Fabrizio FedericiIl 15 agosto scorso sono passati esattamente 50 anni da quel Ferragosto del 1971 a Camp David, quando l’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, pose fine alla convertibilità del dollaro in oro e seppellì gli accordi di Bretton Woods. Raggiunti nei negoziati internazionali del luglio 1944 - a guerra mondiale ancora in corso - nell'omonima località del New Hampshire, quegli accordi avevano fissato le regole per una futura, ordinata (in teoria, almeno) espansione degli scambi internazionali. Il dollaro diventava la moneta di riferimento cui erano legate, tramite cambi fissi, tutte le altre valute, mentre il biglietto verde era a sua volta agganciato all’oro da un peg (tasso fisso, ndr) di 35 dollari l’oncia. Di fatto, la divisa Usa nei decenni successivi venne utilizzata come moneta di riserva da tutti gli altri Paesi (era il noto ‘imperialismo del dollaro’) e questo permetteva al Tesoro degli Stati Uniti d'America di stampare, con classiche manovre monetariste, tutti i dollari di cui aveva bisogno, collocandoli anche nel resto del mondo. Implicitamente, era un regime di svincolo dalla bilancia dei pagamenti, quasi un via libera internazionale sul piano valutario. Ma la guerra del Vietnam, scoppiata nel 1964, coi suoi costi astronomici, il forte aumento della spesa pubblica (anche per la realizzazione della ‘Grande società’, il programma di welfare dell’amministrazione Johnson, che proseguiva direttamente il ‘New deal’ di Roosevelt e il ‘Fair deal’ di Truman) e del debito americani, e, più in generale, il surriscaldamento dell’economia Usa, a causa proprio della guerra nel sud-est asiatico, segnarono la graduale fine del sistema istituito a Bretton Woods. Ciò spinse il presidente Usa, il 15 agosto del 1971, ad annunciare la sospensione della convertibilità dollaro-oro: un regime che, specialmente se visto con gli occhi di oggi, era d’impronta se non medioevale, fortemente ottocentesca, come il vecchio ‘Gold standard’. Le riserve statunitensi, infatti, si stavano pericolosamente assottigliando: il Tesoro americano aveva già erogato oltre 12 mila tonnellate di oro, in risposta alle richieste degli utenti americani e stranieri: risparmiatori, investitori e speculatori vari, ovviamente. A dicembre 1971, l’abbandono degli accordi da parte dei membri del G10 e lo ‘Smithsonian Agreement’ diedero il via al nuovo regime internazionale di fluttuazione dei cambi. A Washington, infatti, presso lo Smithsonian Institute, il G10, per rimediare al caos monetario internazionale seguìto alla fine del sistema di Bretton Woods, decise una svalutazione del dollaro del 7,9%, fissando un cambio di 38 dollari per oncia d'oro senza, però, ripristinare l'obbligo per gli Stati Uniti di scambiare dollari con oro. Furono anche modificati i tassi di cambio tra le altre monete e si stabilì una banda di oscillazione del 2,25% attorno alle nuove parità. Sul piano interno americano, invece, la misura presa da Nixon ad agosto, dal forte ‘sapore’ di corso forzoso, cioè sistema a carta moneta inconvertibile (un po’ come quello che, per volere della destra storica, era stato in vigore in Italia dal 1866 fino alla fine del XIX secolo) serviva soprattutto a rilanciare l’economia americana sul fronte delle esportazioni. Sempre il 15 agosto 1971, il presidente americano vi univa quella che, sin dai tempi di Colbert e Luigi XIV era la piu’ classica – ma anche la piu’ dannosa - delle misure per potenziare le esportazioni di un Paese: l’introduzione di una tassa (nel caso americano, del 10%) sulle importazioni dagli altri Paesi. Ma già nel dicembre successivo, lo ‘Smithsonian Agreement’, prevedendo l’effetto boomerang di queste misure protezionistiche (cioè lo scoppio di guerre commerciali con altri Stati), aboliva la tassa sulle importazioni negli Usa, sostituendola con la citata, più morbida, svalutazione del dollaro. Sia pure in un contesto economico diverso, gli americani in questo, imitavano i ‘cugini’ britannici, che 4 anni prima, a novembre 1967, col governo laburista di Harold Wilson avevano dovuto decidere di svalutare la mitica sterlina, proprio per ridare fiato alle esportazioni. Sul piano internazionale, con le decisioni dell’agosto 1971 e le correzioni del dicembre successivo, una volta eliminate le costrizioni legate al ‘gold standard’ e alla ‘sound money’, le nazioni sono state in grado di operare su deficit strutturali e - dedicandosi alle più spregiudicate manovre monetariste e finanziarie - far crescere a dismisura i loro indebitamenti. Sino a livelli senza alcun precedente, che alla fine, in sintesi, hanno portato a quelli che alcuni (esagerando, ma non troppo) hannno definito “i nuovi ‘29”: le devastanti crisi, nate soprattutto da ‘bolle’ finanziario/speculative, prima del 1987, in seguito con l’incredibile fallimento dell’americana Lehman Brothers del 2008: una crisi che, non dimentichiamolo, non è affatto finita, andandosi in ultimo a saldare con quella causata, in tutto il mondo, dal Covid 19. Il 26 luglio 2012, l'Unione europea iniziava finalmente a reagire con l'annuncio a Londra, da parte dell’allora neopresidente della Bce, Mario Draghi, che la Banca centrale europea avrebbe fatto “tutto il necessario” (il celebre: "Whatever it takes") per salvare l'euro, mentre la crisi finanziaria stava per contagiare grandi economie, come la spagnola e l'italiana. Il 22 gennaio 2015, sempre Mario Draghi avviava l'atteso programma del ‘Quantitative easing’ con cui la Bce ha acquistato forti quantitativi di titoli di Stato dei Paesi dell'Eurozona per 60 miliardi di euro, sino a settembre di 5 anni fa. E, con parziali riprese, anche oltre.  Mentre negli Usa, dopo l’iniziale espansione economica del dopo 1971 (facilitata, indubbiamente, anche dal graduale disimpegno americano dal sud-est asiatico), il nuovo regime internazionale in sostituzione del ‘gold standard’ è coinciso con la graduale, lenta ma apparentemente inarrestabile, perdita di ricchezza da parte della classe media Usa. Il periodico, specializzato in economia, ‘Money.it’, ha riportato di recente i dati di ‘Zerohedge’, blog anonimo statunitense su temi di finanza e geopolitica e del capo economista della Deutsche Bank, Jim Reid, evidenzianti, nei decenni, il ‘gap’ di benessere da colmare nella vita dei ceti medi Usa (per non parlare, è chiaro, delle classi più umili…), che ciclicamente si ripropone come primo problema da risolvere per tutti i presidenti, da Reagan a Biden. Un problema che, senza ovviamente dimenticare il Covid 19 con le sue pericolose varianti e la politica estera (Iran, Iraq e Afghanistan in primo luogo), sarà probabilmente uno dei principali temi di discussione nelle elezioni di medio termine del 2022.





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stefano - antoniutti - Mail - domenica 22 agosto 2021 14.58
Temo che nč Biden nč alcun presidente successivo, salvo crisi catastrofiche tipo seconda guerra di secessione, potrā ripianare il gap tra super ricchi e classi medie.
Se ci prova seriamente, fa la fine di John Kennedy...


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