Arianna De Simone

Lo scorso 2 novembre si è tenuta, con quasi 60 mila 'finisher', la Maratona di New York: la corsa podistica più dura e più ambita del mondo. Un evento che ha visto l’imponente partecipazione delle donne: il 46% dei partecipanti totali e, tra i corridori americani, il 52% delle atlete giunte al traguardo. Ovviamente, non potevano mancare molti italiani, ai quali abbiamo rivolto, al loro arrivo, una semplice domanda: cosa ha significato per te percorrere i 42,195 km della Maratona di New York? Ecco, qui di seguito, le risposte più significative.

Annamaria Pedace: “Voglio rispondervi a caldo, senza ragionarci troppo. Questa è una Maratona che non ho avuto modo di preparare: acciacchi vari, anni difficili, il Covid, broncopolmoniti varie. Sono stata ferma a lungo. Avendone già fatte tre, per me la corsa di quest’anno ha rappresentato un ritorno. L’ho intrapresa non sapendo come sarebbe andata: l’obiettivo era non farmi male, non riacutizzare il mio problema al tallone. E’ stata, perciò, una bella prova: me la sono goduta di più rispetto alla primissima, chiusa con un bel tempo. Contrariamente a quell’anno, infatti, questa volta mi sono goduta la manifestazione, mi sono guardata intorno: ho vissuto la tifoseria, i bambini, i cartelloni. Tutto questo mi ha dato una bella carica. E’ stata una Maratona diversa, con un risultato inaspettato, che mi ha reso felicissima. Ho corso senza cronometro e non ho mai guardato l’orologio. Non contavo di farla come gara. Ho vissuto una Maratona diversa dalle altre, completamente nuova”.

Francesco Savastano: “Ho corso tante volte New York: l'ho corsa cercando di andare il più veloce possibile, l'ho corsa per migliorarmi, l'ho corsa per divertirmi. L'ultima volta, l'ho corsa per farla e basta. Tutte le volte ho trovato tantissimo entusiasmo e tanta energia. New York è questo: entusiasmo ed energia in qualunque modo tu la voglia correre”.

Luca Landolfi: “Correre la Maratona di New York per me è un sogno che si è avverato. Da molti anni sognavo di partecipare. Sono convinto che una Maratona racchiuda il senso della vita. Durante il percorso può succedere di tutto: che uno abbandoni, che molli, che si riprenda, che cammini, che vada come un treno. Credo che questa sia la metafora stessa dell’esistenza. Quello che ho provato correndo la Maratona di New York è questo: vita. Partecipando, ho trovato di tutto: la bellezza di Manhattan certo, ma anche la forza e l’energia delle persone. L’ho sentita tantissimo, anche nei quartieri meno abbienti ho percepito la vita che ti attraversa: la felicità, la grinta delle persone che acclamavano tutto e tutti. E’ stato come vivere un sogno: ho capito che non siamo soli e che, a volte, anche nelle difficoltà, farsi trasportare dall’entusiasmo delle persone ti porta all’obiettivo, ti fa arrivare alla fine. Alla fine della gara, ma anche oltre gli ostacoli della vita, con entusiasmo e più facilità”.

Vincenzo De Simone: “La corsa è vita, per me è tutto. Mi ha sempre accompagnato e sempre sorretto. La Maratona è sofferenza, è sfida: dovercela fare, potercela fare. Se ho tradito mia moglie con qualcuno, l’ho fatto solo con la Maratona”!

Marco Buscema: “Quando il mio primo coach, qualche anno fa, mi disse: ‘Tu andrai a New York a fare la Maratona’, probabilmente lo fece per incoraggiarmi. All’epoca ero goffo, sovrappeso, inesperto di corsa. Ora quel mio coach si è trasferito in un’altra città, ma sta sempre con me, come un insostituibile ‘mental coach’. Mi ha fatto capire che le maratone non si corrono solo con le gambe, ma anche e soprattutto con la testa e gliene sono grato. In tutte riesco a scoprire e a trovare in me qualcosa di nuovo e inaspettato. Ma la Maratona di New York per me ha un significato particolare: ricordo alcuni discorsi sugli Stati Uniti d’America e su New York fatti con mio padre, studioso e appassionato di Storia e geografia. Durante quelle conversazioni si poteva intuire un suo inconfessato desiderio di andar lì, a vedere dal vivo ciò che aveva studiato sui libri. Nello stesso tempo, si percepiva la razionale consapevolezza di non poterlo fare. Pochi giorni prima della partenza ho deciso di portarlo con me: sì è vero, ormai non c’è più, ma ho portato con me una sua cosa. Mi avevano spiegato, infatti, che l’attesa prima della partenza è lunga e che a New York di solito fa freddo. Dovevamo portare degli indumenti da indossare prima della partenza. Questi poi, una volta lasciati, sarebbero stati donati ai poveri. Allora, ho deciso di andare nella nostra casetta in Umbria e di prendere un suo giacchetto smanicato che avevamo comprato insieme - identico, ma di taglia diversa - per stare più caldi a casa quando arrivavamo da Roma, con i termosifoni spenti. Ho preso il suo e l’ho portato a New York. L’ho indossato e, durante la mattina della Maratona, mi ha tenuto caldo fino a pochi minuti prima della partenza. Con felicità l’ho lasciato dentro gli scatoloni per i poveri, sentendo di aver realizzato un sogno non solo mio. L’ho portato lì e ora sta lì”.


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