Daniela Binello

La parola federalismo in Iraq è un tabù perchè federalismo significa autonomia regionale e fin qui, con tanta santa pazienza, ci si potrebbe anche mettere d’accordo, fra curdi, sunniti e sciiti, per la spartizione delle parti migliori del paese e quelle più neglette (o presunte svantaggiate), fra chi si piglia Kirkuk (i curdi o i turcomanni?) e chi niente, ma il bandolo della matassa è un altro, e cioè: a quale livello si giocherebbe la proprietà pubblica sulle risorse energetiche irachene? Diciamolo in un altro modo. Rispetto al governo centrale, il quale agisce, almeno teoricamente, a favore dell’interesse collettivo, con quale autonomia decisionale, se l’Iraq venisse subpartito nelle famose tre autonomie federaliste, le autorità regionali potrebbero fare come gli pare? La discussione sulla divisione delle risorse, su cui ci si sta accapigliando a Baghdad e non solo, è infatti legata alla volontà presente nel paese di approfondire, o meno, l’ipotizzata soluzione salvifica del federalismo per l’Iraq, ravvisata da alcuni per uscire dall’impasse della guerra civile (in sè per sè, tuttavia, il federalismo è di solito considerato piuttosto come la soluzione migliore per regolare il rapporto con i governi centrali). Le regioni che diventerebbero amministrativamente autonome inevitabilmente tendono a sottolineare le differenze economiche, etnico-religiose, demografiche e quant’altro, che esistono fra loro, e in tutto questo c’è chi di fatto potrebbe largamente avvantaggiarsene a scapito delle altre. Se ciò avvenisse sarebbe grave, perchè nel lungo periodo le cose potrebbero incancrenirsi e far emergere una volta di più le smanie indipendentiste che finora sono state messe a tacere sul nascere. E allora, anche l’Iraq, andrebbe a fare pariglia con i fattori negativi che immobilizzano lo sviluppo economico e l’effettiva autonomia, ad esempio, delle repubbliche e delle regioni caucasiche. Ma la Costituzione irachena del 2005, sul livello gestionale delle risorse energetiche, cosa dice? Non dimentichiamo, fra l’altro, che non sono solo gli iracheni interessati alle loro risorse energetiche, ma anche tanti altri paesi vicini, che affonderebbero molto volentieri il loro cucchiaio nella vaschetta del tiramisù al petrolio di cui sono maestri pasticcieri gli iracheni. Un po’ di grandezze, noiose, ma necessarie. Il petrolio in Iraq rappresenta il 90 per cento degli introiti del paese, con le sue riserve stimate ad oggi in 115 miliardi di barili di petrolio (poco meno del 10 per cento della disponibilità del pianeta). L’Iraq è il terzo paese al mondo per quanto concerne le sue riserve petrolifere, senza contare le zone in cui è possibile trovare altri giacimenti (ma che non sono mai ancora state trivellate). Le grandi compagnie multinazionali, estromesse dalla nazionalizzazione del 1972, correrebbero come delle locuste nel deserto, se solo gli fosse dato il là, per andare a perforare, ad esempio, il deserto occidentale iracheno. Di chi stiamo parlando? Ma della Total (francese) che punta a Majnoon e Bin Umar, della Shell a Ratawi o della Repsol (spagnola) a Nassiriyah. A proposito di sud Iraq, Bassora e dintorni: ma lì non c’era già l’Eni (qualcuno si domanderà)? Ma di Eni, misteriosamente, non si parla più. Il ministro iracheno per il petrolio, Hussein Shahristani, ha dichiarato che il governo si è posto l’obiettivo di aumentare nei prossimi cinque anni la produzione annuale da 2,5 milioni a 4-4,5 milioni di barili al giorno, tuttavia il ministro non si è espresso sul come farlo, dato che occorrono ingenti finanziamenti (che, paradossalmente, nonostante tutto il petrolio che possiede, l’Iraq non può permettersi) per adeguare e potenziare gli impianti e allineare così l’industria petrolifera irachena al livello degli altri paesi produttori. Ecco, allora, che tornano a danzare attorno alla vaschetta prelibata (del tiramisù) le multinazionali del settore degli idrocarburi, le quali offrono la