Vittorio LussanaLe recenti minacce recapitate presso la redazione del quotidiano ‘il Riformista’, rivolte al presidente del Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi, al presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini e al ministro per le Riforme e il Federalismo, Umberto Bossi, insieme alle polemiche di questi giorni scaturite dalla pagina di Facebook intitolata ‘Uccidiamo Berlusconi’ ci riportano al tema del populismo politico più nichilista e autoritario, una tendenza che, purtroppo, ancora alberga in svariati settori ‘antisistema’ della nostra società. In merito a questo delicatissimo argomento, ben pochi sono, a mio parere, i riscontri di carattere sociologico ai quali poter fare riferimento, poiché inquadrare questi atteggiamenti come la forte volontà di alcune avanguardie di volersi battere contro le ingiustizie del sistema capitalistico ha sempre rappresentato solamente uno squallido alibi di matrice giustificatoria, dettato dal bisogno di creare attorno a queste persone un ‘alone culturale’ che, in realtà, non ha mai retto il confronto non solo con una minima credibilità politica, ma nemmeno con le più semplici logiche dell’antropologia comportamentale. Innanzitutto, l’estrazione sociale di questi individui quasi sempre è il ceto borghese o quello degli ambienti studenteschi caratterizzati da una forte impronta cattolico - comunista: in sostanza, non si tratta di operai o di giovani lavoratori in rivolta contro lo Stato, secondo la nota formula ’gramsciana’ della rivoluzione, bensì di miserabili personaggi che coltivano il sentimento della vendetta, della violenza e della sopraffazione come esclusivo strumento di lotta. Altrettanto poco persuasive sono le letture di matrice ideologica che hanno spesso cercato di ‘disegnare’ questi sovversivi come dei giovanotti ‘delusi’, che non riescono a intravedere metodi diversi di confronto politico in una società in cui il ricambio e l’alternanza democratica di governo appaiono, ancora oggi, obiettivi poco ‘digeriti’ dalla realtà sociale del nostro Paese. Ma se così fosse, non sorprenderebbe il fatto che formazioni politiche bene organizzate e assai ramificate all’interno del mondo del lavoro – i partiti della sinistra storica e i sindacati – non sempre riescano a cogliere i diversi cicli di riapparizione di questi fenomeni, al fine di neutralizzarne la sotterranea continuità. L’unica reale spiegazione di queste suggestioni rimane quella antropologica: alcune persone smarriscono la memoria verso ogni coordinata culturale di riferimento (intransigentismo radicale, esigenze di una trasformazione dei rapporti sociali e familiari, necessità di nuove forme di educazione civile) nella convinzione che la violenza e la provocazione siano le uniche risposte possibili per il cambiamento di questo Paese, rinunciando aprioristicamente a ‘produrre discorso’, limitandosi all’individuazione di alcuni nemici da eliminare fisicamente, assoggettando ogni norma di comportamento senza ‘ancorare’ minimamente le proprie scelte ad una qualsiasi giustificazione idealmente nobile. A mio parere, il fenomeno è invece ben ‘fotografabile’ attraverso la formula della ‘degenerazione bellicista’: nell’universo militare, infatti, non ci si pongono problemi di ‘qualità morale’ delle proprie azioni, poiché non esistono orrori o crudeltà, ma solamente questioni di ‘congruenza’ fra mezzi e finalità, un’etica ‘dimostrativa’ legata al successo ‘geometrico’ degli obiettivi prefissati che diviene preponderante rispetto ad ogni ‘etica della convinzione’. Da ciò deriva un amore tutto totalitario per le gerarchie, per la disciplina esasperata, per la ‘compartimentizzazione’ organizzativa: queste sono le vere costanti, i più autentici codici di comportamento attorno ai quali ruota la formazione culturale di questi cosiddetti ‘rivoluzionari’. Alla base di tali comportamenti vi è sempre un acuto senso di irresponsabilità, l’idea che si possa predicare senza agire o agire senza dover dichiarare le proprie intenzioni, che non si paghi mai per nulla, che non si debba render conto a nessuno del proprio operato. E si delinea un’abitudine alla violenza nel suo doppio aspetto di affermazione di potere e di riconquista di un’appartenenza comunitaria (fare qualcosa di supremamente proibito significa, per questo genere di individui, imboccare una ‘scorciatoia’ che permette loro di allacciare legami che, altrimenti, non saprebbero come stringere in altro modo). Inoltre, dev’essere assolutamente sottolineata la perversa persuasione che ciò che conferisca ‘forza’ sia l’elevatezza del ‘livello di scontro’, un’overdose di antagonismo che il ‘rivoluzionario’ deve forzatamente inoculare nei propri atteggiamenti, perché quanto più si è ‘duri’, tanto più è elevata la possibilità di ‘vincere’. Infine, vi sono ulteriori elementi di non secondaria importanza: uno stravagante senso di ‘supponenza’, una mentalità ‘immediatista’, il rifiuto di ogni etica del lavoro, un linguaggio tutto giocato sul ‘massacro’ della sintassi, sulla ripetizione ossessiva degli slogan, una fragilità psicologica in cui grave si avverte