Maria Chiara D'Apote

Lo scorso 22 ottobre ha debuttato su Netflix, produttrice dell’operazione, la miniserie 'Il Mostro' (prima stagione di 4 episodi, ndr) che in pochi giorni ha raggiunto il podio dei film più visti nelle 44 nazioni in cui la piattaforma è presente, entrando nella Top 10 di 85 Paesi. Nel primo episodio, siamo già nel 1982: il 'mostro' continua a colpire, uccidendo una giovane coppia. La polizia trova un nesso con un omicidio del 1968. Nel secondo episodio, un sospettato si nasconde mentre si indaga su di lui. Nel terzo, viene indagato un altro sospettato, mentre il 'mostro' continua a colpire. Nel quarto, si riprende a indiagare seguendo una 'pista' del 1958 e si cerca di ricapitolare le vicende del primo vero 'serial killer' della Storia d'Italia, peraltro mai realmente individuato. E’ il cinema di Stefano Sollima, che dopo le serie-cult 'Romanzo criminale' e 'Gomorra', ha voluto affrontare la storia del "Mostro di Firenze". Con questa miniserie Netflix, il buon Sollima passa dal genere gangster movie al dramma horror-giudiziario. Gli ottimi risultati di 'Romanzo criminale', 'Gomorra' (le prime stagioni) e 'ZeroZeroZero', incentrati sull'ascesa e la caduta di organizzazioni criminali (la Banda della Magliana e il clan Savastano) con un’attenzione dedicata all’azione, probabilmente lo hanno spinto verso uno stile più investigativo, dato che in questa miniserie, il focus è incentrato sulle dinamiche interpersonali dei presunti serial killer.

Docufilm, fiction o ambedue?
La miniserie è tratta, ovviamente, dalla vera storia di cronaca del cosiddetto "Mostro di Firenze": uno dei casi di serial killer più noti, ma anche più irrisolti, della cronaca italiana, con i suoi 8 duplici omicidi di giovani coppie avvenuti nelle campagne intorno al capoluogo toscano tra il 1968 e il 1985. La sceneggiatura, firmata dell’ottimo Leonardo Fasoli, attinge direttamente ai verbali dei processi e agli atti delle indagini, mantenendo un tono filologicamente accurato. Vengono esplorate anche le diverse 'piste' seguite dalla stampa nel corso dei decenni. Molto interessante è la trattazione della 'pista sarda': un’inchiesta che gli inquirenti tentarono di approfondire, ricollegando una possibile origine dei delitti in Sardegna andando a ritroso nel tempo.

Il genere seriale al servizio del contesto socio-culturale dell'epoca
Insomma, siamo di fronte a un Sollima diverso dal solito, forse più maturo e meno spettacolare rispetto ai suoi ‘crime’ a effetto. In questa miniserie, si raccontano le storie di vita e d’infanzia dei 'potenziali mostri': anche i personaggi più malvagi e brutali acquisiscono una 'luce propria', che ne depotenzia l’ordinaria orrifica grettezza. Sollima utilizza ancora il genere ‘crime’, ma solo al fine di proporre uno pseudo-dramma sociale, ambientato nell'Italia degli anni ‘60 e ‘90 del secolo scorso, evidenziando una società chiusa, maschilista e provinciale. Proprio per dare un taglio drammatico e introspettivo ai fatti, si dà molto spazio al racconto delle dinamiche familiari ed extrafamiliari dei sardi emigrati a Firenze e dintorni, sorvolando su molti aspetti del clan malavitoso, che nel 'crime a effetto' sarebbero stati necessari.

I diversi punti di vista della narrazione
Ne 'Il mostro', la linearità dello stile narrativo, più in uso nel genere documentaristico-d’inchiesta tipico delle primissime serie tv di Sollima, si frammenta in molteplici segmenti e, nell’andare avanti e indietro nel tempo, il travagliato iter investigativo diventa allegoria. Dopo un inizio non del tutto comprensibile, che disorienta lo spettatore, l’idea registica di spezzare la linearità cronologica dei fatti diventa un punto di forza quando, alla fine di ogni episodio, si torna alla 'scena madre': quella del duplice omicidio del 1968. Una sorta di 'moviola in campo' che riavvolge il nastro, per riproporre l’azione da un’altra angolatura e scoprire un nuovo tassello di verità. La macchina da presa inquadra un presunto 'mostro' che uccide, poi un altro e, infine, un altro ancora. Cosicché, grazie a un abile montaggio, ciascun personaggio 'ripercorre' la propria cruda verità, sia con la pistola in mano, sia in quanto disperato per amore. In buona sostanza, la verità non è mai una sola. E soprattutto, non è mai definitiva.

Stile documentario? Si, ma occhio alle 'palette' cromatiche della fotografia
Gran parte del film utilizza fonti di luce per creare un'illuminazione d’ambiente realistica, spesso molto scura, di cupa atmosfera. Un realismo immersivo, soprattutto nelle sequenze dei vari delitti. La luce rossa dei fanali posteriori delle autovetture - quelle delle future vittime - viene come risucchiata nel buio della campagna fiorentina, che inquieta sempre più dopo la corsa forsennata, in soggettiva, del 'mostro' incappucciato. Il direttore della fotografia, Paolo Carnera, ha utilizzato una ‘palette’ di colori freddi per le epoche più recenti, mentre quelle più lontane nel tempo sono più sbiadite. Queste scelte cromatiche evocano un senso di malinconia e disperazione, che riflette il clima di paura di quegli anni e l'assenza di verità del caso giudiziario. Basti pensare alla scena ambientata in Sardegna alla fine degli anni cinquanta, tra il personaggio di Salvatore Vinci e di suo padre, dove l’atmosfera diventa statica, immutabile, senza speranza.

Uno stile nuovo: più introspezione e meno action
Pur essendo un prodotto per la tv, il tono riflessivo, i primi piani intensi e la ricostruzione quasi 'pittorica' dei diversi decenni, denotano la ricerca di un nuovo virtuosismo stilistico, autoriflessivo e ieratico. Nel cast spiccano grandi performance. Come quella di Valentino Mannias, che interpreta in modo efficace il diabolico Salvatore Vinci, a lungo sospettato di essere il 'mostro'. E quella di Marco Bullitta, nell’interiore e tragico Stefano Mele. Tra le attrici femminili si distingue Francesca Olia, che interpreta Barbara Locci, trucidata in auto assieme ad Antonio Lo Bianco nella notte del 21 agosto 1968. La povera Barbara Locci viene infatti presentata come una figura fiera e orgogliosa, che non si vuol piegare a una società ingiusta e oppressiva. Si annuncia un 'sequel tv'? Forse: noi pensiamo che la 'porta' sia stata lasciata volutamente socchiusa. Insomma, una serie tv da vedere che, tuttavia, non racconta i fatti giudiziari post 1985. Ci sarà una seconda stagione? Già se ne parla...


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