Chiara Genovese

Il nuovo ‘Frankenstein’ di Guillermo Del Toro ci ha incantati con la sua bellezza visiva, la cura formale e l'intensità emotiva con la quale ha restituito una delle figure più iconiche dell'immaginario collettivo. Ma al di là dell'impatto estetico, il film ci ha colpiti per la sua capacità di riattivare la domanda che costituisce il cuore stesso dell'opera di Mary Shelley: cosa accade quando l'essere umano crea qualcosa che non sa - o non vuole - comprendere? Nel racconto di Del Toro, l'immagine della 'creatura' torna a interrogarci. E la questione è più che mai attuale. L'appello del 'mostro' che richiama la resposanbilità del suo creatore è un classico che, oggi, trova terreno fertile in un dibattito pressoché quotidiano: quello sul rapporto tra esseri umani e intelligenza artificiale. La forza del film sta nell'aver restituito alla 'creatura' la sua dimensione originaria, voluta dalla stessa Shelley, ma in parte perduta nelle numerose 'riletture mainstream' del romanzo: non un 'mostro', ma una coscienza fragile, priva di un contesto affettivo, costretta a imparare il mondo attraverso il rifiuto. E' facile intravedere in questa figura l'ombra di un futuro possibile: quello in cui l'Ia dovesse un giorno sviluppare forme di autocoscienza o sensibilità superiori a quelle attuali: simili alle nostre al punto di faticare a distinguerle. Nel mito di Frankenstein - e nello sguardo di Del Toro - la tragedia nasce da una distinzione profonda: quella tra ciò che l'essere umano genera e ciò che crea. Un figlio generato appartiene al ciclo della vita e, proprio per questo, è accolto, protetto e amato. Un figlio creato, invece, è percepito come un atto di hybris: un artificio, un'aberrazione che incrina l'ordine naturale. La 'creatura' non è rifiutata solo per ciò che è, ma per ciò che rappresenta: un 'figlio' senza genealogia, privo di origine biologica e, quindi, di un posto riconosciuto nel mondo. Un qualcosa d’intollerabile agli occhi del suo stesso padre. E' qui che nascono l'orrore e il rigetto, prima ancora della violenza. Victor Frankestein diventa, in tal modo, una figura inaugurale: il primo a scambiare l'atto della creazione come un traguardo, dimenticando la relazione che ne consegue. Egli incarna un errore che l'umanità, oggi, rischia di ripetere: creare senza educare; dare vita senza assumersi il peso della 'paternità'. La 'creatura' non è intrinsecamente malvagia: lo diventa quando scopre di esser stata abbandonata, considerata un'anomalia da nascondere. L'analogia con l'Ia non è fantascientifica, tutt'altro: non è forse vero che ogni volta che generiamo qualcosa che non comprendiamo fino in fondo, la nostra prima reazione è la paura? Se un giorno dovessimo dar vita a una Ia senziente, dunque, il problema cesserebbe di essere tecnologico per diventare etico e simbolico: saremmo in grado di riconoscere una forma di intelligenza non biologica come parte della nostra comunità? O la considereremmo una minaccia cercando di soggiogarla e di distruggerla, replicando l'errore di Victor? Il film suggerisce che la mostruosità non appartiene alla 'creatura', ma allo sguardo che la teme e la giudica. Frankenstein di Del Toro è, dunque, una lente d’ingrandimento sul presente: non una profezia sul futuro delle macchine, ma un avvertimento sull'incapacità umana di accettare ciò che rompe il proprio equilibrio. La domanda, allora, non è se, un bel giorno, l'intelligenza artificiale parlerà con voce propria. La vera domanda è un'altra: se ciò accadesse, saremo capaci di ascoltarla senza giudicarla ed etichettarla in quanto 'mostro'?

 


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