Vittorio CraxiL’incontro del 10 ottobre scorso, tenutosi presso il teatro Eliseo di Roma, ha posto l’obiettivo di togliere i socialisti dal drammatico isolamento politico in cui si sono ritrovati in questi mesi. La presenza di tanti amici e compagni mi ha rincuorato. E mi spinge oggi ad affermare che abbiamo fatto bene, che c’è una parte di italiani che non hanno nessuna intenzione di spegnere la luce sulla tradizione, la storia e il futuro del socialismo italiano, che non ha nessuna intenzione di far sopravvivere il Partito socialista in uno spazio diverso dalla sua autonomia, che non intende rinunciare alla propria identità, che non è affatto convinto che quanto accaduto in questi anni, ovverosia la nostra scomparsa e dissoluzione, sia “per sempre”. Nulla è per sempre: né le nostre vittorie, la nostra centralità e il nostro protagonismo politico. Ma nulla è per sempre anche per ciò che riguarda le nostre sconfitte, la nostra irrilevanza politica, l’angusto spazio di minoranza o il destino di famiglia separata, delle collocazioni innaturali, del desiderio di far sopravvivere le culture nello spazio e nel tempo senza ritrovarne il luogo. Il luogo è uno ed uno solo e continua, per noi, a chiamarsi Partito. E, nel nostro caso, noi vogliamo rappresentare e mantenere vivo, il Partito più antico e glorioso della Storia democratica del nostro Paese: il Partito socialista italiano. Non si tratta di fare Partiti piccini piccini, ma di essere e continuare a insistere su una strada chiara, coerente, su una strada nuova. Non continua ad essere, quella socialista e democratica, la griglia di valori più compatibile con il mondo nuovo, anche di fronte ai suoi cambiamenti? E non è necessario per tutti coloro che in stagioni diverse, anche in Partiti diversi, hanno conservato intatta la propria cultura socialista e democratica di preparare le condizioni e il terreno dell’inevitabile mutamento di fase politica nel nostro Paese? Chi più, chi meno, seguendo schemi e forme diverse, lo ha fatto e lo sta facendo. Si interroga in modo serio una parte della classe dirigente del nostro Paese, anche quel ceto imprenditoriale che certo è concausa delle anomalie e delle avversità che si sono abbattute sul nostro sistema politico, e che non ha lasciato senza conseguenze la capacità di affrontare con efficacia non solo le nuove sfide del secolo, ma gli specifici ritardi del ‘caso Italia’. Si prepara, o si cerca di preparare, riflettendo sui propri errori, il maggior partito della sinistra ‘dialettizzandosi’ anche sul carattere che deve assumere una nuova forza riformista. E si continuerà a farlo anche in merito al profilo che deve assumere una nuova alleanza riformista, se non vuole consegnare eternamente alle destre conservatrici o agli estremismi populisti di sinistra il centro e il cuore della propria iniziativa politica. Le recentissime vicende sulla questione del Lodo Alfano, insieme alle altre, hanno aperto nuovamente una fase di instabilità, di scontro istituzionale e politico che allargano, anziché restringere, il fossato che separa gli schieramenti, determinando un largo e vasto sconcerto fra gli italiani che pure avevano dotato questa maggioranza di un largo consenso elettorale. Certamente, noi rileviamo che esiste una linea di continuità fra la rottura democratica del ’92 – ‘94 e quanto accaduto dopo. Ma rifiutiamo di esprimere un’analogia fra l’offensiva politica che determinò la scomparsa dei Partiti storici e l’odierna vicenda che coinvolge il presidente del Consiglio. Non è esattamente la stessa cosa. E i protagonisti che allora ebbero un ruolo di primissima fila nell’ordalìa barbarica e giustizialista e che oggi si presentano con il volto ‘garantista’ appaiono, ai nostri occhi, assai ipocriti. Se è rimasto ancora aperto questo ‘vulnus’ fra sistema politico e giudiziario dopo quindici anni, ciò significa che non è stato posto alcun rimedio, che le strade scelte per regolare questi conflitti si sono rivelate le più sbagliate. Se il riferimento al supposto superamento della Costituzione formale ha, come io ritengo abbia, un reale fondamento, assai più coraggiosa continua ad apparirmi l’esigenza di scolpire la nuova forma dello Stato attraverso una nuova Costituzione che sia al passo coi tempi e ridisegni l’equilibrio e le funzioni dei poteri. Non si vive la condizione politica e sociale con le regole