Vittorio LussanaIlaria Cordì è una ragazza e una giornalista estremamente simpatica e intelligente. Le sue battute ironiche e i suoi modi originali di 'tipizzare' sociologicamente alcuni frangenti della vita quotidiana e di redazione sono rimaste 'scolpite' nella mente di colleghi, amici e conoscenti, i quali tendono regolarmente a replicare alcune sue 'definizioni' tanto lucide, quanto brillanti. Dotata di un 'fiuto' particolare per tutte le novità del mondo giovanile e di un intuito non comune, in questi anni ha collaborato con una serie di testate giornalistiche di rilievo e si è cimentata, con ottimi risultati, anche nel giornalismo radio-televisivo. Laureatasi in Filosofia e in Giornalismo presso l'Università di Roma Tre, sin da giovanissima ha cominciato a collaborare con la rivista mensile 'Periodico italiano magazine' e con il sito 'Laici.it', per poi allargare la propria 'sfera' di collaborazioni verso altri prestigiosi siti di approfondimento politico, fino ad approdare nelle redazioni di alcune importanti radio regionali e televisioni locali, completando ulteriormente la propria formazione professionale. Le eccellenti capacità auto-organizzative, il grande spirito di sacrificio, l'estrema puntualità e precisione sul lavoro e nella vita sono le sue qualità principali, derivanti da un personalissimo senso del dovere, che l'ha trasformata in una redattrice grintosa e in una giornalista affidabile. La fortuna di essere umanamente molto simpatica e di possedere una voce piacevole e seducente la rendono, inoltre, un potenziale personaggio, televisivo o radiofonico, assolutamente particolare. Di recente, ha utilizzato i propri 'ritagli di tempo' per riordinare la sua tesi di laurea in giornalismo, grazie alla quale ha ottenuto una votazione finale di 110 con lode, dando alle stampe la sua prima pubblicazione dedicata al linguaggio metaforico nel giornalismo politico e intitolata: 'La metafora seduttiva nei giornali di opinione', edito da Aracne. Dato l'ormai imminente 'passaggio' elettorale, ci è parso opportuno scambiare insieme a lei alcune impressioni e riflessioni, anche al fine di dotarci di qualche strumento in più prima di accingerci a giudicare tutto quel che leggeremo, vedremo e ascolteremo nei prossimi mesi.

Ilaria Cordì, nel suo libro 'La metafora seduttiva nei giornali d'opinione', edito da Aracne, lei analizza il 'dominio metaforico' nel linguaggio giornalistico e politico: può spiegarci meglio di cosa si tratta? E come le è venuta una simile 'folgorazione' in materia linguistica?
"È vero: è stata una 'folgorazione'. Questo tipo di metafora, che ho voluto definire 'seduttiva', deriva dagli studi fatti nel corso dei miei anni universitari, ma anche dai differenti approcci vissuti nella professione giornalistica. Da quel momento, iniziò una vera e propria ricerca, associata a uno studio più approfondito del giornalismo e della comunicazione politica, poiché sono convinta che esistano forme linguistiche particolarmente consone sia agli articoli di analisi, sia ai discorsi politici. Con l'aiuto della linguistica cognitiva di Langacker, la tesi da me portata avanti continuava a diventare sempre più reale, poiché riscontravo come l'uso di metafore, in questi contesti, aiuti il giornalista/politico a condizionare il lettore/elettore. Il meccanismo è semplice: se il cittadino che si deve recare alle urne, conscio di un passato politico difficile o discutibile, assiste a una sorta di 'messa in scena' grazie alla quale, con belle parole, lo s'invita a votare un Partito anziché un altro, egli risulterà influenzato nella scelta dal materiale informativo e visivo, quando non pubblicistico, che ha ricevuto, scatenando nel suo subconscio uno stimolo che andrà a modificare la sua scelta in sede di voto. In sintesi, bisogna dire che, ancora oggi, l'individuo rimane letteralmente 'ipnotizzato' di fronte a qualcuno che riesce a parlare e a comunicare in forme e modi coinvolgenti. Ma perché questo? Perché con l'avanzare dei 'social' e la nostra tradizionale scarsa dimestichezza con la lettura e la comunicazione scritta, il linguaggio tende a 'chiudersi' in quelle 500 parole usate quotidianamente e, nel momento in cui si viene a contatto con qualcosa di apparentemente nuovo, se ne rimane esterrefatti, dunque 'sedotti'. E i giornalisti/politici, tutto questo lo sanno".

