Vittorio Lussana

Il giovane pianista e produttore, protagonista della XV edizione di ‘Piano City Milano’ con due appuntamenti live, di recente è stato inserito nella lista ‘Forbes Under 30 Italia’ per il suo impatto nel mondo della musica

Noto per la sua capacità di fondere jazz, elettronica e sonorità contemporanee, Francesco Cavestri è un geniale musicista con un repertorio originale, che riflette la sua visione musicale molto innovativa. Lo abbiamo ascoltato, infatti, in un concerto tenutosi lo scorso 24 maggio presso lo 'Spazio Vitale Barberis' di via Solferino n. 23 durante uno spettacolo musicale prodotto da 'De Amicis Music School', in collaborazione con Griffa Pianoforti e Vitale Barberis Canonico. Il giorno successivo, domenica 25 maggio, si è nuovamente esibito presso il 'Portrait Milano' di corso Venezia n. 11, in un concerto prodotto da Steinway & Sons. I due appuntamenti hanno offerto al pubblico un'immersione nelle atmosfere intime e coinvolgenti che caratterizzano le performances di Francesco Cavestri, confermando il suo talento e la sua versatilità artistica. Non a caso, la rivista 'Forbes' lo ha inserito nella lista 'Under 30 Italia', per il suo “impatto negli ambienti musicali italiani e internazionali”. Lo abbiamo voluto incontrare per raccogliere il suo entusiamo in questo momento di particolare felicità professionale.

Francesco Cavestri, cominciamo dal riconoscimento che hai ottenuto da ‘Forbes’ come giovane pianista destinato a grandi cose (o che ha già fatto cose grosse): com’è andata? Sei rimasto sorpreso per questa segnalazione in quanto influente musicista jazz?
“Sì, è stata una bellissima sorpresa. Quando è arrivata la notizia della mia inclusione nella classifica Forbes Under 30, non me l’aspettavo: ricevere un riconoscimento del genere significa che il percorso che sto portando avanti viene percepito come un qualcosa di rilevante non solo in ambito musicale, ma anche culturale e creativo più in generale. Sono stato premiato nella categoria entertainment, al fianco di figure come Celeste Dalla Porta (la Parthenope di Sorrentino), Deva Cassel (nel ‘Gattopardo’) e Olly (il vincitore di Sanremo 2025), entrando così in una selezione di personalità che hanno avuto un impatto importante sul panorama culturale italiano nell’ultimo anno. È un onore particolare sapere di essere il primo musicista jazz di sempre a entrare in questa classifica. Però, è stato anche un segnale importante: vuol dire che quello che sto cercando di fare, ovvero unire il linguaggio del jazz con mondi diversi – dalla produzione contemporanea alla divulgazione, fino ai format innovativi – viene riconosciuto non solo nel circuito musicale, ma anche in quello dell’innovazione culturale. Mi ha fatto molto piacere, insomma. Soprattutto, perché penso che il jazz, oggi, abbia bisogno di voci nuove, capaci di dialogare con altri linguaggi, con i social, con il presente. Se il mio lavoro può contribuire anche solo un po’ a questo movimento, allora è un bel motivo per continuare con ancora più passione. Questo riconoscimento da parte di ‘Forbes’ mi dà ancora più forza per continuare su una strada che unisce tradizione e innovazione, libertà creativa e impegno culturale”.

