Giuseppe SaccoDa più di un decennio, ormai, gli Italiani convivono con l’immigrazione, senza essersi data una politica per fronteggiarla e disciplinarla. Nei comportamenti quotidiani, lo Stato ha proclamato leggi apposite; ha lasciato che, per ragioni falsamente «umanitarie», si creassero situazioni di fatto al di fuori della legge: ha proceduto nei confronti degli immigrati in maniera incerta. In nessun caso lo si è visto così chiaramente come in occasione dell’arrivo in massa dei disperati albanesi in Puglia, la cui prima ondata venne accolta con eccessiva benevolenza, mentre la seconda, poco tempo dopo, venne respinta con durezza altrettanto eccessiva. Peraltro nelle schermaglie tra politicanti e gruppi di interesse si è registrata, almeno fino ad oggi la netta prevalenza delle posizioni favorevoli all'afflusso di un numero sempre crescente di extracomunitari. Tra le organizzazioni che sembrano favorire una politica di “apertura” viene di norma citata la Confindustria, che ha chiesto – per il 2001 – l’ammissione di 105 mila nuovi immigrati, cioè quasi il doppio di quanto previsto dal governo, in particolare per lavorare nei settori rifiutati dagli Italiani. Si tratta, evidentemente, di un fabbisogno di “braccia”. Anche le Regioni tendono a sostituirsi all'inesistente politica dello Stato in questo campo, nonostante la legge Turco-Napolitano stabilisca che la decisione sulla determinazione dei flussi spetti al Presidente del Consiglio e ad un tavolo governativo insediato presso Palazzo Chigi. La Federindustria dell’Emilia Romagna ha disegnato insieme ad altre Regioni del Nord un progetto inedito per il reperimento di manodopera all’estero che va oltre l’indicazione delle esigenze quantitative e la politica delle quote, per identificare specifici paesi in cui sono presenti risorse umane professionalmente interessanti da selezionare e da formare in loco, in collaborazione con diplomazie e strutture ad hoc. Ma il nucleo duro della lobby pro-immigrazione è quello della sinistra politica e delle organizzazioni cattoliche. Per queste ultime è facile capire l’imperativo etico, che ha spesso il limite di tradursi nella buona azione spicciola, incapace di vedere l’immigrazione per quel che è nei suoi termini complessivi: un problema politico di importanza storica per la società occidentale. Ma resta da spiegare come mai siano proprio le forze di sinistra, cioè quelle che dovrebbero rappresentare le classi sociali più direttamente minacciate sul fronte economico dall’immigrazione, e da questa quotidianamente danneggiate nel loro stile di vita, pongano in essere politiche di grande apertura di concessioni indiscriminate di diritti e di sanatorie a ripetizione di immigrati illegali che hanno diffuso in tutto il Terzo mondo l’idea che l’Italia è il ventre molle dell’Europa, la terra promessa di tutti i disperati, dove l’importante è entrare, legalmente o illegalmente, dato che, una volta entrati, “le cose si aggiustano”. La spiegazione va cercata nel vantaggio elettorale che queste forze – o meglio talune componenti organizzate di queste forze – trarrebbero da uno sviluppo delle attività economiche “indotte” dall’immigrazione. L’indotto dell’immigrazione, comprende naturalmente un gran numero di attività illegali, quali la prostituzione e il suo sfruttamento, l’affitto a prezzi di rapina di orrendi tuguri, la protezione dell’accattonaggio organizzato e lo spaccio di droghe. Ma soprattutto molte attività a carattere assistenziale, e quindi non solo legali, ma moralmente più che commendevoli. Comprende cioè le organizzazioni di inquadramento lavorativo politico e clientelare di un gran numero di precari. La fidelizzazione di grandi fasce d'elettorato avviene con una fantasia senza confini. Non si tratta solo di riuscire a dare un lavoretto provvisorio – e quindi a controllare politicamente qualche migliaio di assistenti sociali o di laureati in pedagogia, o di “esperti” non meglio identificati, ma anche di organizzare un “numero verde” che consenta agli immigrati di chiedere consiglio per ogni tipo di problemi relativi al proprio inserimento sociale. E, naturalmente anche una serie di call centres, nonchè la creazione di un pool di avvocati, evidentemente pagati con risorse pubbliche, per assistere gli immigrati nelle loro vertenze giudiziarie. Sarebbe interessante calcolare quanti micro-intellettuali disoccupati potrebbero trovare un lavoretto provvisorio, una piccola prebenda se veramente fosse messa in atto l’idea di organizzare dei corsi per insegnare ai maestri elementari, e poi ai professori di scuola media, a dire “come stai?”, “buongiorno”, “dove ti fa male?” nelle ottantaquattro lingue che oggi si dice siano parlate dagli studenti che frequentano le disastrate scuole del nostro paese. Vale la pena di notare che tutte queste attività nel sociale partono dal presupposto dell’obbligo morale di garantire agli immigrati condizioni di parità con i lavoratori italiani. Tutto questo mentre si discute della possibilità di consentire ai datori di lavoro di pagare salari più bassi nel Mezzogiorno. Insomma gli immigrati sarebbero, nella patria del diritto, più uguali dei meridionali. Il clientelismo dell’indotto non solo ha portato all'accentuazione del terzo obiettivo della legge Turco- Napolitano relativo al mero sostegno dell'integrazione degli extracomunitari nella società italiana, ma persino alla creazione di una “riserva”, pari a quasi la metà della quota annuale, per il “richiamo diretto” di migranti fatto non già da parte dei datori di lavoro, bensì da parte di extracomunitari già installati, sul territorio nazionale italiano. In questa situazione l'utile elettorale