Vittorio Lussana

L’Italia è un Paese da sempre avvezzo alla repressione sessuale, particolarmente esposto alle controffensive del cattolicesimo controriformista. La sola eccezione ammessa a tale soffocante influenza è sempre stata quella rappresentata dal cosiddetto ‘doppio senso’, che per lungo tempo ha fornito l’unica ‘valvola di sfogo’ di un regime culturale pseudo - perbenista traboccando nelle riviste e negli spettacoli teatrali. Ma alle donne italiane, tanto per fare un esempio, almeno sino alla liberazione sessuale del 1968 non era permesso, secondo misteriosi canoni di imposizione comportamentale, né di indugiare con lo sguardo su un attore cinematografico di bell’aspetto, né di sorridere di fronte agli sketch dei comici più inclini alla battuta lasciva. Questo clima di castità, culturale e verbale, ha impregnato per interi decenni il panorama della produzione artistica, letteraria, cinematografica e persino televisiva del nostro Paese: mentre a Parigi Georges Brassens e Juliette Gréco, già negli anni ’50 del secolo scorso interpretavano brani musicali imperniati sui testi di Jean Paul Sartre, qui da noi, sino alla fine degli anni ’60, continuavano ad imperversare le ‘marcette melense’ di Armando Fragna (‘Arrivano i nostri’, ‘I cadetti di Guascogna’ e ‘I pompieri di Viggiù’) ed il seguitissimo festival di Sanremo consacrava canzoni che grondavano uno stucchevole patriottismo (‘Vola colomba’), una satira tremebonda (‘Papaveri e papere’), lacrimosi elogi della maternità (‘Tutte le mamme’), squallidi inviti al servilismo (‘Arriva il direttor!’). I baci, poi, nelle canzoni italiane per lunghissimo tempo rimasero letteralmente proscritti, mentre l’amore era ammesso solamente per ricordare che andava a finire male (‘Grazie dei fior’) o che comunque generava sofferenza e infelicità (‘Viale d’autunno’ e ‘Buongiorno tristezza’). Anche la prosa di giornali e riviste fu costretta per decenni ad utilizzare un linguaggio stracarico di circonlocuzioni e sinonimie: ‘petto’ per ‘seno’, ‘stato interessante’ per ‘gravidanza’, ‘lieto evento’ per ‘parto’, ‘interruzione di maternità’ per ‘aborto’ e persino ‘pugno’ per ‘cazzotto’. Il culmine venne toccato quando il settimanale ‘Oggi’ pubblicò, nel 1954, un’inchiesta dedicata alle abitudini sessuali degli americani (si chiamava ‘rapporto Kinsey’) in cui l’editore, Edilio Rusconi, venne bruscamente richiamato a tradurre quell’indagine in lingua italiana sostituendo l’aggettivo ‘sessuale’ con ‘amoroso’ e il sostantivo ‘coito’ con il più poetico (!) ‘espansione sentimentale’. Magistrati e commissioni di censura, insomma, hanno sempre lavorato, in questo Paese, al fine di correggere, tagliare, modificare, modulare, manipolare e proibire, come se non avessero nient’altro da fare. Nel cinema, la scure del bigottismo si è più volte abbattuta, tramite l’accusa di “scarso senso del pudore”, su autentici capolavori come ‘Il diavolo in corpo’ di Claude Autant – Lara o ‘Sorrisi di una notte d’estate’ di Ingmar Bergman, mentre per quanto riguarda il teatro, nel 1961 si giunse addirittura a proibire la rappresentazione de ‘l’Arialda’ di Giovanni Testori. Nel campo pubblicitario, soprattutto nella presentazione di capi di abbigliamento e di biancheria intima, i pericoli erano addirittura all’ordine del giorno: mostrare l’attaccatura di un seno era lecito sui giornali femminili (“tra donne, si può”), ma diventava pericolosissimo sui manifesti murali, poiché questi si imponevano allo sguardo dei bambini innocenti. Si dovette dunque seguire