Stefano de LucaI liberali per un’Italia che non sa essere liberale. E’ questo il tema che il Partito liberale italiano ha scelto per il suo recente Consiglio Nazionale tenutosi a Roma. Il nostro purtroppo è un Paese che ha presto dimenticato i liberali che da Cavour a Giolitti hanno prima unificato l’Italia e, dopo, hanno posto le fondamenta dello Stato unitario e democratico. Il colpo di Stato ‘mussoliniano’ non fu, come una certa storiografia ha cercato di far credere, subìto dal popolo italiano che, invece, nella stragrande maggioranza, si identificò pienamente nel fascismo, mentre i valori liberali avevano permeato solo una elite culturale che, col suffragio universale, si trovò in posizione di minoranza. Così, nel dopoguerra, il Partito Liberale, nonostante il grande peso morale, culturale e politico di uomini come Croce ed Einaudi, fu sempre una forza minoritaria, anche se, per il prestigio della sua classe dirigente e per la forza del proprio patrimonio ideale, riuscì ad avere una concreta influenza sempre superiore alla propria forza elettorale.
La stessa Italia che era stata fascista, divenne quindi comunista e democristiana e settori importanti di questi due partiti lavorarono sempre, talvolta riuscendovi, magari sotterraneamente, a raggiungere un compromesso. Soltanto l’alleanza atlantica ed il forte legame con gli USA impedirono, fino al 1983, che il progetto diventasse organica alleanza di governo. Il crollo del comunismo non fu, come avrebbe dovuto essere, la vittoria del liberalismo, ma l’occasione per cancellare la storia, in gran parte poco edificante, del più grande partito comunista dell’occidente. Dal giorno dopo, grazie al soccorso rosso delle toghe arruolate negli anni precedenti e piazzate in posizioni strategiche nelle principali procure, grazie al semplice cambio della denominazione, esso si candidò al governo del Paese. Tutto ciò con la complicità di molti ingenui, che si entusiasmarono alla prospettiva del sistema elettorale maggioritario. Così furono spazzati via i partiti che avevano governato l’Italia per un cinquantennio nel dopoguerra e che, almeno su alcune grandi questioni, come le alleanze internazionali, il processo di unificazione europea e la laicità dello Stato, avevano tenuto conto della posizione liberale. Alla legittimazione degli ex comunisti per un ruolo di governo influirono anche le stragi dei giudici Falcone e Borsellino per il clima di paura e di sgomento che determinarono, nonché il consenso che venne dalla nuova amministrazione americana di Clinton. Il 1994 segnò in Italia la fine della politica intesa come confronto tra culture e valori diversi e sovente contrapposti. Passò la parola d’ordine della fine delle ideologie, mentre in realtà una sola era stata sepolta sotto la vergogna della sua ingloriosa storia: quella comunista, così come le macerie morali e materiali della guerra e dell’olocausto avevano spazzato via il nazifascismo. Un Paese che non era mai stato liberale, si trovò così nelle condizioni di seppellire anche quel poco di liberale che era rimasto. Come dice sempre Renato Altissimo in Italia si inaugurò l’era dello Yelsenismo, con il prevalere della demagogia e del qualunquismo nel campo politico e con il dilagare del più volgare affarismo nel campo economico. L’Italia, in nome di un presunto avvio del processo di privatizzazione, passò dagli sprechi e dalla lottizzazione statalista, all’assalto al patrimonio delle aziende e del capitale pubblico. Il mondo bancario e tutto quello che è avvenuto e sta ancora avvenendo per assicurarsene il controllo, cosi come la vicenda Telecom, sono stati gli esempi più eclatanti di una trasformazione del nostro da un Paese di industriali in Paese di finanzieri, spregiudicati e collocati, trasversalmente a destra come a sinistra. Se è vero, come proprio in questi giorni sembra venir confermato, che, oltre ai compari del quartierino, la vicenda Telecom è servita a finanziare gruppi economici importanti schierati sia con la destra che con la sinistra, ripetendo lo schema bancario secondo cui una scalata favoriva un’area politica e la seconda l’altra, si spiega la debolezza della politica nei confronti dei poteri forti ed il ritardo inaccettabile del licenziamento di Fazio. Anche chi come noi sogna un Paese in cui la politica sappia mantenere la propria supremazia e risolvere i problemi, deve prendere atto che, talvolta, come nei recenti casi di Banca Popolare Italiana e UNIPOL, se non vi fosse stato l’intervento della magistratura, il cancro non sarebbe stato estirpato. Oggi il tema è quello di affrontare definitivamente ed in maniera chiara e netta il problema di un partito (PCI prima DS oggi) che, attraverso la finzione del mondo cooperativo, di fatto è il proprietario e il manovratore di una quota enorme del patrimonio industriale finanziario, bancario e distributivo italiano. Questo è il vero conflitto d’interessi, non quello di un singolo, anche se Presidente del Consiglio, che è proprietario di imprese. E’ l’anomalia della coincidenza tra potere economico politico e finanziario servente al Partito - Stato di leninista memoria che non può più essere tollerata, con l’aggravante anche delle agevolazioni fiscali distorsive della concorrenza. Quando Fassino si rallegra dicendo “finalmente abbiamo una banca nostra” non si riferisce al partito dei DS, che già una grande banca ce l’ha, il Monte dei Paschi di Siena, ma alla sua corrente interna. Questo è terrificante. In un simile clima le elezioni politiche possono essere una grande occasione per riportare la politica al centro del sistema e ridarle il primato che le compete. La Casa delle Libertà ha ancora la concreta possibilità di vincere la battaglia elettorale se saprà isolare gli affaristi che pure al suo interno esistono e scegliere una via liberale di modernizzazione e liberalizzazione del Paese, spiegandola con pacatezza, ma con chiarezza e determinazione, agli elettori. Il PLI può ed intende fare la sua parte e certamente ha molte cose da dire. Forse, come sempre nei momenti di crisi più profonda, si intravede uno spiraglio per un possibile futuro diverso. Se l’Italia vuole finalmente essere più liberale non può fare a meno del Partito dei liberali italiani che intendono ritornare con il proprio simbolo sulla scheda elettorale.


Segretario Nazionale del Partito Liberale Italiano
Articolo tratto dal quotidiano 'L'opinione delle Libertà' del 12 gennaio 2006
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