Vittorio Lussana

Un logo quadrato, tutto rosso, con sopra la rosa bianca del socialismo europeo è il nuovo simbolo del Partito socialista, la formazione laico - riformista che si viene creando sul lato sinistro del Partito democratico. Certo, la ‘pecca’ della mancanza del Garofano e di ogni genere di riferimento al revisionismo ideologico operato da Bettino Craxi si è fatta un po’ sentire, alla Conferenza programmatica tenutasi a Roma, nei giorni scorsi, presso l’Auditorium della Tecnica. Ma tale ‘elemento di pavidità’ da parte di Enrico Boselli è stato interpretato come la volontà di compiere un primo passo teso a radicare la nuova formazione nell’alveo delle tradizioni progressiste italiane, rimandando questioni di altro genere verso ambiti e sedi meno legate alle contingenze in senso stretto. Non credo si sia trattato di un tacito ‘rinnegamento’ della questione legata al leader storico del Psi, bensì di un ‘inserimento implicito’ dell’esperienza socialista degli anni ’80 all’interno del perimetro ideologico ‘di base’ della nuova formazione. Ciò anche per evitare, in questa fase, di ‘imbottire’ di ‘retorica nostalgica’ il messaggio che questa nuova forza dovrà comunicare verso l’esterno. Tuttavia, pur tenendo ferme tali giustificazioni, ciò non sembra rappresentare una gran ‘trovata’, poiché limita di molto la capacità di ‘manovra’ ed ogni possibilità di dialogo che questa nuova compagine potrebbe tentare verso alcuni settori laici che, oggi, militano nel centro-destra. Infatti, dietro questa ‘prima diagnosi’ dell’operazione messa in campo da Enrico Boselli, Bobo Craxi e Gianni De Michelis, con l’affiancamento di Cinzia Dato, Gavino Angius, Franco Grillini e Saverio Zavettieri, si cela una questione enorme: quella dell’immagine del socialismo all’interno della sinistra italiana. I socialisti non hanno mai smesso di appartenere all’alveo delle culture progressiste italiane. Tuttavia, il problema di un loro ‘reinserimento’ effettivamente accettato rimane un discorso tormentato da mille equivoci. La sinistra di derivazione neo e post-comunista continua a rifiutarsi di comprendere come la mancata riflessione intorno al ‘nodo craxiano’ mantenga in vita alcuni difetti che appartengono, in modo esplicito, alla tradizione dalla quale essa stessa proviene. Ad esempio, riguardo al genere di propaganda che viene ancor’oggi proposta, composta di parole utilizzate come ‘gusci vuoti’ alle quali fornire significato attraverso interpretazioni che si consolidano nel tempo. Il che, naturalmente, risulta una forma di ambiguità politica eretta a sistema, un congelamento tattico di ogni dualismo e di ogni contraddizione dettato da ragioni pratiche di condotta, ma anche da una profonda motivazione inconscia: l’avversione, tutta moralistica e piccolo-borghese, nei riguardi di un mondo laico - riformista considerato da sempre utilizzabile al solo fine di accreditare la ‘storiella’ della funzione liberale della classe operaia e la ‘stravolgente’ catena intellettuale: De Sanctis, Labriola, Croce, Gramsci. Si tratta di una vecchia questione, che pesa come un macigno, in termini strettamente intellettuali, poiché ‘salta a piè pari’ l’intero pensiero riformista di matrice ‘turatiana’. La mancata ammissione di questa e di altre ‘rimozioni’ ha sempre dimostrato la fragilità culturale dell’italo-marxismo, il quale, nel terrore di essere tacciato di assolutismo egemonico, è sempre rimasto inchiodato alle proprie posizioni dimenticando che è degli uomini di sinistra più autentici non provare scandalo rispetto ai propri cambiamenti di opinione, non disorientarsi innanzi ad un nuovo riformismo in grado di distinguersi sia dalle forme di ‘statolatria’, sia dall’idea che non si debba riconoscere l’esigenza di tornare ad essere semplicemente se stessi. La crisi del marxismo, patita e vissuta all’interno della sinistra italiana, avrebbe dovuto essere affrontata, paradossalmente, in maniera marxista, ‘alla radice’, attraverso una sincera autocritica nei confronti del comunismo ufficiale e del Pci, cioè nel modo tentato proprio da Bettino Craxi (sconvolgetevi tutti!!!). I socialisti, con Craxi, sono diventati, secondo la ‘vulgata collettiva’, una minoranza situata praticamente al di fuori della sinistra italiana, mentre invece sono sempre stati niente di più e niente di meno che dei ‘compagni’ relativamente ortodossi, che conducevano una guerra su due fronti: contro la piccola borghesia e contro quel suo ‘specchio’ rappresentato dal ‘conformismo di sinistra’. E fu per questo motivo che essi finirono con l’inimicarsi tutti, costringendoli a tenere relazioni complicatissime, fatte di spiegazioni continue. La laicità è purezza in