loro expertise e la loro essenziale tecnologia. Sembra che gli accordi che hanno maggiore possibilità di tagliare il nastro, e su cui sono già avviati i negoziati, siano quelli del modello PSA (Production Sharing Agreement). I PSA sono contratti a lunga scadenza, onde evitare il rischio politico di un aumento delle tasse (che devono essere versate dalla compagnia petrolifera straniera sui profitti) e delle royalties (erogazione di quote fisse proporzionali alla quantità di greggio estratto). In questo modello - in cui lo Stato può ricoprire un ruolo maggiore agendo in joint venture (con determinate modalità) e partecipando come le altre compagnie petrolifere anche ai costi per gli investimenti iniziali - alle multinazionali estere sarebbe concesso ampio spazio, e di conseguenza esse potrebbero gestire dozzine di giacimenti e fatturare profitti per centinaia di miliardi di dollari nei prossimi decenni (cioè, per tutta la durata di questi lunghi accordi). In particolare, le multinazionali otterrebbero il 75 per cento delle entrate al fine di recuperare i loro investimenti per indagini geologiche, perforazioni, pozzi, infrastrutture, pipeline, raffinerie, per poi, una volta recuperato il cosiddetto Cost Oil (investimento per trovare il greggio), ricavare pur sempre un buon guadagno (Profit Oil), mai inferiore comunque al 20 per cento degli introiti. Una percentuale di ricavi così elevata, sebbene stabilita da un contratto, cozza però con i presupposti della nazionalizzazione delle industrie irachene e rappresenta, perciò, un’anomalia (a meno che l’Iraq diventi liberista spinto e cambi le sue leggi). E’ anche vero, però, che la Costituzione irachena del 2005 (approvata con il referendum dell’ottobre dello stesso anno) prevede grandi cambiamenti per la gestione delle fonti energetiche. Ricordiamo che alla stesura del documento contribuirono alcuni giuristi statunitensi, molti dei quali dichiaratamente liberisti (ma anche liberali). Ma in caso di assetto federalista, le macroregioni, con il decentramento amministrativo per province ed enti locali, potrebbero avere comportamenti diseguali, a seconda dell’economia di mercato nelle loro rispettive realtà. L’articolo 110 della Costituzione irachena afferma che il petrolio e il gas, presenti in tutte le regioni e province del paese, appartengono al popolo iracheno nel suo complesso. Nell’articolo seguente si fissa che sarà il governo federalista ad amministrare le risorse dell’area (sono specificati petrolio e gas) “sfruttati in cooperazione con i governi delle regioni e province produttrici a condizione che i profitti vengano distribuiti equamente e in modo compatibile con la distribuzione geografica del paese”. E’ stato stabilito, inoltre, che il governo federale e le amministrazioni di regioni e province dovranno definire congiuntamente politiche per lo sviluppo del patrimonio petrolifero e gassoso, utilizzando “le più moderne tecniche dei principi di mercato ed incoraggiando gli investimenti”. Infine, l’articolo 117 (2nd) precisa che l’autorità regionale ha la facoltà di emendare una legge federale nel caso in cui questa sia in contrasto con una legge regionale, in materie che non sono di pertinenza esclusiva dell’autorità federale e, in base all’articolo 111, dove non vi siano espliciti riferimenti al potere esclusivo dell’autorità federale, le iniziative del governo regionale avranno la priorità. Ecco, dunque, come si chiariscono alcuni passaggi. Ad esempio, il fatto che i curdi della regione autonoma (il Kurdistan iracheno lo è amministrativamente già dal 1992), da sempre molto intraprendenti (bravi ragazzi organizzati), abbiano invitato un bouquet di compagnie petrolifere internazionali a effettuare sopralluoghi nella loro regione. La norvegese DNO (Det Norske Oljeselskap) ai primi del 2006, infatti, aveva già comunicato (un solo mese dopo aver iniziato i sopralluoghi!) di aver individuato dei giacimenti intorno a Zakho. Il Comitato per il Petrolio (Oil Committee), presieduto da Bahram Sahlil, è composto da rappresentanti nazionali e regionali. Lo scorso 16 gennaio ha approvato la bozza finale della legge sulla gestione dei giacimenti petroliferi, sotto esame di governo e parlamento. Questa proposta di legge stabilisce la creazione di un Consiglio federale guidato dal premier che avrà l’ultima parola sull’approvazione delle concessioni alle compagnie petrolifere straniere, senza, tuttavia, che il gestore unico dei profitti sia il governo centrale. Il Comitato avrebbe altresì il compito di bilanciare lo sviluppo dell’industria petrolifera su tutto il territorio nazionale, nonchè vigilare sulla distribuzione degli introiti derivanti dal petrolio attraverso un sistema volto a centralizzare le entrate, per poi suddividerle alle diverse regioni amministrativamente federaliste. Il problema è tutto, comunque, di natura politica: si tratta, cioè, di trovare un accordo tra i diversi gruppi nazionali che, in base ai loro interessi, si avviluppano in interpretazioni diverse della Costituzione e, di conseguenza, hanno finora proposto soluzioni in contrasto le une contro le altre e, per così dire, irricevibili. Cosa vorrebbero i sunniti? I sunniti vorrebbero una divisione delle entrate federali su base demografica, per aggirare il problema della carenza di idrocarburi nel loro sottosuolo. Per i curdi, al contrario, che hanno redatto una loro bozza di legge denominata Kurdistan Region Oil Draft Law, il Comitato per il Petrolio centrale dovrebbe avere esclusivamente una funzione d’indirizzo (per le politiche generali). Ashti A. Hawrami, ministro per le risorse naturali del governo regionale curdo, sostiene che, in base al dettato costituzionale, il governo federale avrebbe unicamente un ruolo amministrativo sulla gestione del petrolio. Circoscritto, cioè, alla regolazione delle esportazioni e del marketing del prodotto. Tutto il resto, secondo il ministro curdo, sarebbe di esclusiva pertinenza delle autorità regionali, che avrebbero il compito di supervisionare l’intero processo estrattivo. E gli sciiti? Si collocano in una posizione intermedia. Da un lato, chiedono che siano le regioni a negoziare i contratti di concessione, ma che questi poi debbano essere approvati dal Consiglio federale con una maggioranza di almeno due terzi. In pratica, i due gruppi che popolano le regioni irachene più promettenti dal punto di vista delle risorse del sottosuolo (curdi e sciiti) premono per avere una percentuale fissa sulle risorse che si potrebbe calcolare intorno al 50 per cento. Il resto sarebbe suddiviso dal governo centrale fra le altre regioni e i governatorati locali (o province). La legge sulla gestione dei giacimenti petroliferi è allora quanto mai necessaria per ordinare, in un quadro chiaro e legale, chi attrarrà gli investitori stranieri (ora bloccati dalla situazione d’incertezza e di alto rischio), come si svilupperà l’industria delle risorse energetiche del paese (se si manterrà il nazionalismo o se si liberalizzerà il settore e, in tal caso, se in maniera autonoma o no dalle ingerenze statunitensi che, fra tutti, hanno avuto maggiormente le mani in pasta sia per la stesura della Costituzione sia per la scelta dei parlamentari iracheni). Questa legge, tuttavia, ha anche un altro avversario: il potente sindacato dei lavoratori del settore petrolifero che considera apertamente un pericolo la de-nazionalizzazione. E’ reale che le trattative contrattuali che riguardano questi lavoratori, qualora dovessero avere come controparte le singole amministrazioni regionali, potrebbero risultare fortemente penalizzate. Con l’affievolirsi del potere centrale, infatti, è assai probabile che verrebbero firmati i PSA, preferiti dalle compagnie petrolifere straniere, perchè in quell’ambito la loro libertà di gestione è molto più ampia (a fronte di una redditività generalmente più vantaggiosa per l’investitore).


Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio