Francesca BuffoA 70 anni dall'insurrezione generale contro il nazifascismo, proclamata il 25 aprile 1945 dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, è ormai giunto il momento di analizzare determinati accadimenti storici con coscienza e obiettività, secondo un principio laico di sincera razionalità e di profonda onestà intellettuale, al fine di avviarci concretamente verso una memoria effettivamente condivisa della nostra Storia. Si tratta di un processo culturale ancora lungo, probabilmente, che necessita, tuttavia, di un profondo sforzo valoriale di accettazione reciproca, di coraggio e di sensibilità umana. A tal proposito, abbiamo voluto intervistare il regista Antonello Belluco, che di recente ha presentato al pubblico italiano un buon film, 'Il segreto di Italia', di dolorosa riflessione su quanto accaduto in molte parti d'Italia immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il nostro intento non è certamente quello di porre sul medesimo piano fatti storici diversi e motivazioni ideali ben distinte tra loro, bensì di sottolineare come la via 'maestra' per la definitiva vittoria di una cultura autenticamente democratica passi anche dall'accettazione di alcune verità a prima vista 'scomode', ma in grado di liberarci definitivamente dalle follìe dell'odio ideologico e curare alcune nostre profonde ferite del passato.

Antonello Belluco, innanzitutto cominciamo dal 25 aprile: lei la ritiene una ricorrenza solamente di una parte del nostro Paese?
"Il 25 aprile è sicuramente una data che ha tracciato un solco ben definito nella nostra Storia, perché una parte d'Italia ha vissuto il fascismo del 'dopo 8 settembre', mentre un'altra parte ha invece visto l'arrivo degli alleati e, quindi, la fine della guerra, che invece al nord si è protratta fino al 1945. Sicuramente, è una data che ancora oggi non cerca riappacificazioni, perché probabilmente è un anniversario festeggiato solo da una parte del popolo italiano. Il senso dell'unità nazionale, io credo debba avvenire in modo diverso, ponendo cioè in discussione anche le 'verità nascoste', rimaste tali, purtroppo, per 70 anni. Solo allora il 25 aprile potrà diventare una festa di rinascita nazionale e della fine del regime fascista. Non può essere soltanto la festa della Resistenza, ma di 'pacificazione'. E questa pacificazione può avvenire solo attraverso la verità: quella nascosta, celata, se non addirittura 'murata', anche nel corso di questi ultimi anni...".

Lei ha diretto un film, 'Il segreto di Italia', che racconta l'eccidio di Codevigo da parte di alcune bande di partigiani: è stato un tentativo di provocare un dibattito, oppure ha voluto sottolineare, a 70 anni dalla liberazione dal nazifascismo, la mancanza di una memoria 'condivisa' nel nostro Paese?
"Che si discuta del mio film per il 25 aprile, lo trovo spiacevole. Diciamo che questa data ha assunto, sicuramente, una funzione di ricorrenza per chi ha vinto. Il mio film non ha nulla di provocatorio: racconta all'opinione pubblica italiana una di quelle verità che sono state a lungo tenute nascoste. La verità non è provocazione. Semmai, può esser vista in questo modo dall'altra parte, come mi è capitato mentre stavo raccogliendo informazioni e documenti, portandomi a chiedere come mai certi accadimenti fossero stati nascosti così a lungo. Tutto ciò sottolinea l'assenza di una "memoria condivisa". Tuttavia, il film non si pone in un'ottica di contrapposizione: i morti sono morti, a prescindere dal fatto che appartenessero alle brigate partigiane o alla Repubblica sociale italiana, o avessero altro 'colore'. Il problema, semmai, è che 'certi' morti non sono stati raccontati. Non c'è strage che non debba essere condannata. Dunque, non riesco a capire il perché di certe 'chiusure'. L'eccidio di Codevigo è venuto alla luce soltanto negli anni '90. E la tragedia delle 'foibe' abbiamo cominciato a celebrarla solamente dal 2004. L'eccidio di Codevigo fu solamente uno di quei tristi episodi accaduti dopo il 25 aprile 1945, cioè dopo la deposizione delle armi. Non sono stato l'unico a parlare di queste cose: ho girato un film su questi argomenti, ma sembra quasi ch'io abbia voluto esasperare gli animi, o che abbia fatto qualcosa di inenarrabile. Peraltro, io non ho raccontato l'eccidio per come è avvenuto, ma piuttosto la vicenda di una famiglia che si è ritrovata davanti a un plotone di esecuzione e a guerra già finita. E' capitato a Codevigo, come a Schio e in molti altri posti dell'Italia del nord. Non vedo perché, secondo una coscienza storica onesta, pubblica, nazionale o di Stato, la si chiami come si vuole, non vi possa essere l'opportunità di mettere tranquillamente sul tavolo tutto quel che è accaduto".