immaginate in un altro contesto storico e sociale. Solo una nuova Assemblea Costituente può restituire alla politica, ai cittadini, a questo Stato non solo il potere di autoriforma, ma impedire questo ‘stillicidio formalista’ che sta, poco a poco, erodendo i pilastri istituzionali dello Stato, esponendoci a rischi ed avventure. Riviviamo un film già vissuto, un copione conosciuto da oltre quindici anni: il potere dell’esecutivo non può esercitare con serenità e con pienezza la sua funzione perché un altro organo dello Stato interviene a suo danno. L’interventismo della magistratura non solo determina un indebolimento e una delegittimazione spinta ai confini dell’interruzione dell’esercizio del potere politico, ma alimenta, di fatto, il dibattito politico, poiché è la vera cifra di un ‘bipolarismo all’italiana’ che divide il Paese tra garantismo e giustizialismo, fra forca e impunità. Ciò non stupisce, perché questo genere di problemi non ha riguardato soltanto l’Italia. Tuttavia, tutto questo avviene innanzitutto in Italia, perché il nostro Paese è quello in cui il potere dell’autonomia della magistratura non ha eguali rispetto alle altre società occidentali ed in cui il tasso di illegalità nella vita politica è probabilmente uno dei più alti al mondo. La corruzione divora, in Italia, 50 miliardi all’anno: è la stima di ‘Transparency international Italia’, tratta dalle recenti analisi della Banca mondiale, secondo la quale ogni anno nel mondo viene pagato in ‘mazzette’ un trilione di dollari, senza tener conto delle malversazioni sui fondi pubblici e l’accaparramento illecito di risorse statali. Ma ciò accade anche perché l’intreccio fra economia e politica, la commistione dei gruppi di interesse e la sfera pubblica, oggi non è più mascherata dalla mediazione dei partiti, clamorosamente ‘saltata’ nel nuovo schema politico bipolare che ha deciso di adottare dei sistemi elettorali in cui è palpabile, a destra come a sinistra, lo svuotamento della funzione del politico e il deperimento della politica stessa. Non è vero che il centrodestra non è messo in condizione di governare. Piuttosto, è vero che si inseguono dei riformismi ‘à la carte’: nessuna delle grandi riforme preannunciate alla base per favorire la vittoria di Berlusconi hanno mai avuto la luce. Non quella della Giustizia, non quella del mercato del lavoro, né tantomeno quelle relative a questioni fondamentali come l’educazione pubblica, la sanità, i diritti civili, la sicurezza, il fisco. Al contrario, sono spesso state assunte decisioni fortemente discutibili, manifestando una propensione conservatrice o corporativa. Per non parlare di un’ambigua politica estera, che pone oggi l’Italia come un elemento fra i meno affidabili dell’Unione europea e maggiormente incline ad inseguire un profilo di alleanze occasionali e mercantili, anziché affidare ad un respiro più largo la pur felice intuizione del nostro essenziale ruolo ‘euromediterraneo’ giocato nella redistribuzione di nuovi equilibri internazionali ormai spostatisi sul piano politico, ma soprattutto economico, verso oriente. La crisi della nostra politica ha accompagnato il declino progressivo del nostro Paese, il suo ripiegamento, il suo evidente imbarbarimento: se l’Italia viene declassata nelle graduatorie europee e mondiali ciò non è colpa di una stampa prevenuta o di complotti internazionali. Certo, c’è sempre un interesse per i nostri concorrenti internazionali a mantenere l’Italia in una posizione di subalternità e di irrilevanza. Ma la politica nostrana, il suo gretto e meschino provincialismo, la sua attuale inadeguatezza sono senza dubbio la concausa di un simile risultato. Per questa ragione, io ritengo ancora attuale l’esigenza di mantenere in vita e rilanciare una speranza socialista e riformista. Riorganizzare una forza politica riformista, che faccia leva sulle proprie idealità, sullo spirito di conservazione della propria storia, di un certo modo di vedere le cose, di esprimere un punto di vista realistico sull’Italia che viviamo e che amiamo deve tener conto, affinché non appaia velleitaria, residuale, marginale e in definitiva inutile, di tutto ciò. Sentiamo, come d’altronde è già accaduto in passato, che una fase della politica italiana si sta per concludere. Desideriamo vivere e costruire il futuro che ci è di fronte da protagonisti. E bisogna continuare