbero essere l’isola di Atlantide o persino l’Iperborea , la terra dei ghiacci e quelle genti iperboree che tanto ‘piacevano’ ad Aristotele. Pertanto, le sensazioni che si provano vivendo nella terra dei ghiacci sono indubbiamente forti, come possono esserle per chi vive sulle grandi distese africane. Almeno così pare, leggendo le pagine di Karen Blixen di ‘La mia Africa’, dove ella visse dal 1913 al 1918. Perché, anche lì, come qua da me del resto, tutto è immutato da diecimila anni e passa a questa parte. E si continua a provare quel senso di dolce smarrimento e, al contempo, di pacata euforia, che soltanto i grandi spazi dove il cielo si unisce alla terra riescono a infondere. Cosicché, ha suscitato una certa sorpresa la dichiarazione di Mariam Osman Sherifay del ‘Centro svedese contro il razzismo’, con la quale ella ha marcato un forte distinguo tra le due realtà affermando che “in Svezia, sembra una cosa normale rappresentare gli africani con caricature che non potremmo mai immaginare per altri gruppi etnici che sono stati perseguitati: come gli ebrei, i rom o i lapponi”. Beninteso, il suo era il commento a un avvenimento piuttosto sgradevole accaduto qualche ora prima al Museo d’Arte moderna di Stoccolma, dove il ministro della Cultura svedese, Lena Adelsohn Liljeroth, si era fatta ritrarre mentre tagliava una torta dalle fattezze di una donna africana - nobile causa a detta degli organizzatori, con l’intento di denunciare la pratica dell’infibulazione - che aveva provocato indignazione e accuse di razzismo, non soltanto in Svezia (http://www.vincenzomaddaloni.it/2012/04/la-ministra-svedese-nei-guai-per-una-torta/). Tuttavia, non è che anche per i Sami siano sempre ‘rose & fiori’, come si suol dire. Ne è un esempio, tra i tanti, questo processo - nella contea dell'Harjedalen durato, come detto, ben diciotto anni e che ha visto schierati, da una parte, tredici aziende Sami con cinquemila e cinquecento renne - del villaggio di Tossåsen nello Jämtland – e, dall’altra, quaranta proprietari terrieri svedesi inferociti. All’origine della vicenda giudiziaria, la transumanza delle renne sulle terre dei quaranta proprietari che, secondo loro, danneggiano - per effetto dello sfregamento delle corna - gli arbusti di conifera appena nati. Non è un problema di poco conto, poiché la pastorizia per i Sami o i Lapponi, come volete chiamarli, è la loro attività principale. E il divieto di pascolare le renne in certe aree (di fondamentale importanza nel periodo invernale, poiché la rigidità della stagione permette agli animali di vivere e di nutrirsi nelle aree boschive ricche di licheni che crescono sugli alberi) decreterebbe la fine della sussistenza e dell’economia di questo popolo millenario. Infatti, i Sami abitano queste terre da tempi immemorabili, ma proprio questa “assenza di memoria storica scritta” (soltanto negli ultimi cento anni è stata introdotta la grammatica nella loro lingua) fa di loro un popolo potenzialmente perdente nell’ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Perché - ripeto - i Sami non hanno alcuna documentazione scritta da mostrare, né opere da esibire. Si tenga a mente che un’accezione negativa, come lo può essere le temperatura costantemente sotto lo zero, diventa - per chi ha la possibilità di viverci e di sperimentare un’ esistenza fuori dai canoni, come da sempre fanno i Sami - un banco di prova, una caratteristica essenziale per misurarsi con qualcosa di primordiale e ancestrale: diventa una cultura vera e propria da testimoniare. Fino a sette anni fa non sapevo nemmeno dove si trovasse la Lapponia: la sua storia, la fauna, la flora, mi erano pressoché sconosciute. Oggi, queste distese brulle dimenticate da Dio sono parti essenziali del mio essere. D’inverno, in certe aree, sembra di osservare una tela disegnata con il carboncino: tutto bianco e nero, o nero e bianco, nel grande regno delle betulle, con le loro cortecce color argento e i rami scuri e secchi, il manto tipico dei mesi invernali. Osservando le betulle avevo da principio la sensazione che tutto si fosse perduto e che, da quegli esili rami risecchiti, non fosse uscito mai più niente di buono, come se il gelo si fosse portato via la loro linfa vitale. Naturalmente, non era così e non può essere così. Questi pochi cenni sul paesaggio aiutano a capire perché i Sami sono un popolo indigeno e non una minoranza. Qual è, infatti, la differenza tra un popolo indigeno e una minoranza? I Sami sono un gruppo di minoranza in Svezia, nel senso che ci sono pochi Sami rispetto alla maggioranza della popolazione svedese. Tuttavia, quando si parla dei diritti dei Sami va tenuto a mente che, da un punto di vista giuridico, essi sono un popolo indigeno e non una minoranza. Il diritto internazionale fa una distinzione rilevante tra le minoranze, da un lato, e le popolazioni indigene, dall'altro. Riassumendo, la differenza più grande sta nel fatto che i popoli indigeni, a differenza delle minoranze, hanno un legame strettissimo con le loro tradizionali aree d’origine. Questo vale anche per i Sami, i cui tradizionali mezzi di sussistenza, come l'allevamento delle renne, la caccia e la pesca, così come il credo un tempo sciamanico e, oggi, prevalentemente sincretista, sono direttamente collegati alla terra e alle zone d’acqua che i Sami abitano e utilizzano - ripeto - da tempo immemorabile. Naturalmente, alcuno può stabilire per quanto tempo e in che misura i Sami siano stati presenti in una regione al punto da poterla definire “territorio del popolo Sami”. Ci sono stati molti conflitti tra costoro e gli svedesi (i proprietari terrieri) proprio su questo delicato argomento. In alcuni casi, questi si sono risolti nei tribunali, come ad esempio i contenziosi sul “pascolo delle renne” nell’Härjedalen. Va pure aggiunto, per la cronaca, che il governo svedese aveva aperto un'inchiesta e incaricato una commissione apposita di accertare dove il confine delle aree Sami terminava e quello svedese cominciava. Questa indagine avrebbe dovuto essere completata entro la fine del 2004, ma siccome si procede a ‘spizzichi e bocconi’, gli accertamenti risultano “ancora in corso”. Beninteso, i Sami hanno vinto la causa e i quaranta proprietari terrieri sono stati condannati al pagamento di 190 mila euro di spese processuali. Tuttavia, questi ultimi hanno guadagnato un compromesso che stabilisce che i Sami si facciano carico dei danni che gli animali posso provocare alle colture. Nicklas Johansson, il capo della comunità Sami, si è dichiarato soddisfatto e si è augurato che questo sia l’inizio di una collaborazione tra due realtà così diverse, in modo che “le nuove generazioni possano assicurare una continuità con l’impegno dei loro padri , per il bene delle collettività e della natura che le circondano”. Bella conclusione di una vicenda molto tormentata, anche se non c’è dubbio che sulla sentenza molto avrà influito il timore di un intervento delle Nazioni Unite, sempre molto attente in fatto di violazione dei diritti dei popoli indigeni. Anche perché il professor James Anaya, presentando (20 settembre 2011) la sua relazione sul popolo Sami al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, non si era detto soddisfatto di come gli svedesi trattano i Lapponi. O, meglio, i Sami, per essere esatti.
(articolo tratto dal sito www.ariannaeditrice.it)