Se ogni singolo Stato membro potenziasse le proprie politiche di sviluppo finalizzandole a una produzione e a un consumo di energia più efficiente, l’intera Unione europea riuscirebbe a porre sotto controllo le emissioni di CO2, conseguendo pienamente gli obiettivi prefissati dal protocollo di Kyoto. Per riuscire a realizzare tali intendimenti, l’Ue sta da tempo promuovendo lo sviluppo di tecnologie, prodotti e servizi a basso consumo per quei settori che meglio si prestano al risparmio energetico, ad iniziare dagli edifici e dai loro impianti di riscaldamento, che rappresentano il 40% dell’intero fabbisogno europeo. Il loro consumo, infatti, potrebbe essere ridotto di oltre un terzo se solo venisse verificata la necessità di progettare e di dotare i nostri stabili di residenza e di lavoro di nuovi sistemi di illuminazione, di riscaldamento e di condizionamento. Sul fronte dei trasporti stradali (26% del fabbisogno energetico Ue), entro il 2012 le emissioni prodotte dalle automobili dovranno essere limitate a 120g di CO2/km e verrà finalmente promossa la vendita di vetture meno inquinanti attraverso la fornitura di informazioni più trasparenti sulla loro produzione. Anche il settore industriale è nell’occhio del ‘ciclone’ (25% del fabbisogno energetico Ue): sulla base dei più recenti studi dovranno essere applicati nuovi e più avanzati standard di progettazione ecocompatibile per la produzione di ‘boiler’, televisori e prodotti per l’illuminazione, al fine di migliorarne il rendimento. A ciò è inoltre legata la questione dell’etichettatura delle merci in quanto sistema di promozione dei cosiddetti ‘acquisti ecologici’, un marchio di qualità finalizzato a garantire al consumatore quali sono i prodotti che rispettano l’ambiente e che risultano maggiormente efficienti dal punto di vista del consumo energetico. Queste iniziative derivano tutte da un noto rapporto della Commissione europea risalente al marzo del 2006: il cosiddetto ‘Libro Verde’ del risparmio e dell’efficienza energetica. Alla luce di quell’analisi, infatti, è stata decisa l’adozione urgente di un ‘piano di azione’ per l’efficienza energetica che tenesse conto della possibilità di conseguire, entro il 2020, risparmi di energia superiori al 20%. Gli investimenti necessari per acquisire tecnologie più avanzate e sostituire quelle obsolete risultano, in effetti, più che compensati da un risparmio di combustibili superiore ai 100 miliardi di euro annui. A ciò si aggiungano i netti miglioramenti di ‘intensità’ energetica derivanti dai previsti mutamenti strutturali, dai cambiamenti che si produrranno autonomamente grazie al ricambio fisiologico delle tecnologie e dalle possibili variazioni di prezzo dell’energia. Alla luce di un simile scenario, una delle priorità di ogni politica per l’energia è dunque rappresentata dall’esigenza di una maggior promozione della sua efficienza, nonché da una sensibilizzazione più incisiva dell’opinione pubblica nei confronti di una tematica che possiede un’importanza ‘civica’ tutt’altro che secondaria. Attraverso un serio obiettivo di risparmio, l’intera Unione europea può trarre importanti benefici sia in termini di indipendenza economica, sia sotto il profilo della tutela ambientale e dello stimolo all’innovazione, riducendo almeno in parte la propria dipendenza dai Paesi esportatori di fonti energetiche primarie - caratterizzate da una forte instabilità di prezzo - nonché diminuendo considerevolmente quei fattori di rischio che possono derivare da ogni eventuale ‘mancato approvvigionamento’. Tali obiettivi consentirebbero, infine, di migliorare l’impatto ambientale di tutte le attività umane senza diminuire gli standard di vita dei singoli cittadini. Sin dalla prima crisi petrolifera degli anni 1969 – 1976 sono state predisposte, in diversi Paesi europei, alcune programmazioni finalizzate alla gestione della domanda di energia e per l’incremento della sua efficienza. Questi studi si sono tutti ritrovati concordi sulla convenienza economica di questo genere di operazione. Nel Regno Unito, il National Audit Office è giunto alla conclusione che i programmi di efficienza energetica realizzati dai distributori di energia elettrica tra il 1994 e il 1998 abbiano comportato costi dell’energia risparmiata pari a 2,8 Ecent/kWh, ovvero ben al di sotto dei prezzi dell’elettricità di quel periodo (11,2 Ecent/kWh al picco, 4,2 Ecent/kWh fuori dal picco). In seguito, un altro studio, condotto per il Direttorato Generale Energia e Trasporti della Commissione Europea (BEST - Bringing Energy Services to the Liberalised Markets) ha selezionato i migliori esempi di programmi e di servizi realizzati dalle aziende energetiche negli Stati membri dell’Ue negli ultimi anni. Ed ha scoperto che, estendendo la realizzazione di tali pianificazioni a tutti quegli Stati che solo di recente sono entrati a far parte dell’Unione europea - e che in larga parte detengono un patrimonio tecnologico da riorganizzare, rigenerare o sostituire - si potrebbe ottenere un risparmio complessivo del 10% dei consumi di elettricità e di gas rispetto alle stime previste. Questo risparmio può generare, a sua volta, un beneficio economico superiore ai 10 miliardi di euro all’anno.
