Serena Di GiovanniSi è svolta recentemente in Senegal 'Dak'Art', la biennale di arte contemporanea africana, una delle più importanti manifestazioni dedicate alle arti visive in Africa

L'edizione di quest'anno della Biennale di Dakar, intitolata 'La cité dans le jour bleu' (La città in un giorno blu), è stata diretta dal curatore svizzero di origini camerunensi Simon Njami, che ha scelto come titolo il verso di una poesia dell'ex presidente senegalese, Léopold Sédar Senghor, uomo politico di straordinaria cultura che ha segnato profondamente la storia recente del Paese. La frase rinvia a un'Africa liberata, in cui i popoli sono fratelli e i Paesi vivono nella pace e nell'armonia: un'utopia che il curatore avrebbe desiderio di rilanciare. Njami ha invitato sei curatori internazionali a presentare una selezione di artisti provenienti da varie aree geografiche del mondo. Per l'Italia c'era Valentina Gioia Levy, che si interessa da anni alla scena artistica afro-asiatica e alle dinamiche relazionali tra oriente e occidente. La curatrice italiana ha raccolto l'invito di Njami a "re-incantare il mondo" attraverso una riflessione sul rapporto tra visibile e invisibile, tra corpo e spirito, tra luogo reale e virtuale nel campo dell'arte.

Valentina Gioia Levy, che cos'è la Biennale di Dakar?  
"La Biennale di Dakar è sicuramente il più noto tra tutti gli eventi internazionali dedicati alla creazione artistica africana. Ed è anche una delle prime biennali d'arte nate al di fuori dei tradizionali circuiti dell'arte contemporanea".

La sua proposta per la Biennale: quali artisti ha coinvolto?
"Il malesiano, con base a Roma, HH. Lim; l'artista franco-beninese Emo de Medeiros; Stefano Canto dall'Italia; Chai Siris dalla Thailandia".

Quali sono stati i criteri di selezione?
"Simon Njami mi aveva chiesto di presentare artisti di nazionalità diverse, soprattutto asiatiche, sapendo appunto che, in quanto orientalista di formazione, il mio interesse è spesso focalizzato su quest'area geografica. Partendo da ciò, ho ragionato in termini di pertinenza (concettuale ed estetica) rispetto ai temi che volevo toccare".

Il tema della Biennale, a ben vedere, è l'essere umano o, meglio ancora, la sua capacità di 'cambiare le cose' e 're-incantare il mondo': come si è tradotto tutto questo nel suo progetto curatoriale?
"Credo anche io che l'uomo contemporaneo abbia bisogno di 're-incantarsi', che sia necessario mantenere viva la voglia di stupirsi ancora: il disincanto ci ha intossicato l'anima per troppo tempo. Per quanto riguarda strettamente il mio progetto, il punto di partenza è stato stimolato da alcune frasi di Simon Njami, che nel suo testo introduttivo ha scritto: "La sfida per l'artista è di ricordarsi che tra i doni a sua disposizione, esiste quello di comunicare con l'invisibile. Di trasformare, secondo la formula di Henri Delacroix, il visibile". La mia proposta è nata, perciò, da una riflessione sul rapporto tra materiale e immateriale, visibile e invisibile, corpo e spirito, temi che la filosofia, la teologia e anche la scienza hanno affrontato per millenni, ma che oggi si arricchiscono di nuove dinamiche, scaturite dalla diffusione globale delle nuove tecnologie. Internet, per esempio, è il regno dell'immateriale, un luogo virtuale che si sovrappone al reale, dando vita a un esempio pratico di quel concetto sfuggente che Duchamp definì "infra-mince", un'immateriale' che è però ben visibile e, anzi, si basa principalmente sull'immagine, sovvertendo quell'associazione 'immateriale-invisibile' che ha rappresentato la normalità per secoli".

Chi sono i 'Testimoni dell'invisibile'?
"Malgrado sia stato pubblicato, in passato, un libro di un autore francese chiamato in questo modo, il mio riferimento era al filosofo francese Jean-Francois Lyotard e alla sua storica mostra 'Les Immatériaux' presso il Centre Pompidou di Parigi nel 1985. In 'Inventaire', opera pubblicata in occasione della mostra, nel trattare il tema dell'infra-mince, Lyotard definisce l'opera d'arte "una testimonianza dell'invisibile nel visibile". Estendendo la definizione, i testimoni dell'invisibile sono gli artisti stessi, ovvero coloro che producono queste testimonianze".

Lei è una giovane e promettente curatrice d'arte contemporanea, attiva anche e soprattutto all'estero, particolarmente in Oriente, una che sembra 'avercela fatta' in un settore fortemente disastrato come quello artistico e culturale: cosa consiglia a chi, come lei, volesse fare della curatela di mostre d'arte un vero e proprio mestiere?
"In realtà, non mi sento affatto 'una che ce l'ha fatta'. E credo non mi ci sentirò mai, anche perché non è nella mia natura. Il giorno che dovessi sentirmi 'arrivata' probabilmente inizierei a fare qualcos'altro. Ogni progetto iniziato e archiviato è la tappa di un percorso che è sempre in 'salita'. E mi piace che sia così, perché è una sfida continua. Personalmente, ho bisogno proprio di questo: di lanciarmi continuamente verso nuovi obiettivi, di mettermi alla prova, di entusiasmarmi ed emozionarmi. Nel momento in cui 'ti senti arrivato' perdi tutto questo e la curatela diventa un lavoro come un altro, ma meno pagato, almeno in Italia. Sicuramente, il primo consiglio è quello di lavorare sulla propria preparazione. Forse, sono un po' in controtendenza. Si dice sempre che l'esperienza sul campo è quella che conta e in un certo senso è vero, ma se alla pratica arrivi dopo anni di studi fatti seriamente hai decisamente una 'marcia in più'. E questo ti dà la possibilità di avanzare in maniera molto più rapida e recuperare il tempo perduto. A maggior ragione se sei una donna giovane e oltretutto 'carina': non ti puoi permettere di essere poco preparata o non sarai mai presa sul serio. Credo sia anche molto importante lavorare sulla propria 'vision curatoriale', cioè sul capire davvero cosa si vuol fare e perché. Oggi, c'è molta improvvisazione. E la più parte del tempo si fanno progetti a destra e sinistra, senza molta coerenza. Secondo me è importante lavorare su una propria linea di ricerca e, magari, approfondire tematiche più specifiche negli anni, tenendo sempre a mente che, nell'arte, i confini esistono solo per essere attraversati. In generale, comunque, più che dare consigli, specie in un momento, così difficile, preferisco 'sconsigliare' questo mestiere a chiunque pensi di lavorare poco e guadagnare molto, a chiunque non sia munito di un reale entusiasmo, di passione, di capacità di auto-motivazione, testardaggine e voglia di mettersi in gioco, oltre che di talento, di idee e cose da dire".

Biografia
Valentina Gioia Levy è critico e curatore d'arte con base a Roma. Fin dal 2010 collabora con numerosi musei, gallerie d'arte ed istituzioni internazionali come il Centro Pompidou di Parigi; il Macro di Roma: Il Museum of Goa (India); La Off Biennale del Cairo (Egitto); RH Contemporary Art di New York; la Biennale di Kochi Muziris (Kerala, India) e la Biennale di Dakar (Senegal, 2016). Attualmente, è una delle curatrici di LAM 360, Biennale di Land Art della Mongolia.


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