Ilaria CordìAbbiamo intervistato la professoressa Simona Landolfi Gasparetti, docente di Storia della Filosofia all’Università ‘Roma 3’, nota scrittrice e saggista. Siamo infatti rimasti incuriositi e interessati al progetto che quest’autorevole intellettuale intende sviluppare insieme agli studenti di filosofia e di medicina all’interno dei nostri ospedali, un’idea curiosa e fuori dal comune, tesa a far comprendere alle future generazioni di filosofi e di medici quanto sia importante lo ‘studio della cura’ umana sin dai suoi esordi. Ci siamo perciò chiesti: filosofia e medicina possono essere considerate complementari? Ecco qui di seguito le risposte della nostra intervistata.

Professoressa Landolfi Gasparetti, può illustrarci l’iniziativa che intende prendere all’interno degli ospedali romani?
“Si tratta di un progetto che va avanti dall’anno 2005 insieme al gruppo di ricerca di medicina e filosofia. Esso è un’offerta didattica che viene proposta non solo agli studenti di filosofia di ‘Roma 3’, ma anche a quelli di medicina, grazie al gruppo di intesa che abbiamo concordato con il Policlinico ‘Agostino Gemelli’ - Università del Sacro Cuore - e il Policlinico ‘Umberto I’ – Università ‘La Sapienza’. I nostri studenti, collaborando con i ‘futuri’ medici, cercano di integrare il sapere filosofico con il sapere medico. Il progetto non è puramente teorico, ma vi è una parte pratica soprattutto per coloro che non sono mai stati in un reparto ospedaliero. Esso consiste nell’esercitare le emozioni nei luoghi di cura intervistando, senza alcun valore statistico, in gruppi di 3-4 persone, i pazienti malati. Il lavoro è diviso in due parti ben distinte: la prima consiste nel seguire 3-4 incontri presso la sede di ‘Roma 3’, in cui gli studenti acquisiscono gli strumenti psicologici per non cedere di fronte alla ‘malattia’. La seconda è composta da 6 incontri, dove gli studenti registrano le suddette interviste. Essi sono liberi di relazionarsi alle persone nel modo più libero possibile, naturalmente attenendosi alle indicazioni date nella prima parte della preparazione. Alla fine di queste 6 sedute,  i laureandi, a piccoli gruppi composti da un medico e da un filosofo, dovranno stilare delle relazioni: ovviamente, questa sarà la parte più complicata dell’intero lavoro, in quanto è il momento in cui le due categorie di pensiero debbono confrontarsi e collaborare”.

Tra cultura, impegno intellettuale e salute può instaurarsi un rapporto nuovo, o addirittura diretto? In che modo?
“Queste collaborazioni hanno uno scopo prettamente formativo non solo per i filosofi, ma soprattutto per i medici, perché il malfunzionamento degli ospedali non dipende solo da quest’ultimi, ma anche dal paziente stesso. Il paziente, solitamente, ha un atteggiamento peggiore rispetto al medico, poiché non avendo una ‘cultura della cura’, esso pretende dall’istituzione medica il ‘riparamento’ della malattia, considerandosi come un’autovettura in officina. I problemi legati alla salute sono preoccupazione di una consapevolezza personale. La cultura della cura di sé dovrebbe affermarsi insieme all’interpretazione dei sintomi, istaurando la doverosa e conveniente alleanza tra medico e paziente, dato che non esistono le malattie, ma le persone malate. È una questione di ermeneutica (la metodologia dell’interpretazione, ndr): la cura del sintomo è una decisione che deve esser presa insieme da medico e paziente. La filosofia potrebbe essere un nuovo punto di partenza della formazione del medico, introducendo percorsi di studio della cura essendo la medicina troppo tecnica e scientifica. Ma la medicina non può essere solo una scienza, dato che essa ha a che fare con l’essere umano”.

Il suo intento di fondo è forse quello di migliorare il rapporto di comunicazione tra medici e pazienti, oppure è animata da un proposito quasi ‘psicologico’ di assistenza o maggior vicinanza nei confronti di chi soffre?
“All’interno del laboratorio/progetto non vi è alcun intento ‘psicologico’ di assistenza ai malati. Non è nemmeno finalizzato al miglioramento del rapporto medico/paziente, ma il fine ultimo è quello di acquisire una consapevolezza di sé da parte delle persone. Lo scopo del laboratorio è di far apprendere ai giovani la coscienza che le relazioni non si devono intendere in modo ‘meccanico’, bensì bisogna conseguire una ‘compassione’ nella vita, sia verso gli altri, sia verso noi stessi, quindi imparando a conoscerci”.


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