Nel volume, lei analizza il modo di comunicare di due personaggi molto importanti della politica italiana, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi: può spiegarci quali sono le affinità e le divergenze che contraddistinguono questi due leader?
"Ho scelto queste due figure perché entrambe hanno cambiato il modo di fare politica in Italia, ma soprattutto il modo di 'comunicare' la politica. Silvio Berlusconi, con la 'discesa in campo' del 1994, ha fatto conoscere ai giornalisti e all'italiano medio come poteva cambiare la comunicazione fra la prima e la seconda Repubblica. La stessa identica cosa vale per Matteo Renzi. Tra i loro due modi di comunicare cambia unicamente il periodo storico: il primo nel 1994, il secondo nel 2014. Assai poco si differenzia anche nel loro linguaggio: entrambi preferiscono utilizzare delle metafore. Non siamo poi così lontani da quella fabbrica del consenso 'mussoliniana' di cui Silvio Berlusconi e Matteo Renzi hanno la medesima 'stoffa' comunicativa. E, nonostante il fallimento delle rispettive 'fabbriche dei desideri', in entrambi è presente una consapevolezza e un ricordo ancora vivido della vera politica, quella composta da Partiti, manifesti, comizi, leader autorevoli e rispettosi. In questo panorama, una cosa non è cambiata: il ruolo dei giornali nella politica, nelle campagne elettorali e nella 'turbopolitica', che rimangono il 'perno focale' dei leader, della loro spettacolarizzazione e del loro intento seduttivo destinato alle masse".

Lei ritiene che la cosiddetta 'narrazione' sia un approccio ormai divenuto troppo generalista e superficiale per informare i lettori?
"Purtroppo, sì: oggi non si può più riproporre quell'informazione, apparentemente oggettiva, che un tempo era vista come 'la Bibbia'. Il problema, oggi, risiede nel fatto che la generalizzazione sommaria fa cadere il giornalista e l'informazione stessa in un 'mare magnum' incontrollato di 'fake' e di notizie non verificate, in cui è semplicissimo perdersi. Intorno a ciò, forse dovremmo fare tutti una riflessione".

C'è chi dice che la differenza di linguaggio tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi sia soprattutto quantitativa: il primo lancia promesse utopiche ogni tanto e quando serve, mentre il secondo, invece, 'infila' nei propri discorsi una sequenza continuativa di 'mezze verità', spesso suggestive, ma di breve respiro: è così?
"Effettivamente, sì: entrambi, nei loro discorsi, lanciano promesse, spesso difficilmente realizzabili. Il primo, tramite l'uso di una strategia comunicativa pregna di verosimiglianza; il secondo, giocando molto su quelli che, in 'gergo', vengono definiti 'tecnicismi politici': un territorio che ha le sue 'nicchie' di estimatori e, diciamo pure, di appassionati. Nonostante sia differente il mezzo linguistico usato, sia Berlusconi, sia Renzi puntano a sedurre mediante artefatti prestabiliti. E la maggior parte delle volte, tali modalità funzionano".

Il giornalismo è cervello o passione?
"Entrambe le cose: passione, in primis, perché se non vi è quella è inutile scegliere di fare questo mestiere, che pochi conoscono in quanto professione lunga, difficile, spesso pericolosa; il cervello, perché credo che senza la 'testa' non si possa far nulla nella vita, soprattutto nel ramo giornalistico. Anche se, più che il termine 'cervello', anche in questo caso troppo generico, io parlerei di concentrazione, di attenzione a quel che accade ogni giorno, di capacità di osservazione e, in qualche caso, anche di astuzia".

