Elisabetta ChiarelliSembrerebbe l’incipit di una fiaba di Esopo. E invece è uno dei paradossi più suggestivi del panorama filosofico di tutti i tempi, che gli estimatori di cultura umanista conoscono molto bene. E’ davvero misterioso il significato che si cela dietro quest’allegoria. E viene da pensare che il suo ideatore, Zenone, nel corso del V secolo a. C. abbia volutamente omesso di fornire una 'chiave' interpretativa specifica. Un possibile significato potrebbe risiedere nella constatazione circa la complessità dell’essere umano. Ogni individuo, infatti, è un abisso di mistero. La ricchezza e la profondità della sua anima e, in particolare, la complessità delle dinamiche psicologiche insite nell’uomo, ne costituiscono un fattore di progresso, ma al contempo, allorquando si genera un conflitto interiore, possono configurare un deterrente per la sua crescita, fino a determinarne il completo immobilismo. In questo senso si potrebbe, forse, spiegare il paradosso in oggetto, secondo cui l'evoluzione dell’essere umano, in fondo, è un’illusione. Non può non cogliersi l’estrema attualità di questa metafora filosofica, se si guarda agli esiti delle ultime elezioni svoltesi in Russia nel marzo scorso. L’acclamazione plebiscitaria che ha fatto da sfondo alla riconferma di Vladimir Putin al vertice delle istituzioni russe ha senz’altro un impatto disarmante sull’opinione pubblica, poiché mostra un popolo completamente plagiato, per non dire 'drogato'. Purtroppo, nella realtà in cui siamo immersi, sembra sempre più consolidarsi la prassi secondo cui niente va mai come dovrebbe. Un’umanità che conosce, ormai, soltanto la logica del potere e del consumo ha edificato una società fondata sull’assurdo, in cui la tragedia ha ceduto definitivamente il posto alla farsa. Insomma, Putin è al potere perché il popolo lo vuole. E come dar torto a chi afferma questo? La matematica non è un’opinione: l’87% dei consensi significherà pur qualcosa, no? Ma chi sostiene questo, in fondo, checché se ne dica, rappresenta buona parte della società civile. La quale, tuttavia, ignora altri due paradossi, entrambi tratti, questa volta, dalla psicopatologia clinica. Si tratta della ‘sindrome della rana bollita’ e dell’impotenza appresa. Esse sono le due facce della stessa medaglia: inquadrano quella particolare condizione umana per cui un individuo, abituato a sopportare sistematicamente le sopraffazioni, finisce per accettarle, senza opporvi più resistenza. E’ una realtà clinica molto più diffusa di quanto possa sembrare, ormai radicata anche nei gangli della 'civilissima' e filoamericanissima società in cui viviamo. L’assuefazione a ogni forma di forzatura, corruzione e disuguaglianza ci ha definitivamente disumanizzato, rendendoci incapaci di provare ogni forma di sdegno o di dolore. La ricerca costante della guida dell’uomo 'forte' è la conseguenza inevitabile di tutto ciò: ci si rassegna all’idea che siamo destinati a soggiornare eternamente in uno stato di minorità, in attesa che un imprecisato 'superuomo' scenda in campo, di tanto in tanto, per guidarci fuori dalle tenebre dello spirito in cui siamo immersi. E non si tratta certamente di qualcuno che si distingua per particolari doti o finalità morali, tutt’altro: ci si ritrova, piuttosto, ad avere a che fare con soggetti non certo più intelligenti, ma semplicemente più 'furbi' della media. Abili 'pupari', più pratici degli altri nel saper muovere i 'fili' che ormai, completamente storditi e inermi, ci avvincono. Non si comprende, invece, che l’evoluzione individuale è un sentiero lungo e tortuoso, costellato di cadute, come quelle che caratterizzano il percorso di crescita di un bambino. Soltanto da queste s’impara a rialzarsi e a rimanere in piedi sempre più a lungo e stabilmente. A patto che ogni caduta non sia intesa semplicemente come una replica delle precedenti, bensì un’occasione inedita per conoscere meglio se stessi e il mondo che ci circonda. E’ quindi sulla valorizzazione del 'merito', che nuovamente si gioca la partita della rinascita. Tuttavia, affinché il movimento non resti  soltanto un’illusione 'zenoniana', ma assuma fattezze e connotazioni concrete, è necessario rifondare le basi di un’umanità diversa su un risveglio della mente, su una selezione della classe dirigente fondata su parametri valoriali il più possibile oggettivi, basati su una solida formazione culturale, sul rafforzamento delle competenze e non sull’osservanza di vuote quanto equivoche prassi formali. Perché non c’è proprio niente da fare: è la cultura a rendere liberi. E’ la fatica dello studio quotidiano, del lavoro onesto, l’amarezza della sconfitta e la soddisfazione per una vittoria guadagnata a purificare e a emancipare le coscienze dalle proprie lacune e fragilità. Ed è solo in questo modo che l’autonomia individuale torna a essere il fine a cui tendere, capace di sbaragliare tutti i pronostici e, a maggior ragione, gli esiti plebiscitari di elezioni politiche 'feticcio'.





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