a lavorare in questa direzione. Immaginiamo, per questo, che lo spirito identitario che manifestiamo oggi debba non solo raccogliere il disagio dell’attuale fase politica, ma preparare le basi per un ritorno sostanziale alla nostra politica, quella  che conosciamo. Ci sono problemi di legalità, problemi di scarsa democrazia economica, ritardi ed errori macroscopici che avanzano nell’idea di un nuovo assetto istituzionale fondato su di un ‘federalismo squilibrato’ che produce, come sta già producendo, un progressivo avanzamento della distanza fra Nord e Sud e il conseguente collasso delle istituzioni regionali meridionali. Ci sono, inoltre, problemi di povertà crescente, invisibile, nascosta con dignità, ma non meno pericolosa: tre milioni e mezzo di italiani vivono al di sotto della soglia di povertà alimentare e si trovano costretti ad una spesa mensile inferiore ai 220 euro. Precariato del lavoro diffuso, redistribuzione dei redditi ineguale, congelamento dei salari in tanti comparti produttivi del Paese che rappresentano la vera ossatura dell’economia italiana. Una scarsa propensione e proiezione all’internazionalizzazione delle nostre imprese, che non hanno saputo vivere l’era della globalizzazione come un’opportunità, perché abituate a sopravvivere in aree protette, bensì come un pericolo. Quella stessa sensazione di pericolo e di paura che si è riflessa nel generalizzato atteggiamento dell’Italia e degli italiani nei confronti del tema dell’immigrazione. Essa è apparsa fuori controllo anche perché non bastano certe leggi, seppur severissime, che calpestano, come stanno calpestando, i diritti più elementari dell’uomo, a frenare chi scappa dalla fame, dalla siccità, dalla carestia e dal sottosviluppo. La denuncia dei crescenti pericoli e rischi derivanti dal cambio climatico e dello sfruttamento selvaggio del nostro sottosuolo non è più materia per scienziati o ambientalisti. Entrato di prepotenza nelle agende dei governi mondiali (ho avuto l’onore di rappresentare l’Italia nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite convocato su questo tema per sollecitazione della presidenza inglese), esso dovrebbe diventare sempre di più una priorità di ogni governo, di ogni amministrazione pubblica. La cura del nostro territorio e di ogni azienda inquinante, la riduzione degli elementi inquinanti nella biosfera, pena quel cambiamento climatico che si sta già manifestando con effetti devastanti. Voglio salutare alcuni compagni messinesi presenti in questa sala, con l’emozione di chi si sente un parente acquisito di quella terra. E voglio dire che se c’è una scala di priorità, in una possibile agenda riformista, essa non può prescindere da un più rigoroso e severo controllo del nostro territorio, della rilevazione degli abusi che, in particolare nel meridione, da troppo tempo hanno superato un livello di guardia insopportabile. E in Italia, spiace dirlo, l’attitudine antiecologica di questo Governo non sembra affatto essere scalfita: il piano nucleare è alle porte con conseguenze inimmaginabili e il cosiddetto ‘piano - casa’ con i vari piani regionali che si preparano ad adottare questo provvedimento non sono altro che nuovi condoni mascherati. E’, d’altronde, la cosiddetta svolta ambientale che ha sospinto Barack Obama alla vittoria negli Stati Uniti. Un cambio di passo e di stagione suggellato, peraltro, dall’assegnazione, ieri, di un Nobel per la pace che non potrà che essere di buon auspicio per il futuro e la sicurezza di tutto il pianeta. La risposta del vecchio mondo conservatore, in definitiva cieco, non è stata soltanto quella di rinchiudersi dentro la propria roccaforte ritenendola inespugnabile, ma di considerare che il mondo circostante fosse immutabile, che l’elemento regolatore dell’economia, cioè il mercato, avrebbe potuto risolvere autonomamente ogni squilibrio. Drammaticamente, la crisi finanziaria internazionale è stata la prova che questa teoria liberista è stata smentita dai fatti. Ed è assai arduo, ora, per tutti i fondamentalisti del liberismo, ammettere i propri errori, separarsi dal credo ‘reaganiano’ secondo il quale: “Lo stato  è sempre e soltanto un problema, mai una soluzione”. Al contrario, abbiamo visto che per affrontare e padroneggiare, in alcuni casi con successo, i rischi di un crack economico che poteva avere conseguenze imprevedibili sul