Vittorio Lussana

Bobo Craxi ha presentato in questi giorni una nuova formazione politica ispirata al socialismo autonomista, una forza che si riunisce sotto il simbolo del Garofano e che nasce ufficialmente a Roma presso il teatro Eliseo. C’è da dire, innanzitutto, che dopo la fine del vecchio Psi, sempre più chiara e lampante è divenuta la mancanza di una formazione autenticamente riformista nel complesso del panorama politico italiano. Per molti cittadini, infatti, il riformismo rappresenta uno di quei termini misteriosi che costringono coloro che, come il sottoscritto, tentano di spiegare alla gente comune alcuni contenuti della politica, ad immani sforzi di ripetitività e ad un certo grado di fossilizzazione degli argomenti da trattare. Tanto per citare un esempio, in questi ultimi anni sono penetrati almeno un poco, nel linguaggio comune di tutti i giorni, i termini ‘laico’ e ‘laicità’, ma ciò è avvenuto dopo un quindicennio di sforzi allucinanti da parte di quel poco che è rimasto degli ambienti più ‘equidistanti’ dell’informazione italiana. Ora si pone, perciò, la questione di dover spiegare agli italiani cosa significhi, cosa rappresenti e cosa in effetti sia il riformismo in tutte le sue distinte ramificazioni. Poiché esistono almeno tre tipologie di esso: a) il riformismo ‘massimalistico’, derivante da antagonismi fortemente radicali tra le diverse forze politiche; b) quello ‘peggiorativo’, tendente a guardare con indulgenza determinate distorsioni delle normali procedure ‘di sistema’ sulla base di una vecchia scuola giuridica di matrice consuetudinaria, che pretenderebbe di rendere forme, atteggiamenti e convenzioni vere e proprie fonti di diritto; c) infine, vi è il riformismo ‘propriamente detto’, ovvero quel tipo di gradualismo politico che, partendo da specifiche basi dottrinarie del nostro ordinamento, cerca di introdurre nuovi strumenti normativi di gestione della cosa pubblica. Proponendo alcuni esempi chiarificatori, il riformismo massimalistico, che una parte dei cittadini italiani detiene pienamente nel proprio patrimonio ‘genetico – culturale’, può forse venir spiegato come quel genere di politica fortemente ‘pattizia’ che prima di giungere ad un compromesso effettivamente praticabile tra due o più parti tende a far esplodere tutte le contraddizioni fornite dal contesto oggettivo di ogni singola questione concreta. Il riformismo ‘peggiorativo’, invece, è sintetizzabile concettualmente attraverso l’esempio della proliferazione degli autovelox sulle nostre strade statali, che trasformano un provvedimento, che si vorrebbe sanzionatorio o di semplice deterrenza, in una fonte di guadagno per enti locali e piccoli comuni erigendo a ‘modello’ una forma di vessazione nei confronti di ‘pendolari’ e normali cittadini. Venendo infine al riformismo propriamente detto, esso è quell’opera di ‘correzione normativa’ di disfunzioni, ingiustizie e lacune sociali che, se non predisposta per tempo, tende a dividere la società su fronti contrapposti, rischiando di trasformare ogni riflessione pubblica in un gigantesco ‘duello’ di massa. Come si può ben comprendere, quest’ultima ipotesi è quella più rispondente a quanto sta capitando nel nostro Paese da quindici anni a questa parte: il nostro attuale ceto politico in realtà non conosce praticamente nulla del vero riformismo. Ed è per questo motivo che ogni trasformazione economica e sociale non avviene, come intelligentemente diagnosticato alcuni anni fa dall’On. Massimo D’Alema, in condizioni di ‘normalità’ o di ‘naturalezza’ produttiva, se si vuole, ma quasi sempre in seguito ad immani ‘travagli’ che rendono ogni decisione politica frutto di situazioni eccezionali o dettata da condizioni di assoluta emergenza. A causa di un simile ‘analfabetismo’, la classe politica italiana tende perciò a perdersi in polemiche e diatribe tese a mutare di pochissimo ogni singolo problema che si vorrebbe affrontare, generando altresì micidiali dibattiti in ambienti associativi e culturali generalmente ‘prezzolati’, accidiosi e inconcludenti. Un po’ come quel tale che, invece di salvare un suicida convincendolo a non commettere l’insano gesto, decide di dargli una spinta per poi poter raccontare l’accaduto secondo l’interpretazione che più gli torna comoda. Non di rado capita, in particolar modo tra i partiti del centrodestra – ma non solo - che alcune argomentazioni particolarmente controverse vengano addirittura trasferite in