Abbiamo letto le tue note biografiche che segnalano una certa versatilità musicale, anche se la tua vera passione è il jazz: come ti è venuta l’idea di contaminare generi musicali anche molto distinti – e distanti - tra loro?
“L’idea di contaminare generi musicali diversi nasce in modo molto naturale, quasi inevitabile. Già da piccolo mi divertivo a improvvisare al pianoforte su ’Stairway to Heaven’. Poi, alle scuole medie musicali, c’è stato il colpo di fulmine: la mia insegnante mi fece ascoltare ’Kind of Blue’ di Miles Davis e da lì ho capito che il jazz sarebbe stato il mio linguaggio. Perché il jazz, per come lo intendo io, non è una ‘gabbia’: è una porta spalancata. La laurea al Conservatorio e gli studi in America sono state altrettante occasioni che mi hanno spinto a nuove scoperte musicali e ad aprirmi sempre di più a nuove sonorità. Ho capito che non ha senso, oggi, rinchiudersi in un solo genere. Il jazz stesso è nato dalla contaminazione: è una musica meticcia, che vive d’improvvisazione e di dialoghi, che cambia forma a seconda delle esperienze, degli ascolti, delle persone con cui entri in contatto. Anche se il jazz è il mio punto di partenza – e rimane la mia grande passione – ho sempre sentito il bisogno di farlo dialogare con altre sonorità, come l’elettronica, il rap, le colonne sonore, la musica contemporanea. Decisivo è stato infatti il periodo di studio in America al ‘Berklee College of Music’ di Boston e a New York, dove ho vinto due borse di studio alla ‘New School’ e ho avuto modo di frequentare la scena musicale esibendomi anche in alcuni locali di Boston e New York, dove ho avuto una serie di incontri stimolanti: ogni giorno ero circondato da artisti provenienti da mondi musicali diversissimi. E’ stato lì che ho capito quanto la contaminazione non solo fosse possibile, ma necessaria, se volevo trovare una voce personale. In Italia, questo percorso si è concretizzato anche attraverso un’importante collaborazione con uno dei massimi esponenti dell’hip hop: Willie Peyote. Con lui ho condiviso sia il palco, in un concerto molto intenso e partecipato, sia una collaborazione discografica con il singolo ‘Entropia’, uscito a febbraio 2025. Per me, la contaminazione non è una forzatura, ma una necessità espressiva. Il jazz ha una profondità e una libertà unica: metterlo in dialogo con linguaggi più contemporanei o popolari, permette di dargli nuova vita, di portarlo a un pubblico diverso, anche più giovane”.

E’ il jazz stesso che educa alla versatilità e all’apertura verso altri stili musicali? Oppure, stai solamente cercando di essere più 'pop'?
“Credo sia il jazz stesso a educare all’apertura. È una musica che nasce dall’ibridazione, dall’incontro tra culture e linguaggi diversi: ce l’ha proprio nel suo Dna, la contaminazione. Il jazz t’insegna a improvvisare, a stare nel presente, ad ascoltare gli altri, a trovare libertà all’interno di una struttura. Tutto questo, ti apre automaticamente a mondi diversi. Non è un caso che molti grandi del jazz abbiano cercato sempre nuovi territori da esplorare, dal rock alla musica elettronica, fino all’hip hop. Quindi no, non sto cercando di essere più ‘pop’ nel senso commerciale del termine: sto cercando di essere fedele a me stesso, alla mia generazione e al mio modo di vivere la musica oggi. E questo significa anche accettare che le barriere tra i generi si stiano dissolvendo. È possibile che un brano con atmosfere pop o R&B abbia una scrittura jazzistica, una produzione elettronica e una voce formata sul canto lirico: perché no? La collaborazione con Willie Peyote in Entropia, per esempio, nasce proprio da questo spirito: ci siamo incontrati grazie al jazz, ma abbiamo lavorato su un brano che non appartiene a un solo genere. Il suo modo di scrivere, diretto e profondo, ha incontrato il mio lavoro di composizione e produzione, dando vita a qualcosa che sta a metà tra il jazz, il rap e la musica d’autore. Per me, non esiste una gerarchia tra stili: esiste la qualità, la profondità, l’onestà con cui fai le cose. Se questo significa essere ‘pop’, allora ben venga. Ma sempre con una direzione chiara: rendere il jazz di nuovo vitale, attuale, contaminato. Come lo è sempre stato”.

