Clelia MoscarielloE’ uscito di recente un libro molto interessante e particolare: ‘Mio nonno era comunista’ della scrittrice toscana Monica Granchi, edito da Effigi. Sullo sfondo della Siena ‘rossa’ degli anni ’70 del secolo scorso si dipana una storia che parte dalla politica in modo forse un po’ nostalgico, per poi svilupparsi in contenuti soggettivi. Dal moralismo ideologico al qualunquismo dilagante, una giovane donna attraversa un percorso doloroso, l’anoressia: “Uno spazio in cui troppo spesso ci si dimentica di esistere”. L’autrice non rinnega la propria educazione e dichiara che il comunismo non ha avuto alcun nesso preciso con la sua malattia, che invece ha radici nelle dinamiche interne alla sua famiglia. Anzi, sono stati proprio questi valori a consentirle di mantenere un punto di vista da cui analizzare ogni crisi affrontata e superata. Valori il cui ‘cuore’ è stato rappresentato dal nonno. Nella società attuale è infatti venuta a mancare “ogni condivisione di valori, un senso della comunità, un rigore e una capacità d’ascolto. Oggi, impera una  cultura marginale, modelli facili e più accessibili, ma totalmente confusi”. Con riferimenti istituzionali che barcollano, famiglie fondate su una visione quasi apologetica e i confusi modelli che propone la società attraverso i mass media, si finisce con l’incentivare patologie come l’anoressia o si tenta di risolverle? Quali sono, attualmente, i punti di riferimento per non ‘cadere’? Cosa dobbiamo dire a una ragazza anoressica dei nostri tempi? Come possiamo aiutarla? La cultura personale può davvero svolgere un ruolo efficace? E’ quanto abbiamo chiesto all’autrice di questo lavoro particolarissimo.

Monica Granchi, innanzitutto perché questo titolo: ‘Mio nonno era comunista’?
“Perché questo è un periodo storico particolare e, come molte persone di sinistra, anch’io mi pongo delle domande. Ho riflettuto sul fatto che quando penso a mio nonno mi viene spontaneo dire di lui che era comunista, mentre oggi per me è molto più difficile sentire l’appartenenza a un Partito. Io voto per il Pd, ma non mi riconosco pienamente in esso: non c’è più quel senso di appartenenza che, invece, un tempo legava me e tutta la mia famiglia, con mio nonno in testa, al Partito comunista italiano: quello che per lui era facile, per me oggi risulta assai più complesso”.

Suo nonno ha rappresentato il cuore della sua famiglia: un’educazione spartana e rigorosa che, alla fine, lei ha apprezzato, dichiarando che, nonostante il rigore di quella filosofia, essa le ha permesso di mantenere un punto di vista da cui osservare il mondo…
“Mio nonno è stata la figura da cui è passata tutta la mia educazione: i miei genitori erano molto giovani, mio padre, nei miei primi anni di vita, abitava a Pordenone, io vivevo con i miei nonni e mia madre abitava con noi, ma era una ragazza. Mio nonno ha rappresentato, dunque, la figura centrale di riferimento, perché era la persona più adulta. Quindi, attraverso lui è passata tutta la mia formazione umana e non solo quella politica”.

