No, non è il titolo di una
fiction famosa. Questa è la realtà. Da più di
settant’anni a questa parte, non sembra placarsi l’eterno conflitto tra
Israele e
Palestina. E’ un problema di comunicazione, in fondo. Sembra di assistere all’ultima scena de
‘La dolce vita’ di
Federico Fellini, in cui un’ingenua
Valeria Ciangottini grida qualcosa a un perplesso e stordito
Marcello Mastroianni, così vicino a lei, ma al contempo
lontano chilometri, nell’impossibilità di capirla a causa del fragore del vento e del mare in tempesta. Allo stesso modo, se si comprendesse che
israeliani e
palestinesi domandano la
stessa cosa, ossia un
reciproco riconoscimento della propria
identità nazionale, forse si troverebbe un punto di incontro.
“E se la rosa non avesse il nome che ha, non conserverebbe, nonostante ciò, la sua profonda identità?”, parafrasando il noto
interrogativo ‘shakespeariano’. Eppure, le parole sono fondamentali. Ed è
sulla parola che si dovrebbe risolvere un conflitto. Se s’imparasse a maneggiare le parole con maggior accuratezza di quanto non si faccia con le
armi, si eviterebbe, probabilmente, di ricorrere a quest’ultime. E’ impressionante constatare che del conflitto che attraversa le terre di
Israele e
Palestina dal
1948 a oggi, passando per qualche
gesto distensivo proveniente da ambedue le parti, se ne siano avvantaggiati terzi soggetti.
L’Iran, principalmente, in combutta con la
Russia di
Putin e con il vantaggio di un indebolimento dello
Stato di Israele voluto dal
Governo di Netanyahu, di
estrema destra, filorusso e
largamente impopolare tra la sua gente; per non parlare delle organizzazioni terroristiche come
Hamas, che nulla hanno a che vedere con le profonde
radici storiche, politiche e
umane del
popolo palestinese. Purtroppo, a fare le spese di questa devastazione è, come sempre, la
popolazione civile, i
giovani e i
bambini: è la
collettività, ancora una volta, il
‘volano’ attraverso cui erigere un’efficace
difesa dei valori umani in pericolo. E’ il
popolo israeliano, in particolare quello impegnato, in questi giorni fatali, a protestare contro la
riforma giudiziaria in corso, che abbandona le proprie quotidiane
battaglie, individuali e collettive, per
soccorrersi a vicenda, sostenere gli anziani, i
deboli, i
fragili, i
propri simili. E’ attraverso questo movimento, più o meno silenzioso, di mani che si incontrano e che s’intrecciano, di braccia che si protendono verso altre esistenze, che si potrebbe ripristinare quel
linguaggio salvifico che sconfigge la
morte e ogni forma di
orrore, per riaffermare tutta la potenza del suo nome universale, che nessuna guerra potrà mai abbattere:
l’umanità.