LE POLITICHE DI RISPARMIO ENERGETICO DELL’UNIONE EUROPEA
Tra gli atti di politica di risparmio energetico adottati di recente dalla Commissione europea dobbiamo innanzitutto sottolineare: 1) la Direttiva n. 91 del 2002 sul rendimento nell’edilizia; 2) la Direttiva n. 32 del 2005 relativa all’istituzione di un ‘quadro’ per l’elaborazione e la progettazione ecocompatibile dei prodotti che consumano energia; 3) la Direttiva n. 32 del 2006 concernente l’efficienza degli usi finali dell’energia e dei servizi energetici; 4) il Piano d’azione per l’efficienza energetica (Action Plan for Energy Efficiency). Questi provvedimenti poggiano tutti su analisi econometriche che giungono a quantificare, con estrema attendibilità, l’enorme potenziale di risparmio per l’intera Unione europea. Oltre a ciò, viene delineato uno scenario in grado di garantire riduzioni considerevoli delle emissioni di gas a ‘effetto - serra’, una prospettiva basata sul presupposto che i responsabili politici dei singoli Stati membri siano meglio informati sulle misure da adottare e cambino il proprio atteggiamento nei confronti delle più innovative tecnologie di efficienza energetica attualmente disponibili.
LA SITUAZIONE IN ITALIA
Nel nostro Paese, il meccanismo di finanziamento delle attività per la promozione dell’efficienza energetica è connesso ai Decreti del ministero delle Attività produttive del 20 luglio 2004. L’aumento dei costi delle risorse fossili e la nostra eccessiva dipendenza dall’importazione di materie prime hanno infatti rilanciato tutte le prospettive a breve e a medio termine per l’implementazione di programmi di efficienza energetica su larga scala. Tra i molteplici vantaggi di tali misure è necessario ricordare: 1) un sensibile contenimento della nostra bolletta energetica nazionale; 2) una ‘discreta’ riduzione del nostro fabbisogno energetico dall’estero; 3) uno spostamento ‘strategico’ di molte risorse economiche su beni e servizi a più alta intensità occupazionale; 4) un sostanziale aumento della nostra efficienza economica dovuto all’abbattimento dei costi di produzione e alla specializzazione in settori ad alto valore aggiunto; 5) una significativa riduzione delle emissioni di inquinanti locali e di ‘gas serra’; 6) un’innovativa compatibilità con qualsiasi fonte energetica, in particolare con l’aumento dell’utilizzo di fonti rinnovabili nella ‘filiera’ energetica.