Nel suo film, in certi momenti, sembra trasparire una critica verso il fascismo stesso, il quale avrebbe tradito i suoi ideali originari, quelli della primissima 'adunata' di piazza San Sepolcro a Milano: è così?
"In Italia, tutti sono stati fascisti fino al '43. Vittorio Sgarbi, in questi giorni, ha letto una poesia di Pietro Ingrao tratta da un volume di poeti fascisti. In risposta alla presidente della Camera, Laura Boldrini, che pare abbia proposto di rimuovere l'obelisco del Foro italico, più comunemente detto 'del Duce', Sgarbi ha polemicamente chiesto di cancellare anche Ingrao in quanto poeta fascista. A quei tempi, tutti o quasi erano stati fascisti. E io questo lo dico, nel mio film. Nella pellicola ho infatti inserito diverse figure: il partigiano 'schedato'; quello 'buono' che cerca la riconciliazione; il fascista 'ricreduto', che cioè si è sentito tradito da quel fascismo nel quale si era riconosciuto fino a qualche anno prima; quello convinto fino all'ultima ora; quello delle 'brigate nere' che scappa perché sa di avere qualcosa sulla coscienza, ma anche perché teme di essere passato per le armi come atto di giustizia sommaria. Nel film ho cercato, insomma, di descrivere tutta questa varietà di popolo, che ha subìto un qualcosa di estremamente grave. La figura del padre di famiglia, per esempio, che si ritrova a dire davanti agli amici: "Alla fine, di qui son passati tutti: prima sono arrivati i romani, poi gli austriaci, poi i fascisti, adesso arrivano i comunisti. Ma la terra non cambia mai: rimarrà sempre la 'madre' che ci dà da mangiare". Quando noi avremo la capacità di andare oltre le 'bandiere', i 'colori', le ideologie e tutti quei sistemi che trascinano la mente umana alla perversione, solo allora, io credo, l'uomo vivrà finalmente per l'uomo. E il 25 aprile non sarà più la festa solo di chi ha vinto. Per me, la cosa più importante è che ci sia, da parte di tutti, la consapevolezza che la verità non è mai di parte: la verità è di tutti".

Lei ritiene che la prima versione 'socialisteggiante' del fascismo fosse un tentativo autentico di rivoluzione politica e non uno strumento del capitalismo italiano e della piccola borghesia rurale per difendersi dall'avanzata delle sinistre, soprattutto quelle collettiviste o più genericamente marxiste?
"Io feci l'esame di Storia contemporanea seguendo il corso tenuto, presso la mia facoltà di Scienze politiche, da Toni Negri. Dunque, ho una discreta conoscenza di marxismo e di quella che è stata la cosiddetta 'intellighentia italo-marxista' del tempo, poiché allora la mia facoltà era gestita proprio da quel tipo di professori. E ricordo che nel manuale si raccontava come i fascisti andassero a prendere le materie prime 'saltando' i commercianti, per fare in modo che il prezzo delle merci si abbassasse e i prodotti di prima necessità fossero venduti anche alla gente che, in quegli anni, soffriva la fame. Se pensiamo alla monarchia sabauda, uscita dalla prima guerra mondiale e dai successivi accordi di pace con un'immagine tragicamente distrutta, con un Governo diciamo pure liberale, ma molto fragile e inefficace, si può capire facilmente perché il popolo italiano sentisse il bisogno di qualche punto fermo. Probabilmente, il movimento 'mussoliniano' trovò spazio grazie a un'idea di 'socialismo di base' che avrebbe portato dei benefici, come in realtà ha fatto, dato che molti divennero fascisti sin dalla 'prima ora'. Basti vedere le città che sono sorte, i monumenti, i palazzi, le costruzioni, il lavoro che c'era. Si trattò di una dittatura discutibilissima per molti versi, ma un certo benessere per il popolo vi fu. Io non sono uno storico, ma credo sia corretto pensare che, in quel frangente, servisse qualcosa che desse forza, orgoglio e sostegno al popolo: ecco perché il fascismo riuscì entrare nel cuore di molte persone, se non di tutta una nazione. Se analizziamo gli altri tipi di fascimo che ci sono stati in Europa, vediamo che il 'franchismo', per esempio, non è intervenuto in guerra ed è andato a morire lentamente con il 'passaggio' a re Juan Carlos di Borbone del 1975; il fascismo tedesco, invece, è entrato in guerra per seguire Hitler, il quale ha imposto le leggi razziali. Tutte queste successioni di eventi storici hanno fatto sì che ognuno, in seguito, la pensasse in modo diverso. Nel mio film c'è il fascista convinto fino all'ultima ora e quello che dice: "No, il fascismo che desideravo io era di un altro tipo". Non dico che altri, quelli della brigata Garibaldi per esempio, fossero stati anche loro tutti fascisti. Ma certamente, molti di loro lo furono fino al 1943. Prima di quella data, questi 'signori' avevano indosso la camicia nera anch'essi, con la tessera del Partito in tasca e tutto quello che ne derivava".  

Lei è notoriamente un uomo di sinistra, un intellettuale progressista: se potesse tornare indietro rifarebbe ancora un film giudicato 'scomodo' come 'Il segreto di Italia'? E perché?
"Le cose si possono fare meglio quando si hanno maggiori risorse. Noi abbiamo fatto questo film con 300 mila euro. Tuttavia, con estrema franchezza le dico che, quando un regista termina un'opera, di problemi e difetti ne trova sempre un'infinità. Io penso di aver dato spazio alla mia coscienza e alla mia onestà intellettuale legando dei simboli a ogni personaggio, dalla lucentezza alle speranze distrutte della giovane Italia (la protagonista del film, ndr) alle tragiche responsabilità del podestà, un opportunista che scappa lasciando dietro di sé tutti i problemi che egli stesso ha contribuito a creare, fino a narrare di tutta quella povera gente che rimase sul posto preoccupata di dover mungere le vacche, perché mungere voleva dire poter mangiare... Io ho voluto fare un film, ripeto, non tanto su un eccidio, quanto sulla sofferenza di un popolo".


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Vittorio Lussana - Roma/Milano/Bergamo - Mail - mercoledi 29 aprile 2015 22.4
RISPOSTA AL SIG. GIORGIO: caro lettore, comprendo il profilo ideologico e persino culturale che lei propone. E, sostanzialmente, lo condivido, per svariati motivi. Non ultimo, il lungo 'sonno' di rimozione collettiva avutasi in Germania nei confronti del nazismo, testimoniata solamente dallo scrittore e saggista Gunter Grass, recentemente scomparso. Tuttavia, la risposta di cui lei parla poteva essere ideologica, politica e militare allora. Ma oggi, risulta assai più saggio e più giusto affidarci, nel giudicare certi fatti, a un più equo principio di umanità, come ha cercato di fare il regista Belluco, che correttamente ha fotografato una comunità varia di uomini e donne diverse, con responsabilità ben distinte. Se continueremo a rimanere sul crinale ideologico, allora l'accusa di repressioni e vendette motivate proprio dall'odio ideologico continuerà ad avere un senso. Se, invece, sapremo introdurre, nel nostro giudizio, un principio di umanità e di comprensione, forse riusciremo finalmente a compiere un passo decisivo verso una reale e fattiva pacificazione nazionale. E, soprattutto, verso una superiorità morale che potrà avere modo e titolo di essere. E di sussistere. Distinti saluti. VL
giorgio - Milano - Mail - lunedi 27 aprile 2015 8.41
Ecco, con questo esempio portato dalla mail di Mario, il prodotto di un certo reviisionismo su chi è ben lontano dall'aver compreso cos'è successo in questo Paese in quel periodo del secolo scorso.
mario - italia - Mail - lunedi 27 aprile 2015 0.45
.. sarà molto difficile trovare quella strada della pacificazione finchè si continuerà a leggere incredibili commenti che riportano invenzioni distorsioni e falsità storiche per giustificare eccidi che tutt'altro cercavano la libertà ma una sostituzione di una blanda ditatura con una più atroce e sangiunaria comunista....l'ignoranza è sovrana....
giorgio - Milano - Mail - lunedi 27 aprile 2015 0.17
Mi scusi, signora Buffo, ma dovrei pensare allora che, siccome ad esempio anche in Germnaia la storia "ha investito" profondamente i protagonisti dell'epoca di cui si parla, nazisti e antinazisti (c'erano anche loro), il limite tra giusto e sbagliato si debba considerare sfaldato quando la si racconta (la storia)? Ancora, siccome si parla da parte di qualcuno di guerra civile nell'Italia di allora, domando: chi ne ha determinato le cause e quale avrebbe dovuto essere la risposta, forse non abbracciare nessuna causa né quella giusta né quella sbagliata per non essere poi accusato di inutile crudeltà?
Francesca Buffo - Italia - Mail - domenica 26 aprile 2015 20.36