Non crede che il popolo italiano, per tradizione storica, risulti un po' troppo sensibile alle promesse e agli slogan spesso 'vuoti' della politica? E' questo il problema che ha consentito, negli ultimi anni, l'avanzata dei populismi?
"Gli slogan, per definizione, devono saper convincere, altrimenti non risulterebbero tanto utilizzati nel campo pubblicitario. Questo per dire che gli slogan vengono sempre 'rubati' dalla politica, per sintetizzare più concetti in una sola parola. Il problema è che, a lungo a andare, il 'vuoto' politico genera anche a un vuoto comunicativo, che 'spiana' la strada ai populismi, i quali non hanno fatto alcuna fatica a travolgere dottrine e tradizioni politiche. Dottrine e tradizioni che, forse, dovremmo riprendere in mano e ripassare".

Qualcuno, un paio di millenni fa, per spiegare alla gente alcuni concetti moralmente elevati, o culturalmente più complessi, era solito ricorrere a 'parabole' e piccoli aneddoti: è un metodo ancora corretto, secondo lei?
"Bisogna dire che il linguaggio possiede così tante sfaccettature che non me la sento di affermare se un metodo o un modo di esprimersi sia corretto o meno, per lo meno non in senso assoluto. Posso dire con certezza che il linguaggio di più di duemila anni fa è completamente diverso, rispetto a quello di oggi: così come la Storia cambia, allo stesso modo si trasforma anche il modo di comunicare. Tuttavia, essendo la Storia ciclica, non mi stupirei se vi fosse, un giorno, il ritorno a mezzi linguistici fino a ora poco usati".

La religione, o più in generale la filosofia morale, non rischia di provocare un facile 'scivolamento' verso la retorica?
"Oggi, sembriamo tutti filosofi, quindi un po' tutti retorici. Per questo motivo, la società non trova più una vera identificazione. La conoscenza generale e superficiale conduce alla costruzione errata di un concetto che, in un dato momento, sembra il più giusto. Poi, si sa: parlare è facile, così come non è così difficile rendere 'virale' un 'fake'. Ora si sta finalmente facendo la guerra alle 'fake news', ma nessuno si chiede il motivo e il modo in cui l'informazione è diventata così 'bugiarda'. Quindi, anche morale e retorica non hanno più il loro significato originario".

Un tempo, si diceva "Pane al pane, vino al vino" in riferimento a qualcuno che, nell'esprimersi, era solito definire ogni oggetto con le parole più semplici: lei ritiene che la politica italiana debba tornare a un linguaggio assai meno astratto, rispetto a quello attuale?
"Assolutamente si: la politica ha definitivamente perso quella semplicità comunicativa e popolare che si stava già perdendo, a dire il vero, con il cosiddetto 'politichese' della prima Repubblica. Si provi e chiedere a qualche parente, o a un conoscente qualsiasi, cosa comprende quando un politico parla: il più delle volte, non saprà rispondere. E perché succede questo? Perché l'uso dei 'paroloni' distanzia la politica - ma non solamente la politica - da chi la vorrebbe apprendere, capire e ascoltare, rendendo ogni discorso astratto, contraddittorio, unilaterale, troppo facilmente 'malleabile', persino ambiguo in alcuni casi. Non riuscendo a mantenere una struttura 'fissa', i contenuti della politica spesso arrivano addirittura 'ribaltati' a chi li ascolta, o cerca di comprenderli. Un processo che, con alcuni politici del passato come Almirante, Berlinguer e Craxi, non accadeva o non era possibile fare, anche se per motivi diversi. Ormai sappiamo cosa ci ha raccontato la nostra Storia più recente: siamo passati all'eccesso opposto del pensiero 'debole', quando non addirittura 'liquido' o 'futile'. Quindi, sì: bisognerebbe tornare alla semplicità di un tempo, ma senza confonderla con la 'facilità', poiché si tratta di due concetti ben distinti tra loro".


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