Si nota una strana consonanza tra le posizioni di Nemmer Hammad e dell’Ambasciatore Ehud Gol: entrambi gettano discredito sul leader dello schieramento avversario, eppure entrambi sanno che sia Arafat sia Sharon sono, come direbbero i francesi, incontournable.
Entrambi sostengono che le posizioni assunte dai rispettivi governi non avrebbero potuto essere diverse da ciò che sono. Sono cioè assolutamente ineluttabili, vista la situazione.
E’ evidente che così non si va lontano: apparentemente ciascuno vuole la pace e ciascuno sostiene che per ottenere la pace occorra raggiungere l’obiettivo dei “due popoli due stati”.
Ma nonostante questa, sempre apparente, convergenza, nessuno dei due è disposto a un passo avanti o indietro.
Si tratta dunque una situazione che, per un negoziato, è la peggiore possibile. La sfiducia tra i due leader è totale, ed è naturalmente giustificata dai caratteri e dalle storie personali di Sharon e di Arafat. Ognuno attribuisce all’altro un secondo fine, diverso dall’oggetto della negoziazione. Ognuno accusa l’altro di sfruttare il negoziato per buttare fumo in faccia al resto del mondo e all’opinione pubblica internazionale.
I palestinesi continuano a pensare che la politica israeliana miri soltanto a tenerli sotto scacco, per poi scacciarli, prendendoli per paura o per sfinimento, dalle terre contese. I più apocalittici denunciano addirittura una volontà israeliana di procedere a un genocidio dell’intero popolo.
Gli israeliani, invece, sono sinceramente convinti che Arafat, uso a comunicare con toni concilianti quando si rivolge all’occidente, e duro e sprezzante invece coi palestinesi e gli arabi, non abbia cambiato idea sull’obiettivo finale da perseguire: la cancellazione dello Stato di Israele.
Se nulla pare dunque poter convincere i due contendenti della reciproca buona fede, l’instaurarsi di nuove colonie israeliane in Cisgiordania, così come il rifiuto di Arafat all’accordo di Camp David sono elementi che non aiutano a far venir meno le reciproche diffidenze. Né a cambiare idea sulle supposte intenzioni altrui.
Ma a parte gli umori irrimediabilmente sospettosi dei due leader mediorientali, c’è un tema delicato e cruciale che meriterebbe più attenzione, e del quale raramente si parla: quello del “diritto al ritorno”: in Israele senza dubbio l’opinione pubblica è ormai pronta ad accettare l’esistenza di uno Stato palestinese, e potrebbe forse accettarne perfino una totale e vera indipendenza. Così come sarebbe un mero problema di politica interna, difficile ma non insuperabile, la divisione di Gerusalemme e lo smantellamento delle colonie. Quel che in Israele nessuno è disposto però ad accettare è la prospettiva che tre milioni o più di persone (i profughi e i loro discendenti della Guerra del ‘48) possano rientrare negli attuali confini di Israele. La paura che lo Stato ebraico perda la sua identità per questioni demografiche è la più grande e la più sentita, ed è condivisa da tutto lo schieramento politico di Tel Aviv.
D’altra parte, Arafat ha costruito gran parte della propria storia politica sul concetto del “diritto al ritorno”, un ritorno ad una terra da lui ritenuta interamente palestinese, e sulla quale deve poter tornare chi se ne è andato.
Sottovoce, in conversazioni semi-ufficiali, i politici arabi lasciano intendere agli interlocutori che in realtà pochissimi veramente vorrebbero esercitare tale diritto. Si tratterebbe solo di una questione di principio.
Ma questa purtroppo è un’illusione, e forse anche una menzogna: la differenza di reddito tra chi oggi vive in Egitto, Giordania, Libano o nella futura Palestina e chi vive in Israele è tale da esercitare un’attrazione irresistibile, capace di convincere, al momento giusto, anche i più indecisi a tornare.
L’aver evitato questo argomento durante l’incontro di Camp David fu, probabilmente, la ragione politica più importante che convinse Arafat a non accettare l’accordo.
La rinuncia al diritto al ritorno avrebbe infatti un effetto dirompente sulla leadership dell’OLP, perché il concetto di “ritorno” è il più facilmente comprensibile dall’emotività di qualunque palestinese. In più, naturalmente, c’è l’indottrinamento fatto su tutti i profughi e sui loro discendenti all’interno dei campi: per tenerne viva la coesione, attraverso la volontà di lottare e la speranza per il futuro.
E’ in questo contesto che il “piano Berlusconi” può essere veramente efficace.
Bisogna essere realisti, e comprendere che la questione del “diritto al ritorno” può avere solo una soluzione economica, e non politica. Questa rinuncia, in altri termini, va “comprata”, concordando fin da adesso le modalità di un innalzamento del tenore di vita in Cisgiordania a breve termine.
Vanno inoltre quantificati degli indennizzi convincenti e immediati.
Un sincero realismo ci impone però di vedere obiettivamente la situazione attuale, e come sia comunque difficile delineare i contorni di un tale piano, mentre gli eventi continuano a volgere al peggio.
Tuttavia, se non si affronta senza ipocrisie questo problema, se non lo si mette da subito sul tavolo contando invece di stemperarlo con il tempo, ci si continuerà a trovare in finte negoziazioni, mai risolutive, seguitando ad avvilupparsi nella reciproca diffidenza. E la pace resterà a lungo una chimera.



*Vicepresidente della Commissione esteri alla Camera e Responsabile Esteri di Forza Italia
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