Questo articolo è stato pubblicato da "Il Sole 24 Ore" lo scorso 16 febbraio 2003.

L’egemonia ‘imperiale’ americana è una minaccia per il mondo?
Così sembra pensarla una larga fetta di opinione pubblica europea. I venti di guerra surriscaldano gli animi e lo stile aggressivo di Bush non induce certo simpatia, né disponibilità a valutazioni ponderate. Ma la serietà di questa congiuntura internazionale e l’enorme posta in gioco impongono proprio questo: una riflessione spassionata sul ruolo degli Stati Uniti in un mondo unipolare, sui rapporti fra Stati Uniti ed Europa e sui possibili modi (inclusa la guerra) per sconfiggere il terrorismo. Gli spunti più fecondi per questa riflessione non vengono dall’Europa. Salvo qualche rara eccezione, nei nostri Paesi il dibattito sulle relazioni internazionali oscilla ancora fra l’estremismo della passione e quello opposto della realpolitik. Gli spunti interessanti vengono piuttosto, quasi paradossalmente, dalla stessa America. Nella consapevolezza del proprio ruolo e della propria responsablità, questo Paese si interroga costantemente su come stare al mondo.
Un bellissimo libro, appena apparso nella prestigiosa collana dei Cornell Studies in Security Affairs, fornisce le coordinate per orientarsi in questa articolata riflessione d’Oltreoceano.
Si tratta di una raccolta di saggi curata da John Ikenberry, docente di geopolitica all’Università di Georgetown. Il tema è proprio quello da cui siamo partiti: come si deve comportare una ‘Superpotenza’ senza rivali? E, prima ancora, può davvero sopravvivere nel tempo, stabilmente, un ordine ‘unipolare’?
Secondo molti osservatori (Kenneth Waltz in questo libro, ma anche Chalmers Johnson o Michael Ignatieff) gli Stati Uniti hanno oggi accumulato troppo potere. La caduta dell’Impero Sovietico, il declino delle ideologie ‘diverse’ dalla liberal-democrazia e la robustezza economica statunitense (al di là dei ‘cicli’), hanno creato una forte asimmetria negli equilibri mondiali: una situazione instabile, che non può durare a lungo. Come tutti gli altri Imperi della Storia (da Carlo V a Hitler, per limitarci all’epoca moderna) anche l’egemonia americana è destinata a provocare una reazione di ‘contro-bilanciamento’, ossia il formarsi di una coalizione fra le altre grandi potenze per rettificare l’asimmetria. Questa previsione della ‘scuola neo-realista’ sembra trovare una conferma sin troppo precoce nel nuovo asse Francia - Germania – Russia che si è profilato proprio in questi giorni sulla questione irachena. A dispetto delle ambizioni di Bush, una seconda Guerra del Golfo potrebbe essere proprio l’occasione per un regolamento di conti fra grandi e per la ri-edizione di un qualche ‘concerto di potenze’ più bilanciato a favore di Europa, Russia, e Cina.
Quella dei neo-realisti è, insieme, una tesi positiva e prescrittiva: troppo Impero non ha fatto mai bene al mondo. Ma siamo sicuri che il contro-bilanciamento porti davvero dei benefici? Secondo altri osservatori, non è detto che sia così. In passato, è vero, la formazione di coalizioni anti-imperiali ha ristabilito ordine e sicurezza in contesti geopolitici fortemente destabilizzati dalle mire di leader troppo ambiziosi: pensiamo a Napoleone o al Kaiser Guglielmo II. Ma l’egemonia americana è qualcosa di diverso e originale rispetto a tutte le esperienze storiche di Impero. Come osservano Ikneberry, Owen e Risse, gli Stati Uniti sono la prima Superpotenza democratica della Storia: le decisioni prese da Washington sono il frutto di un processo politico aperto, imperniato su un sofisticato sistema di check and balances. Più importante ancora, queste decisioni si formano nel quadro di una densa struttura di organizzazioni internazionali multilaterali (ONU, NATO, Fondo Monetario e così via) che gli stessi Stati Uniti hanno contribuito a creare e rafforzare nel corso dell’ultimo cinquantennio. Quella americana è un’egemonia liberale: è condizionata (anche se non vincolata, in senso stretto) da procedure di consultazione, a volte di co-decisione, con i suoi partner principali.

