Alice StopponiFranco Signoriello è un importante imprenditore e un influente consulente dell’Istituto per il Commercio Estero che ha acquisito una grandissima esperienza sul fronte dell’internazionalizzazione delle imprese italiane. Abbiamo voluto incontrarlo al fine di approfondire i motivi che sono alla base della scelta di molte aziende italiane di delocalizzare la propria produzione industriale in Paesi stranieri.

Dottor Signoriello, è facile tentare la via dell’internazionalizzazione anche se si possiede una piccola impresa? Oppure, bisogna per forza avere una struttura ben piazzata alle spalle?
“Anche se si è piccoli, si può tranquillamente essere protagonisti di un processo di internazionalizzazione. La mia lunga esperienza lo dimostra: in passato ho portato tantissime piccole e medie imprese all’estero. E con ottimi risultati”.

Alcuni analisti criticano ferocemente la delocalizzazione: non è legittimo, invece, il desiderio di espandere la propria attività guardando oltre i confini del proprio Paese?
“Certamente, soprattutto se si pensa che esiste il commercio internazionale e mondiale, oggi divenuto addirittura globale. Con la globalizzazione abbiamo assistito allo sconvolgimento dei tradizionali concetti di produzione in loco: un’autentica rivoluzione rispetto al passato, in cui molte imprese straniere, ad esempio, venivano definite, quasi con disprezzo, ‘multinazionali’. Il principio d’impresa è universale e non vale solo nella propria nazione. Chi fa impresa investe e, investendo, vuole un ritorno. L’imprenditore è colui che opera, produce e investe per generare nuovo reddito: se fa questo in Africa, in America o in Cina non ha molta importanza”.

La legislazione comune, laddove necessaria, insieme al mutuo riconoscimento delle norme nazionali, agevolano le piccole aziende che desiderano affacciarsi sui mercati esteri?
“A mio parere, sì: esistono molti fondi europei, destinati a distinte aree geografiche, che finanziano le imprese proprio allo scopo di favorire il processo di internazionalizzazione”.

Esistono scontri culturali, oppure tutto il mondo è Paese?
“Gli ‘scontri’ culturali esistono o possono capitare. Infatti, la prima cosa di cui un imprenditore che intende operare all’estero si deve preoccupare è di rispettare le culture locali. Questa forma di rispetto è fondamentale, altrimenti un imprenditore torna a casa. O lo fanno tornare a casa…”.

Oltre 2 mila aziende partecipano a progetti per l’internazionalizzazione, ma perché un’impresa italiana sempre più spesso sceglie l’estero?
“Purtroppo, in Italia abbiamo molti problemi, come sappiamo. Le faccio un esempio: durante una vacanza estiva, lei può recarsi in una qualsiasi gelateria in Croazia e, con pochi euro, offrire gelati a tutti i suoi amici. Provi a fare la stessa cosa in Italia… E’ normale che un imprenditore vada a investire e a produrre laddove guadagna”.

Quali sono gli strumenti che l’Ue sta mettendo in campo per favorire l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese?
“Innanzitutto, i fondi per specifiche aree geografiche: Nord Africa e America Latina in particolar modo. Di recente, con l’Agenda 2007 – 2013, sono stati deliberati dall’Ue ulteriori finanziamenti strutturali per l’area dell’est europeo. Il famoso ‘Obiettivo 1’, che nei decenni precedenti faceva esplicito riferimento alle aree svantaggiate del sud Europa, è dunque stato indirizzato verso i Paesi dell’est. Non si può quantificare il tutto in un’unica somma, poiché si tratta di diversi Paesi e di diversi settori industriali o, più genericamente, produttivi. Per esempio, lo scorso anno, in  Moldova, è stato proclamato l’anno delle acque e su tale settore sono stati stanziati finanziamenti specifici per la costruzione di acquedotti, reti fognarie e irrigazioni”.

Le imprese italiane come si confrontano nei Paesi in via di sviluppo, ad esempio nelle nazioni dell’Africa sub-sahariana?
“Da molti anni, sostengo che il vero futuro del mondo sia l’Africa. C’è anche un mio saggio in materia, scritto diversi anni fa. Diciamo che molte imprese si stanno affacciando nel continente africano anche perché certi tabù verso questi Paesi sono finalmente caduti e ci si è resi conto che essi possiedono mentalità e culture profondamente diverse dalle nostre. Inoltre, è divenuto persino necessario scommettere sull’Africa, perché è un continente che possiede potenzialità praticamente infinite. Le risorse sono tutte da utilizzare e quello che manca, come per esempio le strutture, può trasformarsi in nuove opportunità. A Tunisi, diversi anni fa, ho tenuto una conferenza stampa in cui erano presenti anche i vertici della Banca per lo sviluppo dell’Africa. E già allora sostenevo queste idee”.