precisi ambiti della propria militanza, al fine di rimodulare la posizione politica del partito sulla base dei risultati emersi dalla discussione interna. La qual cosa si traduce col vecchio adagio: “Vi guiderò ovunque voi vogliate andare”, cioè l’esatto contrario di una forma di leadership politicamente stabile, forte, lungimirante. Di converso, nel Partito democratico forte appare l’impronta burocratico – massimalista della linea politica genericamente espressa. Il Pd, infatti, è nato dalla ‘fusione a freddo’ di due nomenclature uguali ed opposte: quella post comunista, che per propria natura ha il problema di una totale mancanza di ogni qualsivoglia bussola di orientamento liberaldemocratico e che, dunque, tende ad affidarsi al consueto movimentismo ideologico di mobilitazione ‘protestataria’ della militanza, con quella non meno burocratica e vieppiù ‘sclerotizzata’ discendente dall’antica sinistra democristiana. Per farla breve: una ‘giraffa’ innestata sopra al corpo di una ‘balena’. Ma il vero riformismo - è bene che gli italiani lo sappiano - può essere solamente quello socialista. Anche perché esso, in Italia, si è evoluto esattamente così, cioè come una tendenza teorizzata da Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Leonida Bissolati imperniata sull’opportunità di sostenere, tramite ‘appoggio esterno’, dei governi di orientamento liberaldemocratico al fine di porli nelle condizioni di attuare vaste riforme economiche e sociali. La tesi di fondo del riformismo è che il socialismo possa essere raggiunto solamente in una società a capitalismo fortemente avanzato, in cui le capacità produttive del Paese abbiano raggiunto livelli altissimi in quanto frutto della volontà cosciente della popolazione. Il che non si traduce nel classico schematismo ‘contrattualistico – sindacale’ in cui la maestranza operaia viene costretta ad accordarsi a tutti i costi con i detentori dei mezzi di produzione, ma come uno sforzo di completamento dei distinti cicli storici del capitalismo preso nel suo complesso teso a preparare una classe dirigente in grado di guidare la società verso la fine di ogni sfruttamento e di asservimento dell’uomo sull’uomo. Fu proprio in base a tali concetti che nacque la critica riformista al comunismo, il quale ha sempre praticato la ‘forzatura’ delle ‘maturazioni naturali’ delle condizioni necessarie all’avvento di una società socialista attraverso il potere totalitario di avanguardie di minoranza: una ‘scorciatoia’ che ha sempre finito col negare i valori più umanistici e libertari del socialismo stesso. Bene: la spiegazione ‘dottrinaria’ del riformismo ‘propriamente detto’, a grandi linee è questa qui. La questione che, a questo punto, rimane da affrontare è la seguente: è in grado questa nuova formazione guidata da Bobo Craxi di ‘declinare’ in forme politicamente convincenti il ‘verbo’ dei Turati, dei Bissolati e dei fratelli Rosselli, ovvero le principali ispirazioni politiche e culturali di Bettino Craxi e del socialismo autonomista? Un simile quesito non può che esser posto al resto della sinistra italiana, nella speranza che essa riesca finalmente a comprendere come, demonizzando il ‘craxismo’ e dando il proprio contributo all’annientamento del Psi, sia stato sostanzialmente avallato un vuoto politico assai più profondo del danno quantitativo o meramente ‘numerico – elettorale’ calcolato di per sé. Serve a poco teorizzare una ‘casa comune’ di tutti i riformisti se non si avrà il coraggio di calarsi nel ‘crepaccio geologico’ creatosi a sinistra, poiché rinnegare Bettino Craxi e la tradizione socialista ha significato solamente risalire a Crispi senza neanche passare per Giolitti.




(articolo tratto da www.periodicoitaliano.info)

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domenico capussela - milano italia - Mail - martedi 13 ottobre 2009 14.43
scendiamo alla realtà, questo pd è un amalgama non riuscito (d'alema)vincerà bersani, rutelli con casini faranno il grande centro una parodia della balena bianca, il pd andrà a"donnine di facili costumi"franceschini regalerà una cassa di lambrusco al padre partigiano ed un mazzo di crisantemi al nonno camicia nera, marino ritornerà ad operare evitando la cresta sulle note spese, il buon berlusconi rimarrà a palazzo chigi sin dopo l'imbalsamazione ed io non voterò più pd ma scheda bianca. con i miei migliori saluti. domenico capussela


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