l’esempio dei rotocalchi, in cui le foto delle attrici venivano regolarmente ritoccate ricoprendo le scollature con pizzi e merletti, naturalmente al fine di evitare vere e proprie condanne penali per oltraggio al pudore. La gravità di una simile ‘etica dominante’, che ha sempre ‘sbandato’ tra un falso ‘buonismo’ di stampo ‘cattoprogressista’ e veri e propri trasalimenti ‘clericofascisti’, era rappresentato soprattutto dal fatto che essa veniva imposta soprattutto alle donne. Esse erano costrette ad atteggiamenti quotidiani di illibatezza e di riserbo, mentre per gli uomini un ben preciso ‘gallismo virile’, di diretta discendenza fascista, rappresentava un comportamento da interpretare obbligatoriamente. Questo ‘gallismo maschilista’, oggi fortunatamente in gravissima crisi di identità, è sempre stato un tratto del nostro carattere nazionale che il fascismo aveva fortemente incoraggiato e che il clero cattolico non ha mai voluto combattere. La Chiesa, in particolare, su tali frontiere culturali è totalmente disarmata o costretta a continui ‘arroccamenti difensivi’ e, nel tentativo di aggirare l’ostacolo, da sempre esercita una pressione spaventosa sui bambini attraverso un uso terroristico della confessione, che ha trasformato i cosiddetti ‘atti impuri’ nel peccato per antonomasia, profetizzando, a chi pratica la masturbazione, una morte precoce, malattie veneree o addirittura la cecità. Inoltre, il disinteresse cattolico per l’omossessualità, oggetto di un vero e proprio abominio sociale, è la più esplicita di queste gravissime ‘spie’ di discriminazione materiale e morale, poiché la stabilità del matrimonio cristiano deve rappresentare il perno primario di ogni istituzione sociale ed il luogo di riproduzione elettiva della fede e del culto! Una sessuofobia di tal genere è dovuta principalmente ad una forma di gravissimo disagio culturale, che finisce col trascendere ogni rispetto verso le leggi dello Stato in quanto sintomo di insicurezza di fronte ai fenomeni di secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita individuali. Ma attenzione: anche il Partito comunista ha sempre imposto ai propri militanti un’etica sessuale molto severa. La riprovazione generale circondò sempre la convivenza tra Palmiro Togliatti e Nilde Jotti, la rottura del matrimonio tra Luigi Longo e Teresa Noce o la sofferta omosessualità di Pier Paolo Pasolini. Ciò, naturalmente, a causa della necessità di sottrarre argomenti ad una propaganda che attribuiva al marxismo la teoria del libero amore e nella convinzione che una sessualità non regolata fosse frutto di degenerazioni del sistema capitalistico. Sta di fatto, che l’accordo di fondo tra queste due soffocanti pedagogie collettive, quella cattolica e quella comunista, ha finito con l’incidere profondamente sull’equilibrio psicologico e sul destino sociale di intere generazioni di italiani, specie nelle aree più marginali, dove più strette erano le usanze e più facile la sorveglianza sugli individui. Ciò ha finito col reprimere l’immaginario erotico degli italiani arrestandolo ad uno stadio puramente adolescenziale, ribaltando, altresì, ogni metro di giudizio pedagogico nei confronti delle generazioni più giovani, come argutamente sottolineato e denunciato dallo scrittore Giovanni Arpino nel libro ‘L’amore in campagna’: “Proprio i ragazzi più sfrontati, più allegri, più intelligenti, che meno si preoccupano di violare tacite leggi, sono quelli condannati a restare nel mucchio e ad essere privati di una fortuna normale”.