piano della sicurezza e della pace in tutto il pianeta, si sia dovuti far ricorso alle antiche e mai andate in soffitta teorie ‘keynesiane’. Se i cardini della socialdemocrazia tradizionale, secondo alcuni, sembrano essere esauriti, anche una certa visione semplicistica, immaginata come una supposta ‘terza via’ fondata su una visione acritica della globalizzazione, è entrata in crisi, perché è la congiunzione dei presupposti keynesiani, l’efficienza economica e la giustizia sociale con la libertà individuale a rappresentare il vero pilastro per la ripresa di una politica di sviluppo in grado di rappresentare il motore di una nuova economia. E ciò è proprio il fondamento della nuova socialdemocrazia, il cui compito è tutt’altro che in crisi. E’ vero che le difficoltà economico - finanziarie sembrano non premiare i programmi delle sinistre socialdemocratiche. Ma ciò è avvenuto in Germania, dove il senso di responsabilità della Spd ha consentito una governabilità che ha premiato il primo ministro Angela Merkel. E indubbiamente, c’è anche un’evidente flessione inglese, che tuttavia giunge alla fine di un ciclo fisiologico del New Labour di Gordon Brown e Tony Blair che pure ha rappresentato, agli occhi di molti, una alternativa possibile. Ma abbiamo anche assistito, di recente, alle grandi vittorie del socialismo mediterraneo, quello portoghese e quello greco, quest’ultima ottenuta da un grande amico dei socialisti italiani, George Papandreou. Vittorie che hanno dimostrato l’invidiabile vitalità di quei Partiti, ma anche un chiaro messaggio di longevità dell’identità e della cultura socialista in Europa. In Italia la questione socialista è un tabù. Non lo dovrebbe essere almeno per noi, ma lo è per la sinistra: è un ‘non – problema’, una non – questione, mentre resta il problema della sinistra, la questione politica per eccellenza. In Italia, si afferma, il ruolo e lo spazio politico che è proprio delle socialdemocrazie europee è occupato dal Partito democratico. Ma ora che si stanno avviando alla conclusione della scelta del leader del Partito, mi permetto di domandare: che cosa è il Partito democratico? Qual è il senso di marcia politico, quale l’identità strutturale che sorregge questa scommessa politica? E’ curioso che lo slogan mutuato da una canzone di Rossi, che è il ‘leit motiv’ della campagna di Bersani, assuma il tono di un imperativo che contiene già una risposta. Infatti: “Voglio provare a dare un un senso a questa storia”, dice il testo di questa bella canzone, che prosegue “anche se un senso, un senso non ce l’ha…”. Non era chiaro sin dall’inizio quale sarebbe stato il processo che avrebbe reso impossibile contenere nello stesso Partito tutto e il suo contrario, la numeraria dell’Opus Dei e il laico Odifreddi, gli ‘industrialotti’ del mantovano e l’operaio della Tyssen, i liberaldemocratici alla Rutelli e i comunisti democratici, l’ispirazione ‘dossettiana’ cattolico - comunista e il respiro socialista e democratico? Se la sconfitta elettorale ha rappresentato un chiaro stop alla teoria dell’autosufficienza, quello che è seguito è stato un continuo ‘zig zag’ suicida che li ha condotti a questo scontro congressuale dagli esiti abbastanza chiari, ma dagli sviluppi incerti. Un grande Partito riformista, che guarda alla prospettiva di un’alternanza di governo e punta ad essere il perno di una vasta alleanza riformatrice, non può mantenersi ‘a braccetto’ con il partito dell’antipolitica per eccellenza, l’anomalia delle anomalie: il Partito dell’ex pubblico ministero Antonio Di Pietro. Non c’è stato alcun segnale di rottura. Anzi, incalzati dalla sua inizitiva e dall’iniziativa del giornale fiancheggiatore dell’antiberlusconismo professionale, la sinistra riformista sembra arrancare e balbettare incapace di opporre una resistenza e inefficace nel tracciare, segnare e dettare una nuova agenda politica. Questo è un problema. Anzi, questo è ‘IL’ problema italiano. Ed oggi, di fronte all’avanzare di uno scontro frontale così aperto, questa debolezza politica, unita all’identità spuria del più grande Partito della sinistra italiana, significa consegnare ad un tempo indefinito il giorno del riscatto e della possibilità di una reale maggioranza riformatrice nel Paese. Noi, naturalmente, non possiamo che osservare e valutare la questione dall’esterno. Ma non siamo osservatori disinteressati