Parlaci dei tuoi album precedenti, dove ti sei avvalso di feat e collaborazioni prestigiose: sono state operazioni musicali nate dopo incontri casuali, oppure pianificate ‘a tavolino’ dalla casa discografica?
“Tutte le collaborazioni, nei miei album, sono nate in modo autentico, mai costruite ‘a tavolino’. Non c’è stata nessuna pianificazione discografica o commerciale: ogni incontro è stato umano, musicale, spontaneo. Io lavoro in modo indipendente e seguo una visione molto personale del mio percorso artistico: nel mio primo album, ’Early 17’, realizzato quando avevo ancora diciassette anni, ho avuto il privilegio di collaborare con Fabrizio Bosso, che ha suonato in due brani. È stata un’esperienza fondamentale per me: Fabrizio è un punto di riferimento del jazz italiano, e con lui si è creata subito una sintonia musicale profonda. Oltre alla registrazione in studio, abbiamo anche realizzato un video insieme, che ha dato ancora più forza visiva ed emotiva a quella collaborazione. È uno di quei momenti che ricordo con maggior gratitudine, perché è stato un vero scambio generazionale ma alla pari, dove la musica parlava da sola. Il secondo album, ’IKI – Bellezza ispiratrice’, nasce da un’idea più concettuale, quasi filosofica: ‘Iki’, infatti, è un principio filosofico giapponese, che descrive una ricerca estetica appassionata e costante. In questo lavoro, ho voluto raccontare anche il mio lato più narrativo e sperimentale, lasciando spazio a contaminazioni con l’elettronica, il racconto sonoro e la parola. Ho scritto brani ispirati a persone, film, frammenti di vita. Come, per esempio, nel primo brano, in cui ho campionato un monologo tratto da ‘La dolce vita di Fellini’, passando per suggestioni letterarie e riflessioni esistenziali. Anche in questo caso, la collaborazione è arrivata nel modo più naturale possibile: Paolo Fresu ha accettato con entusiasmo di partecipare a uno dei brani dell’album, portando con sé la sua poetica inconfondibile e il suo suono profondamente evocativo. Un’altra collaborazione fondamentale è stata quella con Willie Peyote, tra le voci più originali dell’hip hop italiano. Ci siamo conosciuti per caso al festival ’Time in jazz’ di Paolo Fresu, in Sardegna, durante l’estate del 2023. Io ero lì con il mio trio per presentare ’Early 17’ e lui come ospite dei Savana Funk. Ci siamo ritrovati al pranzo di ferragosto, davanti a una zuppa berchiddese e abbiamo parlato proprio del rapporto tra jazz e rap. E lui mi ha detto: “L’hip hop nasce anche dal jazz”. Da lì è nata subito una connessione e abbiamo scritto insieme il brano ’Entropia’, che abbiamo presentato dal vivo il 31 ottobre 2024 alla Triennale di Milano, durante il Festival ‘JazzMi’. E’ stato anche il primo brano in cui canto: ho infatti studiato canto lirico, negli ultimi anni. E ho voluto mettere la voce al servizio di un pezzo che unisce jazz, pop, R&B e rap. Insomma, anche questa, come tutte le mie collaborazioni, è nata dalla voglia di cercare nuovi linguaggi e costruire ponti tra mondi solo apparentemente distanti. Ogni mio album è il frutto di una ricerca personale e ogni ‘feat’ nasce da un’energia condivisa. La musica, per me, è prima di tutto incontro: non con un genere o un’etichetta, ma con una persona e la sua visione del mondo”.