I METODI DELLA REPRESSIONE

Per i cattolici, in particolare, galvanizzati da un’egemonia che essi pudicamente hanno sempre definito “presenza cristiana nella società”, l’invito alla repressione sessuale è stato solo uno degli aspetti di un progetto educativo ad ampio raggio, volto a formare un esercito di fedeli devoti con l’ausilio di strumenti come la stampa per ragazzi, l’associazionismo sportivo, il cinema, gli oratori fondati sul binomio gioco – preghiera, la letteratura giovanile e, soprattutto, la scuola. A ‘confessionalizzare’ l’istruzione italiana di ogni ordine e grado provvide l’esponente democristiano Guido Gonella, assiduo frequentatore di ambulacri vaticani e ininterrottamente ministro della Pubblica Istruzione dal 1946 al 1951. Circondato da un agguerrito stuolo di consulenti e coadiuvato da potentissime organizzazioni di insegnanti cattolici, egli riuscì, in qualche modo, a “legare l’avvento della democrazia postfascista ad istanze incentrate sullo sviluppo della partecipazione popolare attorno al dispiegamento della sua vocazione comunitaria e religiosa basata sulla famiglia, sui gruppi delle comunità locali e, naturalmente, sulla Chiesa”. Ma Gonella non si limitò solamente a saziare il desiderio di rivincita di ambienti decisi a disciplinare ‘otia e negotia’ di un settore particolarmente nevralgico dell’impostazione culturale, morale e civile degli italiani, bensì si impegnò a fondo al fine di rendere più proficuo, in termini moralistici, l’esercizio stesso dell’insegnamento, almanaccando una riforma della scuola media ‘unica’ attorno a criteri totalmente personalistici, che configurarono il triennio postelementare in quanto mero segmento dell’obbligo scolastico e non come un ‘raccordo’ per il proseguimento degli studi. Oltre a ciò, la scuola italiana, per interi decenni, è stata variamente inondata di testi e manuali assolutamente ‘sermoneggianti’, come ad esempio i lavori di Fanciulli, Anguissola e Visentini, sponsorizzati direttamente dall’Azione cattolica, mentre nulla venne fatto, invece, per assecondare un fondamentale istinto alla lettura dei nostri ragazzi. Anzi, la letteratura per bambini e per adolescenti, da sempre infarcita di avventurismo ‘salgariano’ per i maschietti e dal ‘vezzosismo’ di Louise M. Alcott, - l’autrice di ‘Piccole donne’ - per le femminucce, venne addirittura condannata in quanto impregnata di ideologia ‘superomistica’ (Salgari) o squisitamente ‘edonistica’ (Alcott), mentre sarebbe stato più auspicabile un tratto culturale ispirato ad un esotismo a sfondo coloniale e missionario. Ed ecco allora tutto un fiorire di tentativi editoriali, come ad esempio la collana ‘Vie della sapienza’, curata da Piero Bargellini per l’editore Vallecchi o l’ingresso nella narrativa del pedagogista Luigi Volpicelli con il suo, peraltro modesto, ‘Giuffé’. L’attenzione maggiore, ribadisco, rimase concentrata sui testi di letteratura ‘coatta’, in cui venne letteralmente assassinata ogni forma di sapere eclettico e di passionalità giovanile alla lettura formativa attraverso ‘pesantissime’ antologie scolastiche – Centiloquio, Pagine aperte, Due secoli –, alle quali l’instancabile Bargellini vi si dedicò nell’idiota convinzione che un semplice marchio di convalida ministeriale potesse renderle formidabili veicoli di trasmissione dei principi cristiani. Ma ecco che, proprio sul più bello, a scompaginare ogni piano di irrigimentazione cattolica della formazione culturale giovanile giunsero, inaspettati e vincenti, i ‘fumetti’: un veicolo eccezionale di lettura facile e divertente. Subito, le gerarchie cattoliche cercarono di debellarli, ora teorizzando interventi a colpi di forbice, ora investendo il mondo politico italiano di anatemi e di inviti a battaglie ‘campali’. Secondo Luigi Volpicelli, infatti, i fumetti nascevano “con la pistola in mano”, non potevano disincagliarsi dalla rete di violenza e di sadismo che li rendeva allettanti ed erano ‘figliastri’ di un cinematografo sulle cui nulle potenzialità didattiche il giudizio rimaneva inappellabile. Per la cultura cattolica si trattò di una sconfitta micidiale, clamorosa, causata da un cipiglio conservatore che riuscì solamente a sottostimare persino le grandi capacità artistiche di alcuni disegnatori italiani, come ad esempio quelle del ‘delirante’ Benito Jacovitti, con le sue tavole affastellate di surreali lische di pesce e di assurdi salami tagliati a metà.