quanto ‘nocciolo razionale’ raggiunto nel complesso di uno scontro durissimo con l’irrazionale, una ‘strana via di mezzo’ tra le distinte antitesi di un pensiero che pensa se stesso senza piangere sulle proprie idee. La laicità è, insomma, una sintesi tra liberalismo e socialismo: perché non ammetterlo? Perché far finta di non comprenderlo, al solo scopo di potersi accreditare sotto nuove ‘etichette’? Gli esperimenti politici falliscono solamente se sono considerati, appunto, come mezzo di ‘inquadramento ideologico’, cioè se si scambia, nell’elaborazione del proprio pensiero, il mezzo con la finalità. E la finalità è quella di ottenere una società più moderna, al passo con i tempi, non di utilizzare la parola riformismo come un ‘nulla osta’ in grado di giustificare ogni genere di vagabondaggio politico. Tale questione si pone soprattutto nei confronti del nuovo Partito democratico: chi mi conosce personalmente, sa bene com’io ritenga ‘vacua’ l’operazione che si va tentando, proprio in quanto ennesima ‘operazione etichetta’, un nuovo ‘ombrello ideologico’ sotto il quale proseguire un cammino che, lo si vede a ‘occhio nudo’, non è nient’altro che quello di una navigazione in mezzo a una tempesta, di una regressione del riformismo verso nuove forme di compromesso con i ceti sociali ed economici più forti. Senza comprendere appieno che riformismo e laicità sono già di per sé due sintesi di progresso complete, pienamente intrise di spiritualità, benché tese al raggiungimento di obiettivi pratici, concreti, integrali. La laicità è teoria della prassi, un’immanenza dello spirito del singolo individuo che si fa interesse collettivo, in una parola: Stato. Ed è anch’essa una forma di fede, in un certo senso, poiché può comprendere persino sentimenti di matrice religiosa all’interno di uno ‘schema – non schema’ che, in quanto tale, rimane perennemente ‘aperto’ ad ogni contributo. Che poi ciò possa rappresentare un qualcosa di politicamente ‘fuori moda’, diviene un discorso di tutt’altro genere: molti laici e socialisti, oggi militanti in Forza Italia, preferiscono ad esempio rinchiudere le potenzialità della propria dottrina negli angusti ambiti di una chiusura dogmatica al ‘nuovo’, che in politica non corrisponde affatto a sgargianti simbologie o a slogan generati da nuove forme di comunicazione di massa – ovvero ai medesimi errori, ad un tempo uguali e contrari, del marxismo più utopico - bensì all’aggressione dei nuovi problemi che si presentano di fronte alla collettività, quali quelli dell’immigrazione, dell’impostazione di una ordinata società multietnica, di una coraggiosa ripresa del cammino delle libertà civili per tutti i cittadini. L’unica motivazione reale di tali esponenti è il mantenimento ‘materiale’ di una ‘posizione’ o di una collocazione che viene spesso ‘spacciata’ come sintesi del vecchio centro-sinistra storico. Ma che ‘razza’ di centro-sinistra sarebbe, se la sinistra stessa viene rappresentata da un partito, Forza Italia, il quale già di per sé rappresenta un ircocervo nato da un amplesso innaturale tra cultura laica e qualunquismo conservatore? Vale, dunque, per Forza Italia, il medesimo limite del Pd, con in più l’aggravante di vedere, nel partito guidato da Silvio Berlusconi, la presenza di esponenti che pretendono di incarnare essi stessi la più autentica linea culturale del riformismo laico: quali sarebbero gli eredi di Croce, Gobetti, Calamandrei, Fortuna, La Malfa, Einaudi e Craxi? Tremonti, Micciché e Cicchitto? Non scherziamo, per favore. Il discorso che qui vado facendo propone esplicitamente l’esigenza della rinascita di una nuova sinistra laica e liberale, in grado di rinnovare il patrimonio culturale delle tradizioni progressiste italiane. Ciò non rappresenta un obiettivo di semplice portata, ma se potesse quanto meno servire a provocare qualche riflessione in più, ecco allora che la tematica di un effettivo superamento della scissione di Livorno del 1921 tornerebbe ad essere un tema di ‘gran moda’, all’interno della nostra cosiddetta ‘intellighentia’. E potrebbe anche generare quell’effettivo ricambio, generazionale e di personale politico, di cui la politica italiana necessita come l’ossigeno che respiriamo. Io credo che un simile ragionamento sia stato metabolizzato molto bene da alcune intelligenze assai significative della sinistra italiana, quali quelle di Gavino Angius e Franco Grillini. E non dispero che ciò non possa accadere, più avanti, anche per tanti altri carissimi amici.




(articolo tratto dalla rubrica "7 giorni di cattivi pensieri", pubblicata sul sito web di informazione e cultura www.diario21.net)
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