LA QUESTIONE DELLE ETICHETTE DI GARANZIA
Tuttavia, in Italia sussistono alcuni gravi problemi che derivano da una sostanziale mancanza di informazione sulle tecnologie energetiche più efficienti. Si tratta di una ‘barriera’ molto importante, una vera e propria ‘testa di turco’ che ostacola la diffusione di parecchie innovazioni. Il sistema maggiormente utilizzato per aggirare questa barriera è rappresentato dall’etichettatura delle apparecchiature, dei componenti edili e degli edifici. La semplicità e l’immediatezza di questo strumento ha indubbiamente permesso di fornire un’informazione diretta ai cittadini, aiutando notevolmente il lavoro dei rivenditori. Nel settore della produzione di nuovi elettrodomestici, sin dal 1997 – anno in cui è iniziato il recepimento delle direttive europee in materia di etichettatura energetica degli elettrodomestici - essa è stata applicata progressivamente a tutte quelle apparecchiature che costituiscono la maggior parte dei nostri consumi in ambito domestico. Insomma, l’etichetta si è rivelata uno strumento importante per formare ed informare il pubblico in relazione ai consumi energetici che derivano dall’utilizzo di un prodotto qualsiasi. Ed ha introdotto un nuovo argomento ‘pro-ambientale’ nella valutazione di ogni acquisto. Purtuttavia, nel nostro Paese queste etichette di efficienza energetica soffrono di alcuni grossi limiti: a) esse diventano obsolete nel tempo, poiché man mano che il pubblico acquista prodotti più moderni e avanzati, l’offerta di prodotti energeticamente efficienti sul mercato aumenta, mentre quella dei prodotti inefficienti diminuisce. Di conseguenza, la curva dell’offerta si aggrega nelle classi di efficienza più alta (ad esempio le classi ‘A’ e ‘B’ per i frigoriferi) e l’etichetta perde il proprio potere ‘discriminatorio’; b) risulta necessario aggiornarle periodicamente, al fine di tener conto dell’evoluzione del mercato. Per esempio, l’etichetta energetica per i congelatori e i frigoriferi è stata di recente modificata con l’introduzione di due nuove classi di efficienza (A+ ed A++) semplicemente al fine di informare i consumatori che i frigoriferi attualmente sul mercato sono migliori rispetto ai modelli di 10 anni fa. Ma questo processo di aggiornamento non è affatto automatico, anzi: il più delle volte avviene con notevole ritardo rispetto alle evoluzioni del mercato, generando un periodo relativamente lungo in cui nessuno è più in grado di garantire ai consumatori quali siano i modelli effettivamente più efficienti in circolazione; c) un’etichetta energetica europea è ormai associata a tutte le maggiori categorie di elettrodomestici: frigoriferi, congelatori, lavabiancheria, lavastoviglie, climatizzatori, lampade. Tuttavia, nell’attuale schema di etichettatura mancano i piccoli elettrodomestici (i robot e i tostapane), i prodotti ‘bruni’ (gli hi - fi, le televisioni, i videoregistratori e i lettori DVD) e quasi tutti i prodotti informatici (computer, stampanti e così via); d) qualche Paese membro dell’Unione europea ha già predisposto un proprio programma di etichettatura per coprire una parte delle categorie mancanti. E la stessa Commissione Europea ha promosso l’utilizzo volontario dell’etichetta ‘Energy Star’ per i prodotti informatici; e) in Italia, l’informazione fornita dai media nei riguardi di questa e altre questioni è particolarmente assente; f) infine, vi sono alcuni forti limiti di applicazione: se anche le disposizioni di legge per l’esposizione dell’etichetta energetica sui prodotti nei punti vendita si dimostrano assai precise, risulta ancora troppo facile ritrovarsi in situazioni nelle quali essa manca in parte o del tutto, non esistendo sanzioni specifiche. Ovviamente, nel caso in cui l’etichetta di un prodotto risulti mancante, diviene impossibile per il consumatore effettuare un scelta basata su un’efficienza energetica ‘credibile’. Ma anche supponendo che l’etichetta venga sempre applicata secondo i termini di legge, rimane difficile ottenere una visione completa della gamma di prodotti realmente efficienti sul mercato. E il consumatore si ritrova costretto ad intraprendere una laboriosa ricerca fra i diversi cataloghi dei produttori o ad affidarsi alle raccomandazioni dei rivenditori. Risulta pur vero che sono in corso tentativi per sviluppare dei ‘database’ accessibili su internet (per esempio il progetto europeo Topten), al fine di permettere agli utenti di individuare il modello più rispondente a tali esigenze. Ma, allo stato, la diffusione e l’utilizzo di questi ‘database’, in Italia risulta un fattore ancora del tutto marginale.