o pregiudizialmente ostili. Un elemento avanzato di chiarezza politica, anche sulla storia passata della sinistra, della guerra civile combattuta a sinistra, contribuirebbe a sospingere i socialisti e i socialdemocratici in un ruolo assai diverso da quello in cui sono relegati. Non accettiamo versioni di comodo sulla Storia recente, recentissima o passata, perché bisogna chiamare sempre le cose con il loro nome. E mi permetto di dire a chi, autodefinendosi un socialista e un democratico, ha omesso di dire una parola di verità sui rapporti fra il Pds e il Psi, nonché sul proprio ruolo che, all’epoca, ricordo essere stato tutt’altro che di convergenza unitaria. E mi permetto di dire anche, che il vicepresidente dell’Internazionale socialista avrebbe dovuto impedire che il suo Partito, il Pd, entrato in quel consesso grazie al parere positivo del Psi, rifiutasse di apparentarsi con i socialisti. Invece, non ho sentito su questo punto mai una parola di autocritica, non un ripensamento, non un ripiegamento, ma solo la manifestazione di una propensione e di una presunzione d’altri tempi. Finché ci sarà consentito, noi rifiutiamo qualsiasi forma di assoggettamento e di annessione non solo con quello di oggi, ma anche con quell’ideale Partito democratico che pure tante volte avevamo delineato come evoluzione naturale della sinistra negli anni ‘80. Esso, infatti, non appare un Partito democratico all’americana, bensì un Partito che assomiglia ancora molto agli ex Partiti comunisti dell’Europa dell’est: questo bisogna saperlo, per non incappare in equivoci politici. Molti hanno descritto come un accanimento terapeutico quello che i socialisti hanno cercato di operare sulle spoglie di un grande Partito e di una gloriosa tradizione. E’ chiaro che il traumatico collasso del Partito socialista e la fine della prima Repubblica abbia determinato, per molti, non soltanto un vuoto politico, ma anche un vuoto esistenziale essendo stata, quella socialista, fra le molte in Italia, anche e soprattutto una comunità. Anche se irripetibile e alle nostre spalle, noi possiamo dire, oggi, che quella è stata la stagione più concreta, ma anche la più discussa, del socialismo italiano, contrassegnata dagli innegabili successi del Governo a guida socialista nella stagione feconda del rinnovamento politico del riformismo italiano. Non meno controversa e difficile è stata la lunga attraversata delle formazioni socialiste che via via hanno cercato di riorganizzare una presenza politica sul territorio. Non possiamo sottacere anche gli errori, i ritardi, ma anche la dose di sfortuna accumulata negli anni che hanno seguito la scomparsa del Psi. Ognuno ha fatto le proprie scelte. Ed ognuno ha ritenuto che queste fossero le più coerenti con il proprio passato e le più inerenti con il proprio modo di vedere le cose nell’Italia che andava trasformandosi con il bipolarismo. Nessuno ha mai ritenuto che il Partito socialista potesse sopravvivere nella destra. Ed io continuo a ritenerlo ovvio, anche se il centro - destra ha offerto per lungo periodo un riparo. Chi è sopravvissuto aderendo alle diverse forme che il centro – sinistra ha assunto sa bene che sono state più le umiliazioni che le soddisfazioni, quel sentirsi di troppo, o inadeguato, o fuori posto, dei compagni ‘tollerati’ perché ritenuti ‘per bene’, considerando che il socialista - e non solo dagli anni ’90 in poi - era considerato un estraneo, se non quando ‘per male’. Ci siamo difesi fino all’incredibile, incomprensibile, scellerata decisione di Veltroni di apparentarsi con le ‘manette’ di Di Pietro anziché con i socialisti italiani, i quali dopo anni avevano ritrovato la strada della loro unità nel centrosinistra e che avevano fatto conseguire una vittoria insperata a Romano Prodi. Il resto è noto: fuori dalle istituzioni parlamentari nazionali, fuori dalle istituzioni Europee. In questo ultimo caso, ha contribuito la scelta di un’alleanza sbagliata. Sbagliata, perché sospinge i riformisti verso una ALLEANZA non naturale, mai pratica, fondata innanzitutto sulla necessità di far fronte alla legge elettorale e agli sbarramenti, ma difficilmente declinabile come una nuova frontiera ed un nuovo orizzonte per il socialismo italiano. Io nutro rispetto verso le componenti politiche che si sono poste il problema di non abbandonare né identità, né prospettiva e