Maria Elena GottarelliQualche tempo fa, una collega ci confidò di non volere figli, malgrado fosse felicemente sposata e, all'epoca, avesse un lavoro nel settore giornalistico (occupazione dalla quale, in seguito, si licenziò). Posto che dovrebbe essere chiaro a tutti che noi donne non siamo programmate per 'figliare per forza' e che abbiamo il diritto di realizzarci come meglio crediamo, le domandammo il perché di questa sua scelta. La sua risposta fu la seguente: "Non voglio che mio figlio nasca in un Paese privo di diritti e di giustizia sociale". Dopo una sentenza del genere, non potevamo esimerci dal voler approfondire i motivi che hanno condotto quella collega a ripiegare su tanto cinismo. E una possibilità di risposta si è affacciata alla nostra attenzione: il mondo del lavoro. Ma andiamo con ordine. Secondo un preciso luogo comune, che circola allegramente in un Paese 'farneticante', "i giovani d'oggi sono sfaticati, passano il loro tempo sui social e non hanno voglia di lavorare". Salvo rare eccezioni, non c'è nulla di più falso. Ve lo diciamo noi, invece, cosa è vero: a) è vero che giovani laureati volonterosi si trovano a lavorare dodici o tredici ore al giorno per meno di un euro e cinquanta all'ora, con contratti collaborazione Co.Co.Co. che altro non sono che la versione 2.0 dello sfruttamento legalizzato; b) è vero che, in molti casi, un contratto nemmeno esiste e si tira avanti nella vana speranza che, un bel giorno, il datore di lavoro si ricordi di regolarizzarli, magari offrendo loro uno stipendio dignitoso e una parvenza di futuro; c) è vero che molti dipendenti non dichiarano di essere sfruttati per paura di ricevere il benservito dal capo: un paradosso spaventoso, che ricorda una delle varie forme di omertà delle nostre mafie. Ci siamo informati anche con giovani colleghi sulla loro situazione contrattuale e di ritrovarci davanti a volti 'paonazzi', espressioni imbarazzate, risposte evasive. Solo dopo settimane, una volta acquisita la loro fiducia, ci hanno confidato, sottovoce e quasi con vergogna, di non aver ancora visto l'ombra di un contratto dopo diversi mesi, in certi casi anni, di duro lavoro; d) è vero che genitori e nonni hanno fatto sacrifici per mandare figli e nipoti all'Università, ma le lauree ottenute hanno spesso, come unica funzione, quella di decorare i muri dei loro uffici; e) è vero che la meritocrazia non solo non esiste, ma ha finito col diventare un concetto obsoleto, quasi ridicolo agli occhi di tanti datori di lavoro, desiderosi solamente di capitalizzare. Al dipendente viene detto, senza giri di parole, che non conta la qualità del suo lavoro, ma la quantità di guadagno che sarà in grado di apportare all'azienda, in un gioco al ribasso per cui gli obiettivi aziendali coincidono sempre meno - financo a divergere - con la professionalità e l'autorealizzazione del singolo, declassato a mero ingranaggio facilmente sostituibile, strozzato in un sistema mortale che lo vuole sempre più veloce, sempre più produttivo, sempre più facilmente spendibile; f) è vero che chi si azzarda a chiedere gli straordinari per le decine di ore 'extra' trascorse in postazione viene fatto sentire in difetto, secondo la logica perversa per cui reclamare i propri diritti è da 'scansafatiche' o da viziati. "Ringraziate di avere un lavoro, piuttosto". Traduzione: "Ringraziate di buttare il sangue per stipendi da miserabili e nessuna garanzia..."; g) è vero che, se sei donna, in Italia hai due possibilità: se non sei di bell'aspetto, farsi notare professionalmente è un'impresa assai ardua, rispetto ai colleghi di sesso maschile. Se, invece, per tua 'disgrazia' hai un bel 'visino', ti noteranno principalmente per quello, dovrai sopportare battute fuori luogo, sguardi viscidi, 'messaggini' serali a metà fra la richiesta lavorativa e l'avance (quando va bene...). L'unica - magra - consolazione sarà che i mittenti di tali attenzioni non si accorgeranno del disgusto celato dietro ogni sorriso di circostanza. Sia come sia, ripensando alla frase lapidaria della collega trentacinquenne, ci siamo anche chiesti, alla fine, se in fin dei conti non avesse ragione lei: "Che senso ha mettere al mondo dei figli in una società che sembra volgere drammaticamente al peggio"? E invece no: sono proprio coloro che ci hanno rubato il futuro a capitalizzare sul nostro pessimismo. Pertanto, si può reagire in un solo modo: restando ottimisti, continuando a far figli e a promettere loro gli 'Eldoradi' che noi abbiamo perduto. Perché oggi, il più grande atto di coraggio è proprio questo: rimanere ottimisti.


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