Parliamo ora dei tuoi concerti milanesi, tenutisi all’interno del ‘Piano City Milano’, giunto alla sua XV edizione: perché partecipare all’interno di un festival musicale? E perché suonare in due location diverse, lo ‘Spazio Vitale Barberis’ di via Solferino e, la sera dopo, al 'Portrait'? Che differenza c’è tra i due luoghi?
“Piano City Milano non è un semplice festival: è una vera e propria esperienza urbana. Nato nel 2011, è stato il primo festival musicale diffuso della città e, ogni anno, per un intero fine settimana, trasforma Milano in un grande palcoscenico a cielo aperto, con centinaia di concerti gratuiti che animano teatri, piazze, musei, cortili, giardini e spazi non convenzionali, dal centro alle periferie. E’ diventato un simbolo della vitalità culturale milanese, accessibile a tutti e capace di restituire al pianoforte una centralità moderna, trasversale, creativa. Quindi non è stato un ‘infilarsi’ in un festival, quanto sentirsi parte di una rete culturale viva e necessaria, in cui il pianoforte torna a essere protagonista del presente. In secondo luogo, ho deciso di partecipare con due concerti in due luoghi molto diversi, ma profondamente evocativi: il 24 maggio sarò allo ’Spazio Vitale Barberis Canonico’, in via Solferino. E’ un luogo che unisce tradizione e innovazione, dove ogni tessuto racconta una storia di precisione, cura e creatività. In questo spazio, la musica s’intreccia come un filo invisibile con quell’atmosfera. E il repertorio che proporrò, nasce dallo stesso spirito: cucire insieme mondi diversi — dal lirismo di Coltrane allo sperimentalismo dei Radiohead, dalla grana elettronica di Massive Attack a un tributo intimo a Sakamoto. Brani come ’Un respiro’, ’Entropia’ e ’Living the Journey’ nascono da una ricerca personale che cerca di tenere in equilibrio scrittura, improvvisazione e visione contemporanea. Poi, domenica 25 maggio, mi sposterò nel chiostro rinascimentale di ’Portrait Milano’: uno spazio dal fascino unico, elegante ma accessibile, raffinato ma con un’anima leggera e riconoscibile. Qui, il concerto sarà pensato come un dialogo con l’atmosfera del luogo. Il programma si apre con un brano inedito, ’Souvenir di un bacio’, da cui parte un viaggio musicale che tocca l’intensità lirica di Petrucciani, la poesia onirica di Joe Hisaishi, l’eleganza di Morricone e la sensibilità rarefatta di Sakamoto. Non mancheranno reinterpretazioni sorprendenti: ’Bittersweet Symphony’, ’High and Dry’, ’Livin’ on a Prayer’. Brani iconici, riletti con una voce sospesa tra jazz, virtuosismo pianistico e scrittura cinematica. Accanto alle riletture, i brani originali più rappresentativi del mio percorso — ’Entropia’ con Willie Peyote e ’IKI – Bellezza ispiratrice’ con Paolo Fresu, segnano i momenti più identitari del concerto. Il chiostro del Portrait, con la sua quiete vibrante e il suo respiro storico, accoglie queste musiche come uno spazio che, dopo secoli di silenzio, torna a essere un luogo di incontro tra memoria, spiritualità e creatività. Per questi appuntamenti speciali avrò inoltre il privilegio di suonare un pianoforte Steinway & Sons: uno strumento che non è solo un’icona della tradizione pianistica mondiale, ma anche un alleato perfetto per esplorare tutte le sfumature timbriche e dinamiche che cerco nei miei concerti. Collaborare con Steinway significa poter contare su un suono che amplifica l’intenzione, la visione e l’emozione. E farlo in un luogo come il Portrait e all’interno di un festival come ‘Piano City’, dà un senso ulteriore al mio percorso: portare il pianoforte contemporaneo in contesti che uniscono estetica, pensiero e apertura culturale”.