la profonda debolezza verso ogni senso di identità. In tutto questo ‘brodo’, ogni richiamo al marxismo - leninismo duro e puro, al materialismo dialettico, al pensiero operaio, alla lotta di classe, alla dittatura del proletariato risulta totalmente astratto e ideologico: conta assai più l’assorbimento di precise tendenze degenerative della società contemporanea, l’introiezione di ‘figure di crisi’ rispetto alle quali i comportamenti ‘deviati’ si collocano in un rapporto di ‘specularità’. Come non riflettere, a proposito di questo genere di irresponsabilità, alla ritirata storica della borghesia italiana, al suo vile ‘ripiegamento’ sul privato, alla propria indifferenza verso i problemi concernenti la cosa pubblica? Come non cogliere, a proposito degli stereotipi cui ho fatto cenno, ai nessi esistenti tra il bisogno di una vita ‘elementare’, eterodiretta e ai vari espedienti messi in atto per ridurre ogni complessità sociale mediante tecniche di controllo e di ‘disinformazione’ dalla precisa discendenza autoritaria? Come mai nessuno riesce a fare ‘mente locale’, a proposito di ‘autovalorizzazione’ e di rifiuto di ogni principio ‘laburistico’, a quei rivoli di assistenzialismo e di reddito garantito che sono sempre sgorgati dal nostro contraddittorio sistema di welfare? Come non riandare con la mente, in tema di arroganza corporativa, a quei fenomeni di asocialità ricattatoria che dipendono dall’enorme potere posseduto da alcune categorie ‘ristrette’, in un Paese in cui basta uno sciopero delle ferrovie per mettere in ginocchio l’intera collettività? Infine, come non mettere a bilancio, a proposito di afasia e di ‘sterilità valoriale’, il generale impoverimento qualitativo del nostro sistema didattico nazionale? Guardamoci tutti bene in faccia: sono queste le vere cause generatrici di intere schiere di ‘giovani senza passato’, i quali continuano a non sentirsi parte di una Storia troppo diversa dalla loro, che si ostinano a collegarsi ad alcune tradizioni grazie a un lessico da rivoltosi o a grammatiche iperideologizzate. Si tratta di persone che non riescono a elaborare un dignitoso ‘sistema di segni’ e le cui uniche forme di elaborazione spontanea discendono da ‘zattere ideologiche di salvataggio’ tanto assolute, quanto incerte. Ecco, dunque, il vero motivo dell’opzione rivoluzionaria: la loro idea di rivoluzione è sempre assolutamente ‘statica’, non si tratta di un qualcosa ‘in divenire’, di trasformazioni graduali, bensì dell’organizzazione di un’autonomia di classe da imporre attraverso la violenza. Se si vuole veramente capire fino in fondo questo genere di fenomeni si deve cominciare a cogliere, definitivamente e fino in fondo, la dimensione ‘nichilista’ e autodistruttiva degli individui che decidono di interpretare e di impersonare simili atteggiamenti e comportamenti, un fattore che pesa in misura assai notevole tra le loro motivazioni inconsce. Non si tratta di un nichilismo ‘drammatico’, derivante da forme di disperazione civile ‘pasoliniana’, bensì da una ‘supponenza’ di natura etimologica, in cui il ‘nulla’ non deriva dall’ablazione di sé, ma da una totale mancanza di ‘senso delle relazioni’ che si intrattengono, delle azioni che si commettono, degli ambienti che si frequentano: un universo psicologico in cui non solo non esiste nessuna frontiera tra bene e male, ma dove persino i sentimenti sono banditi, in cui capire e osservare la realtà diviene qualcosa di noioso, di superfluo, di fuorviante. Da tali caratteristiche è disceso, in passato, l’ideologismo ‘dimostrativo’ e la spietata ‘strategia omicidiaria’ delle Brigate Rosse. E fino a quando la sinistra italiana non riuscirà ad elaborare risposte soddisfacenti intorno a simili questioni, l’ignoranza, l’astrattezza e la vacua prosopopea continueranno a giocare un ruolo a dir poco ’subdolo’ all’interno della nostra società. Dobbiamo avere il coraggio di urlare in faccia a questa gente che essi non sanno un bel niente della reale composizione della società italiana, degli innumerevoli cambiamenti che in essa sono intervenuti, dei desideri, delle speranze, delle abitudini, dei modi di vita che, oggi, la contraddistinguono, anche al fine di far comprendere alle generazioni future che una piazza messa a soqquadro non corrisponde a un’insurrezione imminente. Infine, ritengo niente affatto superfluo rammentare a tutti quanti come ci si debba impegnare con continuità a prosciugare lo ‘stagno’ nel quale si ‘acquattano’ determinati ‘germi’ refrattari a qualsiasi forma di coscienza democratica, poiché questa è la sfida fondamentale, la principale opera di rinnovamento a cui sto chiamando, in questo preciso momento, l’intera sinistra italiana.




(editoriale tratto dal web magazine www.periodicoitaliano.info)
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Roberto - Roma - Mail - venerdi 30 ottobre 2009 13.51
QUANDO TI INCAZZI SEI UN MITO!!!
CVlaudio Raineri - Cambiano prov.Torino - Mail - mercoledi 28 ottobre 2009 14.18
Complimenti all'autore, articolo da incorniciare e da far leggere nelle scuole.


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