Il libro parte dalla storia della sua famiglia e descrive la Siena ‘rossa’ degli anni ’70, per poi dipanarsi in modo soggettivo sulla sua malattia, l’anoressia, che lei attribuisce a dinamiche familiari: quali sono state queste dinamiche?
“Non è facile rispondere. In maniera retroattiva è tutto più semplice, ma mentre stai vivendo la fase dei disturbi alimentari non è facile capire i meccanismi che ti inducono a questo. Io sono stata in analisi tanto tempo e ho riflettuto molto. Osservando un periodo della tua vita con una certa distanza, comprendi che, forse, hai fatto tante cose senza una vera consapevolezza. Io ho trascorso la mia infanzia prima dai nonni paterni e, in seguito, con quelli materni. Solo da adulta sono andata ad abitare da sola con i miei genitori. Si è dunque verificata una forte frammentazione della mia vita, perché dove abiti da bambina è importante: durante l’infanzia intorno a te vivi un mondo ‘piccolo’, dentro le pareti domestiche c’è tutto quello che ti serve. Cambiare casa e legami familiari è traumatico: interrompi dei rapporti e devi crearne degli altri. Già lì è accaduto qualcosa che su una sensibilità come la mia ha prodotto quel tipo di reazione, mentre in altri avrebbe avuto effetti diversi. Inoltre, si è instaurato un rapporto con mia zia, che tratto peculiarmente nel mio libro, piuttosto sui generis: mia zia per me è una sorella, una zia/sorella, una figura importantissima nella mia vita. E i miei nonni ci trattavano come due figlie, poiché vivevamo entrambe nelle stessa casa. Questo ha avuto delle conseguenze: mi è mancata la figura presente dei nonni, i quali si comportavano come dei genitori, sia con me, sia con lei. Questo aspetto mi ha sottratto l’amore dei miei nonni, poiché un genitore ti vuole bene con il rigore del genitore, mentre i nonni, invece, ti amano incondizionatamente. Era tutto un po’ confuso dalle cose: era la vita che ci portava a vivere tutti insieme in maniera condizionata. Vivevamo tutti assieme per necessità, come per molte altre famiglie d’altronde…”.

Lei crede che la società attuale disorienti o aiuti realmente a prevenire e superare il problema dell’anoressia o eventuali altri problemi?
“La società, in questo momento, fa del suo peggio. In questo giudizio ci metto dentro un po’ tutto e tutti: non è solo colpa della politica. La politica dovrebbe dare l’esempio e chi ci rappresenta dovrebbe dimostrare buoni comportamenti. Ma la società siamo anche noi, con i ‘nostri’ comportamenti. E io credo che, anche dal punto di vista sociale, siamo un po’ tutti allo sbando. Se, da una parte, è senz'altro vero che la politica non è più un riferimento poiché non riesce a ritrovare un proprio indirizzo, non fornisce risposte concrete e ha perso i suoi valori, i giovani, d’altro canto, hanno anch’essi perduto il senso della responsabilità individuale. Queste due cose, la mancanza di valori in senso politico e un senso di responsabilità sociale, stanno causando guasti terrificanti. La famiglia ha allargato le ‘maglie’ dell’educazione, la scuola è andata a gambe all’aria ed è messa male: ora che sono venuti meno tutti i capisaldi della società è chiaro che tanti giovani siano privi di orientamento. Quindi, le malattie psicologiche sono sempre più frequenti, poiché non ci sono risposte. Non mi riferisco soltanto all’anoressia: i giovani non hanno più riferimenti e possono incorrere molto facilmente in gravi problemi psicologici”.

Lei ha dichiarato che nella società  di oggi manca “una condivisione di valori, un senso della comunità, un  rigore e una capacità d’ascolto, poiché dominano una cultura marginale, modelli facili e più accessibili, ma totalmente confusi”: in una crisi non solo politica, ma di valori, quali possono essere, oggi, i riferimenti corretti per non cadere nell’anoressia?
“Io non sono un’esperta e la mia riposta può essere puramente soggettiva. E’ sempre difficile generalizzare: i problemi sono individuali, i disagi si assomigliano un po’ tutti, ma ognuno comporta una difficoltà specifica. La risposta potrebbe essere che l’Italia non dovrebbe perdere di vista un grande valore come quello della famiglia. Quando c’è un disagio collettivo, io credo che essa rappresenti una grande forza. L’unico valore che conserviamo in questo Paese è la famiglia, poiché è una risposta. Ma una riposta dovrebbe esistere anche fuori, nelle politica e nella cultura. In ogni caso, se non siamo completamente allo ‘sbaraglio’ è proprio grazie alla famiglia italiana, al fatto di stringersi intorno a essa per superare le difficoltà e sostenersi l’un l’altro. La famiglia è spesso criticata, poiché i ragazzi restano a casa troppo a lungo. Invece, io ritengo che questa capacità di stare tutti assieme ci stia aiutando tantissimo. Una risposta, però, dev’esserci anche dall'esterno. E l’unica possibilità esterna è la cultura, che manca nelle nostre classi dirigenti”.