LA GUERRA DEL CINEMA

Proprio sul cinema, invece, confidavano i sacerdoti preposti agli oratori parrocchiali. In particolar modo in Veneto e in Lombardia, lo ‘schermo’ divenne il più comune alleato del campetto di calcio. Ma un conto era possedere una grande rete di distribuzione e grandi mezzi di proiezione, ben altro disporre in quantità sufficiente le pellicole da proiettare. E ciò perché le indicazioni del Centro cattolico cinematografico erano talmente perentorie da arrivare al punto di non risparmiare alcun genere di film! Vennero ad esempio giudicati ‘pericolosi’ quei lavori che: a) contenevano o giustificavano, anche implicitamente, errori dogmatici e colpe morali come il divorzio, il duello, il suicidio, la maternità illegittima; b) mettevano in cattiva luce persone, istituzioni e cerimonie sacre e religiose; c) accreditavano princìpi antisociali o dannosi alla convivenza civile; d) contenevano scene immorali o gravemente provocanti, come scene di seduzione prolungate e suggestive, oppure nudità complete o quasi, anche se presentate in siluetta; e) proponevano danze che eccitavano passioni o mettevano in rilievo forme o movimenti indecenti. Lo sguardo dei giovani venne poi completamente scotomizzato con la successiva preclusione di: a) scene capaci di eccitare i sensi, come baci e abbracci prolungati; b) scene, riviste e balli in abiti succinti, come quelle girate in locali notturni; c) scene di svenimento; d) motti salaci; e) drammi, gialli e polizieschi in cui il delitto era messo in luce favorevolmente, oppure in cui si insegnava, indirettamente, l’arte del delitto (furti, rapine e assassinii) per cui la pellicola riusciva in quanto scuola di delinquenza; f) scene brutali e violente atte ad educare allo spirito di violenza. In pratica, nelle sale parrocchiali risultò obiettivamente difficile proporre una programmazione solo ed esclusivamente ‘per tutti’ o ‘per tutti con riserva’. E si finì col dover ammettere anche dei film classificati come ‘per adulti’, pur subordinandoli ai ‘nulla osta’ della Commissione diocesana, poiché diversamente la programmazione e la stessa rotazione delle pellicole non avrebbe potuto essere soddisfatta dalla sola “produzione ammessa come lecita”. Ma proprio questo punto della cinematografia “ammessa come lecita” divenne il vero nervo scoperto della ‘presenza cristiana nella società’. Finanziariamente solide com’erano, nonché benvolute dal potere politico – soprattutto quando Giulio Andreotti si insediò alla presidenza dell’Ufficio centrale per la cinematografia, direttamente dipendente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri - le società di produzione cinematografica cattoliche dimostrarono infatti di non possedere né il respiro culturale, né le capacità professionali necessarie a confezionare prodotti quanto meno dignitosi sotto il profilo artistico. E furono costrette ad assoldare veterani della macchina da presa o giovani registi emergenti, i quali offrirono le proprie competenze tecniche senza, peraltro, vendere l’anima: con la ‘Orbis’, ad esempio, collaborò lungamente lo stesso Cesare Zavattini, il padre del neorealismo italiano, insieme a Pietro Germi, Alessandro Blasetti e allo stesso Vittorio De Sica. Tuttavia, la ricerca di una sintesi tra intransigenza ecclesiastica e produzione religiosamente orientata ma pur sempre verosimile, finì col generare risultati addirittura grotteschi, come ad esempio capitò per il toccante ‘Fabiola’, tratto dall’omonimo romanzo del cardinale britannico Nicholas Patrick Wiseman, che venne ammesso alla visione solamente ‘per adulti’ poiché vi comparivano “nudità difficilmente eliminabili dall’ambientazione di una vicenda della Roma dei primi martiri cristiani”. Questi e numerosi altri ‘corto circuiti’ finirono solamente col confermare l’impressione che la tanto ricercata ‘presenza cristiana nella società’ fosse tanto forte sul piano degli apparati difensivi