LA REGOLAMENTAZIONE ENERGETICA NEL SETTORE EDILIZIO
Per quanto concerne il rendimento energetico nell’edilizia, la Direttiva europea n. 91 del 2002 ha introdotto l’obbligo, a partire dal 1° gennaio 2006, di predisporre un certificato energetico per ogni abitazione al momento della sua vendita o locazione. Poiché gli edifici influiscono sul consumo energetico a lungo termine, tutti quelli di nuova costruzione devono essere assoggettati a prescrizioni minime di rendimento energetico, stabilite in funzione alle locali condizioni climatiche. Nell’estate 2005 è stato perciò approvato il Decreto legislativo n. 192 nell’ambito di recepimento di questa Direttiva n. 91/2002. E, più recentemente, il Consiglio dei Ministri ha predisposto un nuovo schema di Decreto recante alcune “Disposizioni correttive e integrative” del Decreto stesso. Tutto ciò costituisce, indubbiamente, un passo importante verso l’introduzione di nuove norme, vincolanti in materia, circa le caratteristiche degli ‘involucri edilizi’ atte a garantire un miglior comfort con un più basso consumo. Tuttavia, altri significativi passi restano da fare, poiché molte indicazioni sono ancora considerabili delle mere ‘raccomandazioni qualitative’. In particolar modo, a proposito dei consumi per il condizionamento, la Direttiva europea ha invitato all’azione soprattutto gli Stati membri dell’area mediterranea poiché, negli ultimi anni, si è osservata la crescente proliferazione degli impianti di condizionamento proprio nei Paesi del sud Europa. Ciò ha comportato ulteriori aumenti del costo dell’energia elettrica e uno squilibrio dei bilanci energetici di Italia, Spagna e Grecia. Deve perciò essere accordata una più elevata priorità a tutte le strategie che possono contribuire a migliorare il rendimento termico degli edifici nel periodo estivo, sviluppando maggiormente quelle tecniche di ‘raffreddamento passivo’ che ottimizzano sia le condizioni climatiche interne agli edifici stessi, sia il ‘microclima’ intorno ad essi.
IL DIFFICILE RISPARMIO NEL SETTORE DELL’EDILIZIA PUBBLICA
Nella Direttiva europea n. 32 del 2006, concernente l’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi energetici, l’articolo 5 recita: “Gli Stati membri assicurano che il settore pubblico svolga un ruolo esemplare nel contesto della presente direttiva”. Ma gli investimenti finalizzati ad un miglioramento dell’efficienza energetica delle strutture degli enti pubblici vengono erogati in funzione dell’importanza che il management dà ai problemi ambientali, i quali, purtroppo, sono spesso considerati di scarso rilievo rispetto all’interesse riservato ad altre esigenze funzionali dagli enti stessi: il tema dell’efficienza energetica, in sostanza, viene tendenzialmente giudicato una mera questione ‘ambientale’ e non una risorsa economica.
CONCLUSIONI MACROECONOMICHE
Quando una tecnologia si espande, passando da una produzione di ‘nicchia’ ad una diffusione di ‘massa’, i suoi costi si riducono grazie a specifiche ‘economie di scala’ di produzione, distribuzione e apprendimento tecnologico. Nel Regno Unito, ad esempio, i costi totali per l’implementazione di molte tecnologie energeticamente più efficienti hanno subito riduzioni tra il 30% e il 50% tra il 1996 e il 2001. Tali ‘abbattimenti’ sono poi proseguiti anche negli anni successivi, a dimostrazione che l’efficienza energetica rappresenta un beneficio per tutti gli utenti, con effetti diretti sull’economia complessiva di ogni ‘sistema – Paese’. Per dare un’idea della dimensione dei mercati delle tecnologie efficienti destinati ad aprirsi, basti pensare che, nell’arco dei prossimi 15 anni, verranno installati 20 milioni di nuovi frigocongelatori, 8 milioni di nuovi congelatori, 23 milioni di nuove lavatrici, 40 milioni di nuovi motori elettrici più efficienti e 130 milioni di nuove lampade fluorescenti. Un forte dispiegamento di investimenti a supporto dell’efficienza energetica sarebbe dunque in grado di produrre nuovi posti di lavoro o, in alternativa, di conservarne altri destinati a scomparire. Analizzando nel dettaglio l’estensione dei programmi di efficienza energetica, si può infatti arrivare a proporre la ragionevole ipotesi di un intervallo tra gli 8 e i 14 nuovi posti di lavoro all’anno per ciascun milione di euro di investimento effettuato. Di conseguenza, dando cioè per buona una simile funzione di ‘intensità/lavoro’, il dispiegamento in Italia tra il 2007 e 2020 di tutto il potenziale di risparmio economicamente conveniente, che comporta un investimento complessivo di circa 80 miliardi di euro per una media di 5,4 miliardi di euro all’anno, può produrre un’occupazione potenziale ‘inseribile’ nell’intervallo tra le 640 mila e il milione di unità all’anno.
(articolo tratto dal numero 1 del periodico bimestrale 'SE', febbraio 2009)