Le imprese italiane utilizzano i mercati esteri solo per decentralizzare la produzione per i minori costi o anche, auspicabilmente, per esportare la nostra idea di capitalismo e il nostro know how?
“Ci sono imprese che operano creando proprie reti commerciali, altre che si ‘appoggiano’ a quelle di altre aziende già presenti, altre ancora che si insediano stabilmente con i propri manufatti. Infine, ci sono imprese che fanno join venture. Esistono vari modi di decentralizzare: non si tratta di un fenomeno standardizzato, bensì di pianificazioni industriali o commerciali che assumono svariate forme, ognuna delle quali può caratterizzarsi sotto molteplici aspetti”.

Le nostre aziende come affrontano il cosiddetto ‘rischio–Paese’, cioè le instabilità sociopolitiche locali? Questo costituisce un freno, come nella maggior parte dei casi, o rappresenta un ulteriore punto di confronto per verificare le proprie capacità di penetrazione nel mercato interessato?
“Il ‘rischio Paese’ si valuta in stretta concomitanza con il livello culturale dell’imprenditore: diviene dunque aspetto fondamentale possedere un ‘approccio’ specifico. Poi ci sono quelli che, da dipendenti, sono diventati imprenditori e che, talvolta, possono incontrare gravi problemi. Vi dico questo sulla base della mia quarantennale esperienza di consulente aziendale, in cui mi sono occupato di creazione e razionalizzazione di linee di credito, sia in Italia, sia all’estero, nonché di internazionalizzazione delle Pmi”.

E’ ormai in via di definizione un’importante proposta per il sostegno dell’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese italiane che operano all’estero denominata ‘Progetto World’, una fitta rete di aziende che prevede la realizzazione di un grande network mondiale che fa capo a una società creata proprio da lei: di cosa si tratta?
“Il ‘Progetto World’ nasce, appunto, dalla mia lunga esperienza professionale: dopo cinque anni di preparazione, questo progetto è conosciuto, apprezzato e sostenuto da istituzioni italiane come il ministero degli Affari Esteri, il ministero dello Sviluppo Economico, Confindustria e Sace. Si tratta di un ‘piano’ ben studiato e molto concreto, basato su un concetto di universalità dell’imprenditoria. Esso prevede lo sviluppo dell’internazionalizzazione attraverso forme nuove, originali e innovative di sostegno alle imprese. Per la prima volta, si forma un vero e proprio network mondiale composto da tante società costituite in diversi Paesi le quali, sul posto, svolgono un ruolo istituzionale e imprenditoriale: istituzionale, in quanto queste società locali, chiamate ‘Asi World’ (Agenzie per lo sviluppo dell’internazionalizzazione, ndr) dopo aver preparato e ‘confezionato’ i programmi scelti dai vari ministeri, sono chiamate, attraverso le loro reti di categoria o di settore, a sostenere le Pmi a realizzare i loro piani industriali, o nella veste di socio, oppure in quella di diretta titolare di commessa; imprenditoriale, perché queste Asi World, supportando l’azienda che reperisce e predispone determinati investimenti, possono essere chiamate a far parte delle società di scopo che debbono realizzare determinate pianificazioni, svolgendo cioè un’attività imprenditoriale diretta. Le prime Asi World sono state costituite in Albania, dove sono stato ricevuto dal ministro delle Finanze, dal ministero dell’Ambiente, dal sindaco di Tirana e dal nostro Ambasciatore. Tutte istituzioni a cui ho annunciato, all’interno del ‘Progetto World’, la costituzione di ‘Asi World Albania’. La stessa cosa era già avvenuta in Moldova, in Romania e in molti altri Paesi del mondo. In questa fase, sto privilegiando i Paesi dell’est europeo per la loro relativa vicinanza, ma anche perché, tra il 2007 e il 2013, dev’essere attuata la nota ‘Agenda’ con la quale l’Ue ha destinato molti fondi per lo sviluppo proprio di quei Paesi”.


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