Marco Taradash

Non c’è dubbio che il Pdl ha le sue buone ragioni politiche per concordare con il Pd la sostituzione di Villari con Zavoli. La commissione è consociativa per la sua natura regolamentare. Le principali nomine della Rai passano attraverso il suo vaglio e richiedono una maggioranza qualificata. E anche il varo delle tribune elettorali è difficile se la guerriglia fra maggioranza e opposizione diventa la norma. Scaraventare il neopresidente Villari in una bella discarica partenopea è una tentazione comprensibile. Tuttavia, l’obiezione di chi ritiene che la fantasia politica debba avere un limite, e bloccarsi sulla frontiera delle istituzioni, non dovrebbe essere sottovalutata per due ragioni. La prima sta nell’obiezione stessa. Si voglia o no, ora Villari “è” l’istituzione, e la richiesta di dimissioni “è”, si voglia o no, un attacco partitocratrico. La sua elezione è avvenuta nel rispetto delle regole parlamentari, dopo che il Pdl aveva a torto o a ragione (ed io penso a ragione) deciso di rompere la consuetudine che da dodici anni a questa parte affidava all’opposizione la designazione del presidente. Il Pdl l’ha fatto con moderazione, senza promuovere uno dei suoi, e per un motivo trasparente: la testardaggine di voler imporre un nome giudicato inaccettabile faceva sì che la commissione rischiasse di non essere mai costituita. Qualcosa del genere era accaduto poche settimane fa con Pecorella, che aveva dovuto ingoiare il veto sulla sua candidatura alla Corte Costituzionale e il Pdl non aveva fatto tante storie (l’esempio Fumagalli Carulli, spesso citato, invece non corrisponde a verità: nel 1996 furono Fi e An a bocciare la candidata dell’alleato Ccd, tanto che la spaccatura nell’opposizione fece rinviare il voto nella Vigilanza a dopo le vacanze, e i partiti di Casini e Buttiglione non vi parteciparono). Fino a quando le regole non cambieranno, alla maggioranza è dunque possibile dire di no: l’opposizione può irritarsi, ma evocare il regime o altro è soltanto segno di infantile estremismo verbale. Poiché dentro le istituzioni è l’abito che fa il monaco, sarebbe bene che il Pd la smettesse con le proteste, accettasse l’esito delle votazioni, mettesse fine alla canea contro Villari e imparasse dagli errori. Hanno voluto ‘tirare la corda’, questa si è spezzata e la ‘campana’ gli è ruzzolata in testa. Sono rimasti un po’ rintronati, si capisce, ma ora, per favore, consentano alle istituzioni di funzionare.
L’altra ragione per cui oggi il Pdl farebbe bene a non riaprire la questione è tutta politica. Villari, fino alla scorsa settimana autorevole esponente Pd, è tornato, nella langue de bois della sinistra, ad essere un “ex martelliano”, proprio come Ottaviano Del Turco dopo l’arresto si è trasformato da prestigioso governatore Pd dell’Abruzzo in un “ex socialista”. L’immagine di Villari ha subito una devastante aggressione nel Palazzo come sui media, e sarebbe sgradevole che il Pdl contribuisse a completare il servizio. Tanto più dopo la risposta che Walter Weltroni ha dato a Galli Della Loggia sul Corriere della Sera. Allarmato dal sistematico schierarsi del Pd con la piazza, i movimenti, i gruppi corporativi, il sindacato antagonista, l’editorialista del Corriere si chiedeva se il Pd, che pur si vuole moderno e riformista, non fosse ancora prigioniero della visione manichea di matrice comunista che spacca in due la realtà fra la parte del bene e quella del male.
Lo sventurato cosa rispose? Nulla sulle contestazioni specifiche, in primo luogo. Poi, molta storiografia ad uso interno e, infine, la frase clou: “Il Pd scommette sulle risorse morali, prima ancora che materiali, della società aperta, di un mercato regolato, della democrazia liberale. Dall’altra parte si scommette invece sulla concentrazione del potere, sulla cultura della delega, sul primato della forza sulla ragione”. Mai visto un autogol del genere. Non faceva prima a rispondere: “Sì, caro Galli, siamo rimasti proprio gli stessi”? Il ‘kennediano’ Veltroni, ci ha ricordato Andrea Romano nel suo ‘Compagni di scuola’, negli anni ‘90 diceva di non esser mai stato comunista, ma ancora nel ‘77-78 attaccava il ‘kennedismo’ come un’illusione collettiva, criticava i critici del marxismo, guardava al Mao del ‘libretto rosso’ come a un modello di socialismo realizzato, in grado di promuovere la partecipazione delle masse, diversamente da quello sovietico. Niente di male, figuriamoci. Ci si può scoprire giovani anche a 70 anni e liberali nel terzo millennio. Ma allora si deve smettere di dire e di credere di incarnare la “morale” contro gli avversari che, invece, dispiegano la forza bruta. Altro che Obama (e il suo abbraccio politico con McCain)! Qui semmai siamo a Di Pietro. Che però, almeno non ci fa la morale e per Berlusconi chiede al massimo una condanna penale.




(articolo tratto dal quotidiano 'L'opinione delle Libertà' del 20 novembre 2008)
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