Vittorio LussanaLa mia contrarietà al ‘berlusconismo’ non è mai stata di natura personale, poiché non nutro alcun sentimento di disistima nei confronti dell’attuale presidente del Consiglio. La mia critica risulta di carattere più generale e, forse, sotto questo aspetto, persino più corretta, nella sua radicalità di fondo. Io non ho nulla contro il cavalier Silvio Berlusconi, bensì contro la cultura che questo esimio signore esprime: l’aziendalismo. Dovrebbe ormai risultar chiaro, infatti, come il linguaggio dell’aziendalismo sia, per definizione, puramente comunicativo. Nella sostanza, esso non è destinato a realizzare alcunché di quello che promette o, più genericamente, esprime, poiché si tratta di un ‘gergo’ specialistico sviluppato in una funzione sostanzialmente persuasiva, di puro condizionamento delle coscienze. Il canone linguistico che vige tra i tecnocrati dell’aziendalismo tende, ovviamente, a espandersi verso l’esterno, poiché coloro che lo producono vogliono mantenere con quelli che lo ‘consumano’, ovvero che lo votano, lo leggono o lo ascoltano per televisione, un rapporto assolutamente lineare, diretto. Ma si tratta di una linearità aberrante, ‘verticale’, dall’alto verso il basso, puramente tesa a impressionare, a nascondere, a mistificare. La sua espressività è mostruosa perché clamorosamente stereotipata, fissata in rigidità che sono esattamente l’opposto dell’espressività, la quale, per propria natura, risulta invece ‘biunivoca’, o si offre a distinte interpretazioni. La finta espressività dell’aziendalismo è perciò la punta massima di un nuovo linguaggio, che intende sostituire quello umanistico. In passato, la Chiesa ha avuto la possibilità di contraddire una certa volontà democratica e liberale del potere statale. E la soluzione che venne individuata al fine di contenere e risolvere tale conflitto, tutto sommato fu semplice: una parte di questo potere avrebbe assunto una funzione conservatrice - o addirittura reazionaria - e, in quanto tale, avrebbe posto automaticamente i propri strumenti al servizio della Chiesa. C’era, dunque, un doppio legame nel rapporto tra Chiesa e Stato: la prima doveva accettare che la nuova forma di governo democratica sostituisse quella monarchica o fascista concedendo il proprio consenso, senza il quale il potere statale, in particolar modo in Italia, non avrebbe potuto sussistere. La Chiesa, insomma, fu costretta ad ammettere, almeno formalmente, la democrazia. Un compromesso che quest’ultima si dimostrò pronta a ottemperare solamente a patto di ottenere una tacita autorizzazione a limitare o, eventualmente, a sopprimere la democrazia medesima. Il vecchio patto di potere tra la Dc e la Chiesa cattolica in altro non consisteva che in questo: nel mascherare il proprio sostanziale illiberalismo affidando la funzione illiberale e antidemocratica alla Chiesa, accettata, in malafede, in quanto superiore istituzione religiosa. In realtà, chi nutre una fede genuina sa bene che anche in forme di governo laiche o secolarizzate non c’è contraddizione più scandalosa di quella tra religione e potere, essendo quest’ultimo esattamente l’opposto della filosofia morale. Il fascismo, in quanto momento regressivo, da questo punto di vista risultava meno ‘diabolico’ rispetto alla democrazia: esso rappresentava una bestemmia che, tuttavia, non era in grado di minare la Chiesa al proprio interno in quanto falsa ideologia, vuoto atteggiamento, per farla breve: una ‘buffonata’. Ma se il fascismo non ha potuto scalfire il ruolo della Chiesa, oggi l’aziendalismo rischia di distruggerla. L’accettazione del fascismo fu un episodio atroce, ma quello della cultura aziendalista può risultare un errore storico, che potrebbe esser pagato, alla lunga, con un profondo declino culturale della religione. La Chiesa deve cominciare a comprendere che l’aziendalismo rappresenta un nuovo ‘spirito’, il quale intende fornire una visione univoca della vita, falsamente innovativa, un potere che necessita di una spiritualità totalmente rivolta all’edonismo, un universo tecnocratico in cui riuscire a sviluppare una forma puramente contrattualistica, compromissoria, dell’esistenza. Si tratta di un cinismo di un’intensità assolutamente nuova, maturata a lungo in questi ultimi decenni. Esso dice, nella sua laconicità di fenomeno, che l’aziendalismo è esso stesso un valore sorto in quell’entropia imprenditoriale in cui la religione è destinata a deperire in quanto autorità spirituale, sopravvivendo solamente come prodotto di consumo mediatico, come ‘forma’ di folclore sfruttabile esclusivamente sotto il profilo comunicativo, nonché pienamente mescolabile col tecnicismo e col pragmatismo. Si tratta di un interesse che, in realtà, non rappresenta solamente un nuovo modo con cui fede e religione vengono sostanzialmente ridimensionate, ma la possibilità stessa di ‘ideologizzare’, quindi di rendere espressivo, il linguaggio religioso insieme a quello dell’intero mondo mediatico e comunicativo. Ma lo spirito blasfemo dell’aziendalismo a un certo punto non si limiterà più a un’apodissi, a forme di analisi fissate attraverso metodi espressivi puramente comunicativi: esso è destinato a diventare qualcosa di più, poiché si presterà a un’interpretazione autoritaria, assoluta, universale della vita, conservando i caratteri ideologici ed estetici dell’espressività religiosa contraddicendo, nei fatti e nei comportamenti antropologici, ogni verità di fede.




Presidente dell'associazione culturale 'Phoenix'
Direttore responsabile del mensile 'Periodico italiano magazine'

(editoriale tratto dal sito www.periodicoitalianomagazine.it)
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