Tu sei bolognese, ma hai finito con lo stabilirti a Milano: la ‘piazza felsinea’ ti stava stretta? La via emiliana al successo non funziona più?
“Bologna è la mia città natale, il luogo dove tutto è iniziato. Ho cominciato a suonare il pianoforte a 4 anni e ho scoperto il jazz alle medie musicali, ascoltando ’Kind of Blue’ di Miles Davis grazie alla mia insegnante. A Bologna ho ricevuto una formazione profonda, culminata con la laurea in pianoforte jazz al Conservatorio G.B. Martini, sotto la guida del professor Teo Ciavarella: un grande musicista, mentore e punto di riferimento per tanti di noi, che ci ha lasciato recentemente. La sua scomparsa è una grande perdita, ma il suo insegnamento rimane vivo nella mia musica. E’ a Bologna che ho mosso i primi passi, anche dal punto di vista professionale: ho iniziato a esibirmi in live a 15 anni nei luoghi cult del jazz cittadino, come il Bravo Caffè e la Cantina Bentivoglio, al fianco di musicisti professionisti. Sono stati spazi fondamentali, in cui ho potuto crescere sul campo, respirando la musica da vicino, in un rapporto diretto con il pubblico e con colleghi di grande esperienza. Sempre a Bologna, nel settembre 2023, ho ricevuto un riconoscimento che porto nel cuore: il Premio ‘Strada del Jazz’, assegnato durante uno dei festival più rappresentativi della città, che ogni anno omaggia i grandi del jazz internazionale con la posa di una stella in marmo lungo via Orefici. In quell’occasione, dopo la posa della stella dedicata a Bill Evans, mi sono esibito in piazza Maggiore con un concerto dal titolo: ’Early 17 tra jazz e hip hop: l’eredità musicale di Bill Evans’. E’ stato un momento fortissimo, perché ha unito il mio percorso musicale a quello delle mie radici, in una piazza simbolo della mia formazione e della mia identità. Detto questo, a un certo punto ho sentito il bisogno di allargare i miei orizzonti. Ho proseguito gli studi negli Stati Uniti, prima al ’Berklee College of Music’ di Boston, poi frequentando, per alcuni periodi, la scena di New York, che è stata fondamentale per respirare da vicino l’energia di una delle capitali mondiali del jazz, ma anche per aprirmi ad altri linguaggi, come l’elettronica e l’hip hop. Milano è arrivata dopo, come scelta consapevole: una città intensa, sfidante, piena di stimoli e connessioni tra musica, arte, design, teatro. Qui ho potuto esprimermi in nuovi contesti, stringere collaborazioni importanti – come quella con Steinway & Sons, con cui ho condiviso eventi e progetti – e portare avanti la mia visione musicale contemporanea. Oggi vivo tra Bologna e Milano, ma il mio percorso è sempre più internazionale: ho già toccato New York e le prossime tappe musicali saranno: Amburgo, Dubai e Parigi. Non per lasciare qualcosa indietro, ma per portare ciò che ho imparato altrove, in dialogo con nuove realtà. Perché per me, la musica è questo: movimento, ascolto, contaminazione continua”.