La cultura personale può aiutare a superare problemi così diffusi?
“Secondo me, la cultura non significa avere una laurea o mille pubblicazioni, bensì è quella cosa che ti permette di avere un punto di vista non casuale. Possedere una capacità di giudizio e un senso critico rappresenta l’unica cosa che ti rende davvero libera. E se sei libera, dopo non temi più niente. Io, a 16 anni, avevo la sensazione di essere inadeguata, di non essere abbastanza per la mia famiglia. La malattia nasce sempre da un senso di inadeguatezza, ma attraverso la cultura maturi la tua coscienza e ti senti libero, ti pacifichi con te stesso. La cultura ti libera dalle paure".

Quali strumenti pensa debbano avere le donne o le adolescenti per affrontare meglio la vita di oggi?
“I consigli andrebbero dati agli adulti: i ragazzi di 16 anni avrebbero il diritto di avere degli strumenti utili da poter cogliere. Io credo molto nella responsabilità individuale e ritengo che ognuno debba fare il proprio percorso e abbia il proprio destino. Ma ognuno può anche diventare artefice del proprio destino. Pertanto, consiglio a ogni adolescente di compiere scelte consapevoli. Io credo nella fortuna di cogliere le opportunità. Il problema è anche quello di avere delle opportunità da poter cogliere: attualmente, la società non offre opportunità, né strumenti. E molti giovani non hanno la possibilità di scegliere e nemmeno delle idee chiare. Quindi, questi ragazzi quali 'chance' possono avere? Il problema è che, oggi, la società non offre opportunità. E’ molto importante che i ragazzi capiscano che la cultura è uno strumento, ma non tutti ci arrivano da soli, per questioni familiari, ambientali e sociali. La cultura, a volte, resta fuori dalla porta: tutti dovrebbero avere la fortuna di permettersela e, in questo, la società è colpevole e carente”.

La televisione, tra chirurgia plastica e messaggi fortemente ‘estetici’, con ragazze sempre più magre e taglie sempre più ‘snelle’, è in qualche modo responsabile del problema dell’anoressia?
“Io li trovo modelli deteriori e deleteri. E’ evidente che, quando ero piccola, il problema non era così diffuso, ma all’epoca già esistevano studi sull’argomento. Se il problema si è diffuso e drammaticamente amplificato è anche colpa della televisione, ma in primis della moda e delle sue riviste di settore. Io lavoro nell'ambiente teatrale e dello spettacolo e mi rendo conto che, a 40 anni, oggi è difficile trovare ruoli, sia nel cinema, sia nel teatro. È un problema sociale enorme, poiché ‘carica’ le ragazzine di aspettative che, nella maggior parte dei casi, non otterranno conferme”.

Che ricordo conserva della sua famiglia?
“Bellissimo: sono stata una donna molto fortunata. Ho conosciuto persino la mia trisnonna e 4 dei mie bisnonni sono stati miei nonni a tutti gli effetti. Ci sono tante persone che non hanno avuto la possibilità di conoscere i nonni e hanno perso molto amore e grandi valori.  Il nonno ti lascia un amore puro, perché non ha responsabilità e, appartenendo a una generazione distante dalla tua, ti lascia un’eredità che un genitore, essendo troppo vicino, non ti può donare. La famiglia è un luogo in cui può nascere tutto: io ci credo fermamente”.

Il suo libro ha rappresentato, per lei, una sorta di liberazione?
“No, molti problemi li ho superati tanto tempo fa: non c’è più alcun dolore. Per me, questo libro non è stato come scrivere un diario, ma un romanzo autobiografico, anche se ci sono anche elementi di fantasia. La liberazione effettiva è avvenuta attraverso la terapia fatta a vent’anni”.

Una definizione riassuntiva di questo suo lavoro?
“E’ un libro particolare, che mescola tanti piani. Qualcuno è attratto dal lato politico, altri da quello psicologico, altri ancora da quello culturale. Per me, invece, è un libro intimo, ma al contempo ‘teatrale’, in cui l’uso della parola è molto ‘fisico’: spero di aver restituito l’uso della parola ‘detta’, che è ben diversa dalla parola ‘scritta’. E spero di aver trasmesso questo ai lettori”.


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