quanto debole su quello delle attitudini creative, artistiche e propositive. E che, sotto la superficie di un’apparente uniformità del mondo cattolico, covassero sordi conflitti tra una gerarchia quasi esclusivamente preoccupata della vigilanza, dell’occultamento e della condanna e ‘schegge di laicità’ desiderose di svolgere un’attività in nome dell’elaborazione di nuovi linguaggi comunicativi. Ne è riprova ciò che accadde dopo che l’apposita commissione ministeriale negò il nulla osta per la circolazione nelle sale cinematografiche di ‘Gioventù perduta’ di Pietro Germi: per tutta risposta, 35 registi inviarono una lettera sdegnata di protesta al Sottosegretario Andreotti, notoriamente vicino ai prelati della Curia. In calce a quel testo e alle denunce che esso conteneva (“ogni giorno che passa è un nuovo fatto, una nuova minaccia, un taglio al montaggio, un’osservazione sulla sceneggiatura, una modifica, un suggerimento, un sorvolamento, una telefonata…”) non facevano mostra di sé solo i nomi di Vittorio De Sica, Alberto Lattuada, Roberto Rossellini, Luigi Zampa, Luchino Visconti, Luigi Comencini, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, ma anche le firme di Alessandro Blasetti, Mario Soldati (che aveva diretto per la ‘Orbis’ il cortometraggio: ‘Chi è Dio’?) e addirittura di Romolo Marcellini, il regista del leggendario ‘Pastor Angelicus’. Andreotti, tuttavia, non si intimidì e continuò imperterrito la sua politica di punzecchiature alla produzione interna, di indulgenza verso gli esercenti che non applicavano le norme sulla proiezione obbligatoria di film italiani, di ricorso a tutte le possibili ‘serrature’ censorie tese a tutelare, presso l’opinione pubblica internazionale, l’immagine di un Paese deturpato dalle calunnie dei neorealisti. Andreotti arrivò addirittura al punto di pretendere di svolgere il mestiere degli altri facendo pubblicare sulla rivista settimanale della Dc, ‘Libertas’, una sorta di breviario deontologico in forma di lettera aperta indirizzata a Vittorio De Sica, reo di disfattismo per aver denigrato l’Italia con la pellicola ‘Umberto D.’. Quella pagina segnò uno dei momenti più bassi di una cultura cattolica che si è sempre rifiutata ostinatamente di voler indagare le movenze di fondo della società: “Se è vero che il male”, scrisse Andreotti, “si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di ‘Umberto D.’ è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale. E’ stato detto che la cinematografia deve realisticamente configurarsi al vero, non rappresentando una società irreale, bugiarda e caramellata. Principio in sé accettevole per un tipo di produzione, ma sempre con un limite di equilibrio, di oggettività e di proporzioni senza le quali ci si perde nelle vie disgregatrici dello scetticismo e della disperazione”. In pratica, Andreotti affermava di avere la verità ‘in tasca’, in riferimento alla sua pretesa di oggettività, e avocava a se stesso l’incarico di insegnare a De Sica come svolgere il proprio mestiere: una superbia assurda, lontana intere galassie da ogni sano principio di libertà individuale, artistica e culturale! I sottosegretari succedutisi al pupillo di De Gasperi non si discostarono mai dalle linee maestre di un simile ‘testamento spirituale’, così come non se ne discostò la commissione di censura istituita successivamente presso il ministero del Turismo e dello Spettacolo. A volerla ripercorrere, la storia delle mutilazioni, dei ritocchi e delle protesi a cui sono stati sottoposti soggetti e sceneggiature, ne viene fuori un’aneddotica spassosamente fosca e sinistramente esilarante: Aldo Vergano venne costretto, ad esempio, ad espungere da ‘Il sole sorge ancora’, la sequenza di un personaggio che sfuggiva a una retata nazista sgattaiolando da un bordello travestito da prete; ‘La passeggiata’ di Renato Rascel, rifacimento di una novella di Gogol che si conclude con un suicidio, venne