
Delle tante parole proferite dopo la sentenza sulla
trattativa Stato-mafia, personalmente, stranisce e sconforta vedere un'ennesima riprova di quanto i
personalismi e i
particolarismi abbiano l'arroganza di voler prevalere rispetto a quel che dovrebbe essere
l'interesse collettivo, quindi un bene superiore, nella lotta alla
mafia e a favore della civiltà. Con molti amici palermitani, la maggior parte dei quali
'legulei', da anni ci confrontiamo sul tema in appassionate dissertazioni che durano ore. Ed è sempre molto interessante rilevare come il nostro comune
'cursus studiorum' trovi sempre
sfumature diverse per motivo (che i motivi, si sa, sono irrilevanti per il diritto) - a detta loro - della diversa
provenienza geografica e, quindi, in tal senso,
culturale. Anche per questo, sono impaziente di leggere quelle che saranno le
motivazioni di una sentenza che, già di per sé, è
storica, poiché sancisce un nuovo caposaldo giuridico, ovvero: il principio di
"sufficienza di veicolazione del messaggio mafioso da parte di una forza pubblica o politica tesa a far flettere la volontà dello Stato ai propri voleri" per essere condannati. E che chi lo ha commesso debba essere
interdetto ad eterniis dai pubblici uffici. Io, questo, lo chiamo
doveroso buon senso applicato al diritto. Lo
'stigma' di chi è riconosciuto colpevole deve essere
preteso in uno Stato di diritto, per tornare a sancire quel confine netto tra
'cose buone' e
'cose cattive' che, per troppo tempo, è stato dimenticato, a causa di una società che ha spostato il rigore e la morale in una zona d'ombra. A discapito delle
leggi e di chi in esse crede, concedendo o, quantomeno,
'permettendo' (quasi) tutto a tutti. O, almeno, troppo a molti. Tutte le altre polemiche lasciamole ai
personalismi 'egoriferiti' di chi pensa di osservare il mondo guardandosi allo specchio, anziché aprendo una finestra.
Giurista d'impresa