rappresentanza politica, alle esperienze e correnti più radicali della sinistra italiana. Ma non posso non vedere che su terreni politici essenziali permangono ritardi o divergenze vistose. E che, ad ogni buon conto, l’alleanza politica è ovviamente egemonizzata dall’area ex comunista, che di un approdo sul terreno della socialdemocrazia europea non se ne parla e che, qua e là, riaffiora un evidente e mai sopita vocazione giustizialista incompatibile con il nostro garantismo socialista. Un’alleanza è un’alleanza. Ma quando ci si sospinge oltre le colonne d’Ercole, esaltando il “nuovo soggetto della sinistra italiana” impegnandosi a costruire percorsi costitutivi di soggettività politica, è evidente che è impossibile tornare indietro. Ad essa diciamo no. Ed avremmo detto no con più forza se non ci fosse stato negato il terreno politico che è proprio delle scelte impegnative: il Congresso generale degli iscritti. Sparito il campo di gioco, il pallone e le regole è difficile immaginare una cosa diversa che costruire il terreno di convergenza di tutti i socialisti. Ci si può chiedere di restare in minoranza in un Partito socialista, ma non ci si può certo chiedere di restare in minoranza in una corrente socialista minoritaria di quello che si configura già come un Partito, che darà vita alle sue reti territoriali, che ha un leader riconosciuto e che nei telegiornali è già definita nuovamente come “la sinistra radicale”. Ecco, in questo luogo i socialisti riformisti non ci vogliono stare. Ognuno si assuma le proprie responsabilità. Ho letto nelle ultime ore appelli e riflessioni di vario tipo e di varia natura. E’ tale il nostro senso di responsabilità che non era necessario prendersi la pena di cercare di cambiare il nostro punto di vista o il senso della nostra marcia.  Se si vuole tornare indietro dalle proprie decisioni è sufficiente sostenere un’unica lista socialista, in Italia, alle prossime elezioni regionali. Diversamente, sarà inevitabile, come ritengo che sia, partecipare a delle consultazioni regionali - che saranno elezioni generali - con uno spirito autonomo, di opposizione alla destra e a questo sistema, con un simbolo politico che ci rappresenti e che rappresenti una tradizione chiara e definita del socialismo italiano. Ed essa, come è arcinoto ai più, non può che essere rappresentata dal garofano rosso. Non si tratta di inventarsi svolte, partitini o ‘predellini’ socialisti: non è di questo che stiamo parlando. Noi non siamo degli improvvisatori, né degli avventurieri. E, per quanto mi riguarda, non è sufficientemente essere figli di leader per dichiararsi e ritenersi tali, specie quando questo leader si chiamava Bettino Craxi. Tuttavia, ciò mi consente di capire meglio di altri e di avere maggiore responsabilità di altri verso un popolo, quello socialista, che conosco bene e che so che oggi desidera e pretende che non si abbandoni il terreno della ricostruzione socialista, che vuole contribuire al rilancio dell’Italia, che si pone l’obiettivo di guardare con maggiore fiducia nell’avvenire rafforzando un area politica riformista, laica, socialista liberale, riformatrice , aperta ad altre esperienze politiche culturali. Continuare a svolgere un ruolo essenziale anche in condizioni di minoranza può servire, oggi, a tracciare una prospettiva più ampia per domani. Oggi, questo è possibile. Oggi, questo è auspicabile. Mi è stato anche rimproverato di voler “rinchiudere i socialisti in uno sgabuzzino”. Capisco che la consuetudine dei rapporti con Fava abbia ispirato questa metafora per così dire ‘carceraria’. Ma io non voglio rinchiudere proprio un bel niente: sono i socialisti che vogliono sopravvivere all’aria aperta, nella loro autonomia, nella loro libertà d’azione, forti della propria identità, orgogliosi della propria Storia, liberi di preparare, per sé e per questo Paese, un futuro migliore. Una rivoluzione mancata ha fatto seguito ad una aspettativa riformista mancata. Eppure, i riformisti si sono dichiarati nell’uno e nell’altro schieramento, hanno fatto sfoggio verbale dichiarando non solo la propria appartenenza alla cultura riformista, ma anche declinando il proprio obiettivo ed approdo.




(articolo tratto dall'intervento alla Convention nazionale del Psi del 10 ottobre 2009 tenutasi presso il teatro Eliseo di Roma)
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