Cosa pensi dei nuovi talenti musicali tipo Achille Lauro e Lucio Corsi? E di questi rappers che sembrano, specialmente a noi ‘boomers’, tutti uguali? Abbiamo attraversato un periodo di ‘rimescolamento di carte’ per individuare nuovi protagonisti? Oppure è la solita Italia, sempre totalmente prona agli influssi provenienti dall’estero?
“Credo che stiamo vivendo un momento di forte transizione culturale, in cui effettivamente le ‘carte’ si stanno rimescolando. Da una parte, c’è una grande sete di rinnovamento; dall’altra, spesso si corre il rischio di appiattire tutto sull’effetto, sulla visibilità immediata, perdendo profondità. Tuttavia, non mi piace liquidare certi fenomeni con giudizi generici, soprattutto quando si parla di nuove generazioni artistiche. Achille Lauro, per esempio, è un artista che ha costruito un proprio linguaggio. Può piacere o meno, ma ha avuto il coraggio di portare avanti un’estetica ben precisa, contaminando generi, simboli e codici visivi in modo coerente. Lo stesso vale per Lucio Corsi, che personalmente stimo: ha una scrittura forte, visionaria, che attinge a immaginari poetici e letterari. Non è ‘di moda’ nel senso classico. E, forse, proprio per questo rappresenta una voce necessaria, capace di raccontare il presente con un linguaggio personale. Per quanto riguarda il mondo del rap e della trap, è vero: a volte sembra tutto un po’ omologato. Ma, anche lì, bisogna fare attenzione a non generalizzare: alcuni artisti si assomigliano, ma altri stanno facendo operazioni molto interessanti. Penso a Mace, che ha un approccio musicale aperto, curato, con un’identità sonora precisa. Credo sia proprio questa la ‘chiave’ oggi: avere un’identità. Non importa il genere: conta il punto di vista, la visione. Quanto al rapporto con l’estero, l’Italia è sempre stata in equilibrio tra imitazione e reinterpretazione. Ma, in fondo, anche il jazz, all’inizio, era una musica ‘altra’ per noi. Quello che conta è cosa sei in grado di creare con gli influssi esterni: puoi copiarli passivamente o farli tuoi in modo creativo. Io, per esempio, sono cresciuto ascoltando artisti come Robert Glasper, ma anche Ennio Morricone, Joe Hisaishi, i Radiohead e Herbie Hancock. L’importante è trovare una voce personale nel dialogo tra culture, non subirle. In conclusione: sì, siamo in un momento di passaggio. Ci sono molti stimoli e molta confusione, ma anche molte opportunità, per chi ha il coraggio di non omologarsi. E, forse, il compito degli artisti, oggi, è proprio questo: cercare una forma di autenticità in mezzo al rumore”.

Questa guerra della politica alle arti e alla cultura, che tipo di segnale è, secondo te? Una reazione da parte del provincialismo subculturale che si sente minacciato? Oppure un sintomo di paurosa impotenza nei confronti di una società aperta al confronto fra tradizioni diverse e allo scambio culturale?
“Purtroppo, quello che stiamo vedendo oggi – attacchi alla libertà artistica, tagli alla cultura, diffidenza verso l’innovazione e lo scambio – non è un caso isolato: è il segnale di qualcosa di più profondo. Io credo che sia una reazione difensiva, una forma di provincialismo culturale che si sente minacciato da tutto ciò che è libero, complesso, non addomesticabile. L’arte e la cultura non possono essere controllate con la logica del consenso rapido: fanno domande, creano disagio, aprono possibilità. E chi ha paura del pensiero critico tende a vederle come un pericolo. Allo stesso tempo, è anche un segno di impotenza e fragilità di fronte a una società che, nonostante tutto, continua a evolversi, a contaminarsi, a cercare spazi di libertà. Le nuove generazioni – che siano artisti, studenti, o semplici ascoltatori – non si riconoscono più in modelli chiusi, ideologici, monoculturali: vogliono mescolare, ibridare, creare ponti. Io stesso, nel mio lavoro, cerco continuamente di far dialogare mondi diversi: jazz e hip hop, elettronica e parola, filosofia e musica, senza preoccuparmi di ‘appartenere’ a un’unica categoria. Questa resistenza politica alla cultura, alla sua libertà e alla sua molteplicità, è anche un segnale che la cultura sta funzionando: se fosse sterile o irrilevante, nessuno la combatterebbe. Ma la cultura ha ancora un potere enorme, soprattutto quando è viva, quando entra nelle scuole, nei social, nei club o nei teatri: quando è capace di generare nuove forme di immaginazione collettiva. Per questo dobbiamo difenderla, non con arroganza, ma con coraggio e coerenza. Fare arte, oggi, non è significa solo creare qualcosa di bello: è anche prendere posizione, creare connessioni, resistere all’appiattimento del pensiero”.

