Vittorio Lussana

Non ci sarebbe molto da aggiungere in merito alla recente sentenza della Corte costituzionale che ha respinto l’ennesimo tentativo della politica di chiudersi in se stessa e porsi al riparo dal potere giudiziario. Infatti, riflettendo in ‘punta di diritto’, la nostra classe dirigente può anche legittimamente chiedere nuove forme di tutela rispetto alle incursioni e alle prevaricazioni di un potere dello Stato rispetto agli altri, ma ha torto quando pretende di farlo tramite una legge ordinaria, che rappresenta, su questi versanti giuridici estremamente delicati, uno strumento troppo relativo rispetto alla fonte ‘superprimaria’ del nostro ordinamento: la Costituzione. La domanda, perciò, sorge spontanea: perché non è stata scelta sin dall’inizio la via di una legge di modifica costituzionale? Forse perché non c’era tempo e bisognava assolutamente proteggere l’attuale presidente del Consiglio dal problema di dover subire dei processi nel corso del suo mandato? Ma allora si trattava di un’ennesima legge ad personam, ipocritamente camuffata da norma di principio a tutela delle più alte cariche dello Stato. Le eccezioni sollevate dalla Consulta c’erano tutte, eccome. Con il risultato che il centrodestra si ritrova ad aver perso ancora più tempo. La questione di principio che sottende questo genere di polemiche e di ‘beghe’, in realtà, è un’altra: il nostro capitalismo ‘interno’, i nostri grandi manager e imprenditori non sanno e non vogliono fare impresa se non andando a mungere la ‘mucca’ dei finanziamenti dello Stato. E, per far questo, ovvero per generare nuove forme di investimento, occorre una classe politica messa nuovamente nelle condizioni di poter decidere speditamente le grandi riforme strutturali da mettere in cantiere. Ciò, tuttavia, come anche il recente passato ha dimostrato, può favorire corruzioni e corruttele, spartizioni o operazioni di autentica pirateria finanziaria: in sostanza, il vecchio metodo della ‘unzione delle ruote’. La verità, dunque, è che possediamo un ‘sistema – Paese’ che proprio non vuol mettere sul ‘tavolo’ del denaro di tasca propria, poiché conosce e applica, quasi esclusivamente, la metodologia di cercare di trarre extra – profitti dalle iniziative pubbliche, vera e propria causa del tracollo della prima Repubblica. Il vero problema è questo qui, a prescindere dalle precipue vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi. In quest’analisi, naturalmente, sono escluse le piccole e medie imprese italiane, le quali, invece, da decenni dimostrano un coraggio a dir poco fantastico nel loro voler rimanere a tutti i costi sui mercati nonostante le cicliche fasi di crisi economica congiunturale. Ma senza una classe politica messa anche solo parzialmente al riparo dalle possibili iniziative della magistratura, le grandi riforme strutturali di cui ha bisogno il nostro Paese non si faranno mai, semplicemente perché non conviene a nessuno. Nessun politico prende decisioni coraggiose, oggi, in particolar modo in determinati settori, perché teme che anche la minima ‘zona grigia’ di corruzione che potrebbe venirsi a creare gli cada addosso come una ‘tegola’. Inoltre, nessuna grande azienda italiana se la sente di investire danaro se non viene messa nelle condizioni di ricavarne fortissimi extra – profitti, come dimostrato di recente dallo scandalo delle General Contractor che si sostuiscono allo Stato percependo fondi pubblici - spesso utilizzandoli solo parzialmente – e che si rendono penalmente irresponsabili di ogni eventuale dissesto. E così ci ritroviamo, ad esempio, ad aver speso per la costruzione di una nuova rete ferroviaria ad alta velocità 4 volte in più della Francia, una nazione, tra l’altro, 3 volte e mezza più estesa dell’Italia. Quindi, le recenti polemiche sul Lodo Alfano consiglierei di lasciarle perdere e di non pensarci più. E affermo ciò per il semplice motivo che quel che ha provato inconfutabilmente quella vicenda è che non solo il centrodestra italiano, ma tutta l’attuale classe politica non è minimamente in grado di approcciare una benché minima operazione legislativa di riforma dello Stato. Che i consiglieri legali del premier non siano stati capaci di vedere al di là del proprio naso fa il paio con un giustizialismo di sinistra che non si rende conto di bloccare ogni genere di rilancio economico del nostro Paese. Ciò non tanto a causa di una forma di ignoranza giuridica che porta movimenti politici come l’Idv di Di Pietro e altre forze extra – parlamentari a teorizzare, come ha scritto qualcuno di recente, uno Stato ‘aguzzino’, bensì per il timore che in Italia, nel caso la politica fosse nuovamente protetta da forme di immunità, venga a ricrearsi un caos catastrofico di ruberie e malversazioni. Ragioni, come si vede, ce ne sono da una parte e dall’altra: da una parte, non ha del tutto torto chi cerca di far comprendere che ogni sistema capitalistico, di qualsiasi Paese o di qualsivoglia regime, è costretto a tollerare delle ‘zone grigie’ di corruzione pur di riuscire a portare a compimento un’opera pubblica; dall’altra si sostiene, con qualche fondamento, che il nostro non sia un popolo ‘bene educato’ ad una sana e onesta gestione del danaro della collettività. Sono queste le due ‘tesi di fondo’ che si stanno scontrando apertamente ormai da 15 anni. Ma si tratta di un ‘guado’ dal quale l’Italia non riuscirà mai a trarsi fuori, almeno fin quando non comprenderà pienamente l’esigenza di dover ridisegnare una nuova società, nuove regole di sistema, nuovi valori condivisi.




(editoriale tratto dal web magazine www.periodicoitaliano.info)

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