spicciolo ha determinato la confusione della politica della forza lavoro con quella derivante dall'emergenza demografica dell'Italia. E’ facile prevedere che la distinzione tra “braccia” e “uomini” susciterà non poche reazioni negative. Si dirà – giustamente – che le due cose non possono essere separate, e che voler vedere gli immigrati solo come forza lavoro è una negazione della loro umanità, una violazione del principio etico che impone di non considerare mai l’uomo come mezzo, ma sempre come fine. Ma è facile rispondere sottolineando come nessuno si sia mai preso la briga di andare a vedere quale sia il modo in cui essi, che sono i più diretti interessati, vedono il fenomeno migratorio, e se essi siano – o no – interessati all’integrazione nella cultura italiana. Innanzitutto gli islamici dell’Africa del Nord, che forniscono il maggior numero di immigrati all’Europa meridionale, chiamano l’emigrazione “elghorba”, l’esilio. Gli immigrati, fanno poi una netta distinzione tra “braccia” e “uomini”, tra la loro disponibilità (ed aspirazione) a diventar parte della forza lavoro del paese di destinazione e la ben più dolorosa operazione di cessare di essere ciò che sono per diventare Italiani (o Francesi, o Spagnoli). Di grandissimo interesse è – a questo proposito – la distinzione che gli immigrati marocchini in Francia fanno tra il “passaporto verde” (cioè quello del Marocco, visto come una sorta di permesso di uscita, per lavorare all’estero), il “passaporto blu” (di coloro che in passato ottenevano la cittadinanza francese, visto come una condanna a perdere la propria identità), e il più recente “passaporto marrone”: quello della Comunità Europea, visto come una vera e propria garanzia di libertà, perché consente di vivere e lavorare in un’area non definita dal punto di vista culturale-nazionale, dove ciascuno può essere se stesso; la possibilità di guadagnarsi da vivere, senza doversi mascherare da ciò che non si è. A dispetto dell'ex Ministro degli Affari Socilali Livia Turco, che tanto aveva insistito sui ricongiungimenti familiari, la maggior parte degli immigrati sono uomini soli, che partono pensando di restare all’estero solo per un periodo più o meno breve, e la cui aspirazione più viva è di rientrare in patria per vivere secondo i propri costumi, ma non certo di assimilarsi – e men che mai di trasferire e far assimilare le proprie famiglie – alla società occidentale. In un ambiente legislativo affidabile, in un quadro di diritti certi e irrevocabili, l’immigrato dunque potrebbe trovare conveniente presentarsi nella società europea solo come lavoratore. Nei limiti di una quota fissata annualmente, agli extracomunitari che siano nelle condizioni di età, fisiche e psichiche che gli consentano di lavorare, e che siano riusciti a trovare un’occupazione in Italia, la Repubblica Italiana potrebbe concedere un permesso illimitato che consenta di entrare e di uscire: un permesso senza scadenza, non falsificabile, che consenta sempre l’identificazione, e che decade solo per attività delinquenziali. In tale caso, si verrebbe a creare un meccanismo in cui il sistema produttivo italiano avrebbe tutta la manodopera di cui ha bisogno. Radicalmente diversa dalla politica della forza lavoro, come obiettivo, approccio e metodo, la politica della popolazione dovrà soprattutto puntare – come suggerito da Andrea Monorchio – su strumenti come incentivi alla natalità, prolungamento della vita attiva, assegni familiari, servizi sociali alla maternità e all’infanzia. Per la politica della popolazione, è evidente che l’immigrazione non rappresenta una soluzione. La politica della popolazione non può insomma avere un obiettivo fissato su parametri quantitativi esterni, essa semmai deve essere finalizzata al mantenimento di un equilibrio naturale tra le generazioni; Anche i criteri operativi della politica della popolazione dovrebbero essere radicalmente diversi da quelli della politica della manodopera. Mentre i secondi scontano un flusso di lavoratori da paesi assai vicini geograficamente, ma culturalmente assai lontani – anzi sempre più lontani, per il risveglio religioso che accompagna il boom demografico –la politica della popolazione dovrebbe puntare su immigrati provenienti da paesi come quelli dell’America Latina, in particolare l’Argentina, che hanno in passato assorbito larga parte dell’eccedenza demografica dell’Italia. Si tratta di paesi assai lontani (elemento poco rilevante dato il carattere definitivo del trasferimento), ma culturalmente abbastanza vicini da rendere possibile l’integrazione senza attriti e senza problemi per entrambe le parti, di immigranti il cui arrivo verrebbe programmato e gestito attraverso canali di afflusso e strumenti istituzionali stabiliti da accordi bilaterali tra Stati. Al contrario di quanto è logico che accada con la politica della forza lavoro, non si tratterebbe – in questo caso – di far entrare solo individui produttivi, ma interi nuclei familiari: nuclei familiari giovani e con figli che, per esigenze scolastiche e assistenziali, verrebbero forse in un primo tempo ad ulteriormente aggravare lo sbilancio tra Italiani produttivi ed Italiani assistiti. Il che conferma che la politica della popolazione non può coinvolgere grandi numeri, ma può essere perseguita solo in misura piuttosto ridotta e distinta dalla politica della forza lavoro. E solo alla condizione che una politica coerente e continuativa, nel campo della forza lavoro, riesca a correggere, o almeno a rallentare, la catastrofica tendenza su cui il crollo della natalità ha avviato l’economia e la società italiana.
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