corretto con un finale edificante in cui il protagonista restituisce fiducia alla prostituta di cui si è innamorato attraverso un ‘pallosissimo’ predicozzo; da ‘Suor Letizia’, di Mario Camerini, venne amputata la scena in cui una monaca perdeva il ‘velo’ ed un bambino con il quale questa stava giocando si stupiva di trovarsi di fronte proprio ad una donna! Ma l’aspetto più grave di tali vicende riguarda le idee cadute in abbandono, i progetti rinchiusi per sempre nel cassetto, le opere mai realizzate per la censura imposta a registi sommersi da innumerevoli intimidazioni ‘virtuiste’ e da produttori spaventati dalla prospettiva del disastro commerciale: allo stadio di abbozzo incompiuto, fra gli innumerevoli altri, rimasero ‘Gli uomini del fiume’ di Carlo Lizzani e Felice Chilanti, che raccontava drammaticamente l’alluvione del 1951 in Polesine; ‘Noi che facciamo nascere il grano’ di Giuseppe De Santis e Corrado Alvaro, che trattava delle condizioni di vita dei contadini nei latifondi della Calabria; ‘Minatori’ di Massimo Mida e Carlo Cassola, che intendeva narrare le durissime giornate dei cavatori del grossetano; ‘Il prete bello’, di Luigi Zampa, tutto imperniato sul sottoproletariato ‘picaresco’ di una piccola città veneta. Che la capacità dei cattolici di far presa sull’immaginario sociale attraverso il cinema dipendesse esclusivamente dai crivelli dei loro poteri di veto, era dimostrato dal fatto che la produzione ammessa come lecita veniva spesso scavalcata da spettacoli popolari solo esteriormente in regola con i precetti della religione. Ad attirare, nel dopoguerra, un oceanico afflusso di pubblico, ad esempio, furono i film di Raffaello Matarazzo – in particolare la trilogia composta da ‘Catene’, ‘Tormento’ e ‘Figli di nessuno’ - che in non pochi finali emanavano ‘odore di sagrestia’ e che, tuttavia, possedevano una struttura assai stratificata, in cui la preponderanza della musica e lo stile della recitazione richiamavano il melodramma ottocentesco, la frequenza degli intrighi, dei colpi di scena e delle agnizioni era ricalcata sul romanzo d’appendice e i cui temi di fondo erano quelli di amore e morte, violenza e sangue, uniti a paure per colpe ancestrali, peccati originali, aborti, violenze subite, incesti, traumi incancellabili. Ma se le opere di Matarazzo fotografavano un mondo temporalmente immobile, scosso da pulsioni antropologiche più che sociali ed umettato da una irrazionalità folcloristica largamente diffusa ancora oggi, il cinema neorealista seppe invece presentarsi come il tramite più robusto – e senza dubbio più accorato – della rivalutazione di un’Italia arcaica e popolana che il governo delle camicie nere aveva cercato di dissimulare, piuttosto che soccorrere. Anche se i grandi maestri, da Roberto Rossellini a Luchino Visconti, si rifacevano a poetiche diametralmente diverse, tutti i loro film del ‘periodo d’oro’ del neorealismo erano accomunati dalla scoperta della gente di buon cuore che abitava le campagne e le periferie e che, negli anni della Resistenza e poi del dopoguerra, aveva saputo dar fondo a riserve di rettitudine sconosciute ai beneficiari dell’opulenza illusoria distribuita dal fascismo ed ostentata nelle commedie di Mario Camerini. A prendere la parola sullo schermo erano, infatti, i dolcissimi parroci di borgata (‘Roma città aperta’), i pescatori di una palude polesana raggiunta dalla guerra prima che dal progresso (‘Paisà’), i ragazzini sottoproletari candidi e ingegnosi (‘Sciuscià’ e ‘Ladri di biciclette’), le maschere dolenti di una Sicilia petrosa e senza storia (‘La terra trema’), i pensionati e le servette murati nello squallore delle loro camere in affitto (‘Umberto D’.): un’umanità integra e generosa, insomma, che doveva essere sottratta al male del ‘moderno d’importazione’, dopo che era stata guarita dall’ingannevole promessa dei telefoni bianchi, dei grandi magazzini e delle ‘mille lire al mese’.