Rispondo a entrambi i lettori. Innanzitutto, come afferma nell'intervista il regista Belluco (e avendo visto il film posso confermare che è così) la pellicola non prende le parti di nessuno, ma fornisce una fotografia di ciò che è successo in quegli anni così terribili. È vero che in una sua recensione il direttore Lussana ha parlato di revisionismo, ma proprio per sottolineare che l'occhio del regista ha voluto andare 'oltre' la consueta cronaca, che solitamente ricorda solo ciò che si vuole. Raccontare le guerre tracciando una netta distinzione fra buoni e cattivi è un po' troppo semplicistico. Soprattutto quando si parla di guerra civile. E quella italiana lo è stata. Nei ricordi dei nonni c'è ancora chi racconta della divisa da "balilla" che si faceva indossare a tutti i bambini. Molti lo hanno fatto controvoglia perché, se volevano lavorare, dovevano farlo. Raccontare la storia in modo univoco è demagogico, perché i giovani devono sapere che quando la storia 'ti investe', il limite fra giusto e sbagliato si sfalda e che l'animo umano è crudele, sia che abbracci la causa sbagliata o quella giusta.
Roberto - Roma - Mail - domenica 26 aprile 2015 20.4
Concordo pienamente con quanto scritto prima di me dal sig. Giorgio: non capisco questo bisogno di legittimare i manutengoli del nazismo, quelli che aiutavano concretamente i tedeschi nei rastrellamenti. E' chiaro che, in una logica di guerra, chi ha assistito a certe cose, quando ha potuto ha cercato la vendetta o la giustizia personale. Non intendo dire che fosse giusto comportarsi così, ma ritengo che in determinati frangenti storici certe cose siano, purtroppo, inevitabili. Ma da qui a farne un uso strumentale ce ne passa, o ce ne dovrebbe passare. E non mi sembra corretto, ne sotto il profilo della coscienza storica, ne sotto quello dell'onestà intellettuale, questioni che vengono tirate in ballo per altre finalità. Anche perché mi sembrava di aver letto da qualche parte che proprio il direttore Lussana, pur riconoscendo il valore artistico di questo film, avesse liquidato la questione con un giudizio ben argomentato di "pellicola revisionista". Dunque, per l'ennesima volta, non comprendo certi repentini cambiamenti di linea editoriale, forse dettati dalla volontà di approfondire certe vicende particolari, ma che mi lasciano comunque perplesso.
Giorgio - Milano - Mail - domenica 26 aprile 2015 19.30
Incredibile questo tentativo di demonizzare certe vicende avvenute dopo il 25 aprile, come se si potesse pensare che aver instaurato nel ventennio precedente un regime che ha portato (accanto a quello che il regista definisce "un po' di benessere" per le masse), guerre, lutti e sofferenze per molti, potesse essere superato e metabolizzato con rose e fiori. Se ti avessero sbudellato una sorella e ucciso il feto che c'era dopo averlo lanciato per aria, vorrei vederlo alla prova dopo un qualsiasi 25 aprile e vedere come si comperterebbe di fronte a tentativi di revisionismo così smaccati. Sarebbe come dire che la storia dei pellerossa che si sono pur macchiati di tremende efferatezze agli occhi dei bianchi invasori (ovviamente stupefatti di tanta crudeltà, loro che portavano solo benessere e civiltà) dovesse essere intepretata alla luce di tali avvenimenti, inevitabili in quelle circostanze. E se il regista dice che delle foibe si è cominciato a parlare solo negli anni '90, gli ricorderei che dei nostri massacri precedenti in quelle zone (all'origine dei successivi avvenimenti anche efferati), uno per tutti il campo di concentramento di Arbe, degno di Auschwitz, ancora non si parla né nella società "civile" né nelle scuole (e i colpevoli, pur noti sono rimasti impuniti).


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