Emanuela ColatostiEra il 21 agosto 1940, quando Lev Davidovic Bronstejn venne assassinato con un colpo alla testa da un agente segreto della polizia 'staliniana'. Maggiormente noto con lo pseudonimo di Lev Trotsky, egli fu uno dei protagonisti della Rivoluzione russa o Rivoluzione d'ottobre: un evento cruciale della Storia contemporanea, paragonabile alla Rivoluzione francese. Se quest'ultima fu il viatico attraverso cui i diritti civili hanno iniziato a diffondersi velocemente in larga parte d'Europa, nella rivoluzone esplosa in Russia nel 1917, il Partito comunista sovietico ha sovvertito l'ordine su cui si fondava lo Stato di diritto attraverso l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. L'adesione di Lev Trotsky alle istanze bolsceviche risaliva a pochi mesi prima della presa del Palazzo d'Inverno. Dal momento che fu un 'convertito dell'ultima ora' non gli fu facile guadagnarsi la fiducia dei compagni. Fondò l'Armata Rossa e mise a disposizione della causa bolscevica tutta la sua sapienza strategica durante la guerra civile che dilaniò la Russia post rivoluzionaria. Tuttavia, le dinamiche interne al Pcus lo relegarono, quasi subito, in minoranza, non appena la leadership di Vladimir Il'ic Ul'janov (passato alla storia con lo pseudonimo Lenin, ndr) si incrinò a causa dei suoi gravi problemi di salute. Il principale dirigente della Terza Internazionale, dopo la morte dell'autore delle '14 tesi di aprile' fu appellato come "controrivoluzionario, terrorista, agente al servizio dell'imperialismo straniero". L'ultima, gravissima, accusa fu addirittura quella di "fascismo". Nonostante gli orrori compiuti dal socialismo reale di Stalin, impossibili da comprendere dietro l'esigenza di inculcare le istanze del marxismo nel tessuto sociale, la figura di Trotsky sembra non riuscire a godere di una meritata 'riabilitazione'. Neanche il ritrovamento del poscritto al testamento di Lenin fece maturare la volontà di riconsiderare le accuse nei confronti dell'ex-menscevico. Così scriveva Vladimir Il'ic Ul'janov: "Stalin è troppo brutale. E questo difetto, perfettamente sopportabile nelle relazioni tra comunisti, è incompatibile con le funzioni di segretario generale. Invito i compagni a riflettere sul modo di revocare Stalin da tale carica per sostituirlo con un uomo che gli sia superiore sotto ogni aspetto: più tollerante, più leale, più cortese, più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso". Una raccomandazione firmata in data 4 gennaio 1923, cioè quindici anni prima dei famigerati 'Processi di Mosca', meglio noti come 'purghe staliniane'. Stando alla vulgata 'marxista-leninista', sarebbero stati procedimenti giudiziari seguiti da esecuzioni sommarie in tutta la loro durata (dal 1936 al 1938), eccezion fatta per i capi d'imputazione che investirono Lev Trotsky: una coincidenza strabiliante. La persecuzione fisica da parte dei quadri dirigenti del Partito comunista sovietico, culminata con l'omicidio dell'agosto 1940, era stata preceduta proprio da quella politica di terrore. Il 'trotskismo' venne giudicata una delle tante 'eresie' montanti, allo scopo di eliminare tutte le opposizioni. Il mito di una linea politica alternativa all'ortodossia marxista-leninista, incarnata da Stalin e dai suoi fedeli, venne in seguito  sfatato da un esponente della sinistra bolscevica, Zinoviev, cioè proprio da colui il quale aveva contribuito in prima persona alla strutturazione delle critiche politiche e ideologiche rivolte a Trotsky. Il quale aveva replicato, in un suo lungo monologo intitolato 'I crimini di Stalin' (recentemente ristampato, in Italia, da Res Gestae, 2016), denunciando la rapida soppressione di ogni forma di democrazia interna al Partito e l'abolizione dei sindacati come corpi intermedi tra i soviet e i commissari del popolo. Un monito che aveva il ruolo fondamentale di svelare il 'tallone d'Achille' preso di mira dal blocco delle democrazie occidentali: la nascita e lo sviluppo di una 'casta' di burocrati sempre più abbienti nel sistema sovietico, maleodorante di ipocrisia. Una retorica antenata di quella 'sovranista', che oggi etichetta come 'radical-chic' tutto l'arco della 'sinistra istituzionale', dai 'liberal' ai riformisti, fino agli attivisti dei centri sociali. Lungi dall'essere una spaccatura sulle sfumature di una stessa cornice, quella tra Stalin e Trotsky furono due impostazioni politiche incompatibili. Quello che il dittatore 'georgiano' instaurò in Unione Sovietica fu un vero e proprio capitalismo di Stato, che sommava le disuguaglianze di casta alla tirannica repressione di ogni libertà civile e politica in nome della socializzazione dei mezzi di produzione. Già negli anni '30, durante l'esilio in Kazakistan, il rinnegato Trotsky era divenuto uno strenuo sostenitore della tesi che "la rivoluzione era stata tradita" e che non fosse più, in alcun modo, "recuperabile". Le 'migliorìe di facciata' dei governi di Kruscev e Gorbacev, negli anni '60 e '80 del secolo scorso, non hanno fatto altro che ritardare la capitolazione di uno dei più grandi esperimenti della Storia. La sua teoria della 'Rivoluzione mondiale' venne tacciata di utopia, l'antitesi di ogni materialismo dialettico. Accuse respinte dall'autore de 'I crimini di Stalin' attraverso il ricorso a Marx e alla profonda conoscenza della relazioni tra le potenze: "Da un assedio si esce davvero vincitori solo nel momento in cui altre forze esterne condividono la tua causa". Allora viene da chiedersi quale sia stata la vera utopia ideologica: quella del 'socialismo in un solo Paese', oppure quella della 'Rivoluzione permanente'? La 'chiusura staliniana' ha significato la stabilizzazione del potere di una casta burocratica. C'è chi dice non si sia trattato di 'socialismo in un solo Paese', per il semplice fatto che le Repubbliche sovietiche erano tante, ben 15: limpida e cristallina come un ruscello di montagna sotto il sole di giugno è la malafede degli assertori di una simile tesi. Ben diverso il peso dell'obiezione di Antonio Gramsci alla metafora della 'guerra di movimento', quella tattica bellica agile e veloce adattissima per la Russia pre-rivoluzionaria, ma molto meno per le stabili democrazie del blocco occidentale. Accogliendo l'obiezione del fondatore del Pci, non si può non notare come la linea teorica di Trotsky, nella Terza e nella Quarta Internazionale, sia stata, nei fatti, quella di formare una coscienza di classe operaia negli altri Paesi prima di "fare la rivoluzione". Un politico lucido e lungimirante, insomma. Non un teorico originale, bensì un acuto esegeta di Marx, per non appiattire mai sulla logica discorsiva la dialettica reale tra le forze sociali. Eletto a soli 26 anni, nel 1905, presidente del Soviet di Pietrogrado, egli non fu semplicemente lo "stratega dell'Armata Rossa", ma un uomo che combatté in prima linea. Attraverso una sincera dialettica interna risolse i suoi dissidi iniziali con Lenin, per poi abbracciare la causa bolscevica. Un sognatore assai più concreto di quanto non fosse l'avanguardia degli apparati burocratici 'staliniani'.


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