L’AVVENTO DELLA TELEVISIONE

Alla causa di una democrazia identificata con l’ordine pubblico, ma infiacchita dalla sonnolenza e avviluppata nella noia, avrebbe dovuto giovare la nostra televisione di Stato. Ma nel biennio in cui ne divenne Direttore generale Filiberto Guala, vennero emanate delle norme di autodisciplina che, in molti punti, sembravano praticamente estratte di peso dalle indicazioni del Centro cattolico cinematografico. In esse non erano consentite: a) la rappresentazione di scene che potevano turbare la pace sociale o l’ordine pubblico; b) l’incitamento all’odio di classe o la sua esaltazione; c) sabotaggi, attentati alla pubblica incolumità, conflitti con le forze di polizia, disordini pubblici, che tuttavia potevano essere rappresentati solo con somma cautela e sempre in modo che ne risultasse chiara la condanna; d) opere di qualsiasi genere che portassero insidia all’istituto della famiglia, che risultassero truci o ripugnanti, che irridessero alla legge o che risultassero contrarie al sentimento nazionale; e) particolare riguardo doveva essere mantenuto di fronte alla santità del vincolo matrimoniale e verso il rispetto delle istituzioni; f) il divorzio poteva essere rappresentato solamente allorquando al trama lo rendesse indispensabile e l’azione si fosse svolta ove ciò risultava permesso dalle leggi; g) le vicende che derivavano dall’adulterio e che con esso si intrecciavano non dovevano indurre antipatia verso il vincolo matrimoniale; h) attenta cura doveva essere posta nella rappresentazione di fatti o episodi in cui apparivano figli illegittimi. In ogni caso, autodisciplina a parte, nella messa a punto dei cosiddetti palinsesti l’allora responsabile, Enrico Pugliese, oscillava di continuo tra una sottovalutazione delle possibilità del mezzo, una blanda vena enciclopedica e l’intento di educare l’italiano ‘medio’ sotto la luce in cui esso appariva ai suoi ‘tutori’ ecclesiastici. Gli spettacoli di maggior successo furono perciò i testi teatrali mandati in onda alla sera del venerdì; il programma ‘L’amico degli animali’, condotto da Angelo Lombardi, uno zoologo un po’ sgrammaticato; una rubrica di curiosità erudite, etimologiche e un po’ antiquarie dal titolo ‘Una risposta per voi’, che venne affidata ad un paffuto professore di biblioteconomia, Alessandro Cutolo, frequentatore, a Napoli, del mitico salotto di ‘casa Croce’. Inoltre, vennero introdotte le trasmissioni a quiz ricavate da modelli americani e francesi: ‘Lascia o raddoppia’, presentato da Mike Bongiorno, ‘Il musichiere’, condotto da Mario Riva, ‘Telematch’ con Silvio Noto, Enzo Tortora e Renato Tagliani, ‘Campanile sera’, ancora con Enzo Tortora e Mike Bongiorno. Questi programmi erano rivolti all’everyman con l’espresso scopo di rassodarne la tranquilla coscienza di benpensante. Tuttavia, ciascuno di quei programmi finì con l’imprimere sul costume una propria impronta specifica e peculiare: ‘Lascia o raddoppia’ santificò una cultura nozionistica, mnemonica, del tutto priva di attitudini critiche; ‘Il musichiere’ preannunciò l’avvento di un dialetto romanesco leggermente ‘purgato’ come lingua nazionale del Paese; ‘Telematch’ creò modi di dire che divennero subito metafore di uso nazionale; ‘Campanile sera’, che si riprometteva un qualcosa di molto vicino ad un’operazione di affratellamento nazionale tramite la competizione tra due località spesso assai distanti tra loro, rappresentò un vero e proprio atto di ratifica di un Paese composto unicamente da gonfaloni. Infine, per quanto piatti, insulsi e slavati, i primi telegiornali consacrarono definitivamente il successo del nuovo mezzo di comunicazione: storicamente in poca confidenza con la carta stampata, gli italiani scoprirono finalmente che il notiziario in diretta rappresentava una ‘finestra sul mondo’ e dietro le benedizioni, le varie ‘pose’ di ‘prime pietre’ o l’inquadratura di qualche doppio petto ministeriale, essi cominciarono a intravedere qualche ‘squarcio’ di verità.

LA TERAPIA

In conclusione, la Storia di questo Paese è soprattutto quella di una modernità narcotizzata per mezzo delle sue stesse tecniche, allo scopo di imporre le vessazioni di una volontà rieducativa incapace di distinguere fra il contratto di assicurazione stipulato da un Paese con la Chiesa e la persistenza, nel suo seno, di una religiosità a sfondo autoritario e familista. Noi dobbiamo dire basta ad un uso strumentale della religione che si presenta, dopo il crollo delle ideologie, come unico metodo di condizionamento paternalistico, poiché ciò ha sempre rappresentato, lungo tutto il corso della Storia dell’umanità, un cattivissimo segnale: i peggiori disastri, la maggior parte delle guerre, la grande maggioranza degli eventi infausti sono accaduti a causa delle religioni, allorquando esse sono state utilizzate in quanto metodo di organizzazione sociale e collettiva. Votando per il Partito socialista di Enrico Boselli, Bobo Craxi, Franco Grillini, Gavino Angius e Valdo Spini gli italiani avranno la certezza di poter vivere, negli anni a venire, in una società libera e schietta, lontana da ogni forma di conflittualità, poiché la vera laicità non è assolutamente in contrasto con i sentimenti religiosi più profondi. E chi vuol farvi credere ciò, mente spudoratamente. Incontrare Dio è come un ‘tesoro’ ritrovato in un campo: colui che lo trova, vende tutto quello che ha per acquistare quel campo. Ma quel campo è la nostra anima, che non possiamo e non dobbiamo a nostra volta rivendere a chi pretende di sostituirsi a Dio in persona.


Lascia il tuo commento

Cristina, Krizia - Chiavari ( ge) - Mail - venerdi 11 aprile 2008 17.26

Chi ben inizia e' a meta' dell'opera
Patrizia Patti - Roma - Mail - venerdi 11 aprile 2008 14.4
Articolo molto interessante, Lussana ha messo bene in luce che le censure non giovano all'evoluzione spirituale dell' uomo e della società.


 1