Le tensioni fra l’Amministrazione Bush e l’Onu sono state per lo più lette negli ultimi mesi come indicatori di arroganza da parte americana. Ma se ci poniamo in un’ottica più ampia, queste stesse tensioni possono essere lette sotto tutt’altra luce. I condizionamenti liberali nell’ordine mondiale promosso proprio dagli Usa e il carattere democratico del processo politico interno a questo Paese hanno operato come potenti freni della logica imperiale, evitando quelle degenerazioni che nel passato hanno prodotto conseguenze negative per la stabilità e la pace e dunque provocato i ‘controbilanciamenti’ di potenza.
Occorre poi ricordare un elemento spesso irresponsabilmente trascurato dai dibattiti europei.
In un mondo senza governo globale (l’utopia kantiana appare ancora ben lungi dal potersi realizzare), l’egemonia di una Superpotenza produce importanti beni collettivi, soprattutto sul terreno della sicurezza. La pace tra Stati non si mantiene con le marce e gli appelli ai buoni sentimenti, ma è il prodotto della politica: che è arte del compromesso (la dimensione più nota), ma sempre praticata all’ombra della minaccia di coercizione (la dimensione spesso dimenticata, ma altrettanto essenziale della politica). Da decenni, gli Usa si sobbarcano i costi e la responsabilità (anche morale) di produrre quest’ombra. Qualcuno pensa davvero che un concerto fra la Force defrappe e gli sgangherati arsenali di Putin possa fornire al mondo quello sfondo di minaccia coercitiva senza il quale non si danno né sicurezza, né pace?
In questa fase storica, la presenza di una Superpotenza democratica che – pur perseguendo i suoi legittimi interessi – produce ordine nelle relazioni internazionali nel quadro di assetti multilaterali liberali è il meglio che possiamo avere. Certo, questa Superpotenza è attualmente retta da un’Amministrazione che parla e opera con uno stile sempre meno liberale – ossia rispettoso di procedure e prassi decisionali consolidate -. Nei libri qui segnalati, le voci critiche sono molto numerose e molto ferme. L’inquietudine e la stessa aggressività della classe dirigente americana vanno in parte collegate ai tragici eventi dell’11 settembre 2001 e al loro impatto sull’opinione pubblica. Ma la reazione appropriata alla nuova minaccia del terrorismo dovrebbe essere un rafforzamento dell’ordine liberale e della coalizione di nazioni che lo sostengono, non certo una loro rottura. Le conclusioni del libro di Ikenberry (scritte mesi orsono) sono illuminanti e, per certi versi, profetiche: “Gli Stati Uniti potrebbero decidere che la lotta al terrorismo in Irak è più importante che mantenere la coalizione. Essi potrebbero usare la forza in modo da frantumare gli alleati in gruppi distinti, ciascuno in cerca di accordi separati… Se dei terroristi riuscissero ad usare ordigni nucleari in Europa o in America, le conseguenze sarebbero catastrofiche. Le frontiere dei Paesi industrializzati verrebbero probabilmente sigillate. L’interdipendenza commerciale e finanziaria subirebbe un drastico ridimensionamento, minando le basi dell’attuale fase di globalizzazione. Che tipo di ordine politico potrebbe emergere da un simile disastro non è veramente dato di sapere”.
Auguriamoci che i consiglieri di Bush tengano ben presente questo scenario e si adoperino sul serio per evitarlo. Ma auguriamoci anche che l’Europa (e soprattutto Francia e Germania) non dimentichino né i propri limiti, né i propri interessi di sicurezza, in questa delicatissima fase di turbolenza globale.

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