Abbiamo un problema di cosiddetti ‘elefanti’ che, un po’ in tutti gli ambienti, non vogliono togliersi di torno, secondo te? Oppure, stiamo semplicemente attraversando delle crisi momentanee, derivanti da una società invecchiata?
“Credo che più che di ‘vecchi elefanti’, a livello di persone, dovremmo parlare di vecchie strutture di potere, che faticano a lasciare spazio al nuovo. Il problema non è l’età anagrafica, ma l’incapacità di ascoltare, di fare un passo indietro quando serve, di creare contesti in cui i giovani possano crescere senza dover scavalcare o imitare modelli ormai logori. Ci sono adulti e anche anziani che sono ancora curiosi, in ascolto, disposti a confrontarsi. E ci sono giovani già rassegnati, già vecchi ‘dentro’. Quindi, non è una questione di età, ma di mentalità. È vero che stiamo vivendo una crisi demografica e culturale: la società italiana sta invecchiando e, spesso, si nota una difficoltà a pensare in prospettiva. Ma più che accusare chi c’è stato prima, penso sia più utile chiedersi: quali spazi stiamo creando, oggi, per chi verrà dopo di noi? In musica, per esempio, vedo che ci sono tantissimi giovani talentuosi, creativi, coraggiosi, ma raramente hanno accesso alle istituzioni, alle programmazioni, ai luoghi che contano. E non perché non siano pronti, ma perché il sistema spesso è chiuso, autoreferenziale. In tal senso, sì: esiste un blocco generazionale che frena il rinnovamento. Ma più che prendersela con le persone, io credo sia necessario trasformare i contesti. Aprire spazi, diffondere la cultura del mentoring, del passaggio di testimone. Perché non si tratta di ‘togliersi di torno’, ma di creare circolazione, ricambio, dialogo. Personalmente, ho avuto la fortuna di incontrare maestri veri — come Paolo Fresu o Fabrizio Bosso — che non hanno avuto paura di confrontarsi con me, nonostante la mia giovane età. Questo è l’esempio da seguire: non opporre le generazioni, ma metterle in dialogo attivo. È l’unico modo, questo, per uscire da una crisi che non è solo anagrafica, ma culturale”.

Dopo queste due date milanesi, cos’hai previsto di fare quest’estate? Hai un tour in programma? Dove possiamo venire a sentirti?
“Sì, ho in programma diversi concerti in Italia. Il 4 giugno, la sera del mio 22esimo compleanno, mi esibirò in trio alla Casa della Cultura ‘Italo Calvino’ di Calderara di Reno: un importante centro culturale vicino Bologna, noto per la sua programmazione artistica e per la rassegna estiva dedicata al pianoforte. Sarà una serata speciale, in un luogo che valorizza davvero la musica come spazio di ascolto e condivisione. Durante l’estate, parteciperò a vari festival, tra cui il ’Tolfa Jazz’. E subito dopo, terrò un concerto in Liguria, all’interno di una rassegna estiva, in una cornice suggestiva che annuncerò presto. Ma ho anche scelto di non sovraccaricare troppo questa stagione di ‘live’, perché sto ultimando la scrittura e le registrazioni del mio nuovo album, che vorrei avere pronto entro la fine dell’estate. Anche perché, c’è una grande novità in arrivo per settembre: a partire dall’autunno, inizierò anche un tour internazionale con la prima tappa a Dubai e sto lavorando a nuove collaborazioni in Francia, a Parigi. E, ovviamente, in Germania, dove sta prendendo forma una partnership significativa con Steinway & Sons. Per chi vuole seguirmi, tutte le date e le novità sono sempre aggiornate sul mio sito ufficiale francescocavestri.it e sui miei canali social. Ci vediamo presto, in giro...”.




(intervista tratta dal sito www.funweek.it)

La foto utilizzata nel presente servizio giornalistico è uno scatto di Adriana Tuzzo per lo studio Fienilefluo

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