Giuseppe SaccoDopo quasi due anni di Intifada e dopo le operazioni militari israeliane nei territori un tempo affidati all’Autorità palestinese, bisogna constatare - se non ci si vuole nascondere la realtà - che la linea Sharon si sta dimostrando poco efficace.
La ripresa degli attentati dopo le incursioni nei territori ed i rastrellamenti nei campi profughi, e la stessa necessità di ripetere più volte le operazioni destinate a distruggere le “infrastrutture del terrorismo” stanno a dimostrare che l’enorme superiorità tecnica e militare dell’esercito israeliano basta a porre termine agli attentati suicidi.
D’altra parte – sempre se non ci si vuol nascondere la realtà –bisogna ammettere anche che l’empasse non è solo militare, ma anche politica.
Perché è ormai evidente che la grande maggioranza tanto degli Israeliani che dei Palestinesi è giunta alla convinzione che la parte avversa non capisca altro linguaggio che quello della forza.
Dei tre maggiori protagonisti della vicenda – Sharon, Arafat e Bush – il Presidente americano è quello la cui posizione appare più difficile.
Suo malgrado, gli attentati dell’11 Settembre e il precipitare della tragedia palestinese, lo hanno costretto a superare l’iniziale riluttanza a farsi coinvolgere.
Ma anche una volta risucchiato in quello che è stato a lungo, e rimane, il più pericoloso focolaio di conflitti di tutto il mondo, egli si è sempre comportato in modo da conciliare due esigenze tra loro non sempre compatibili: la garanzia della sicurezza di Israele, e il presupposto che a molti sembrava illusorio, che sia ancora possibile un processo di pace, o qualcosa che possa assomigliargli, o essere contrabbandato come tale.
Questo presupposto, diventato irrealistico già dagli ultimi tempi della Presidenza Clinton è però sembrato svanire del tutto sotto i colpi dei kamikaze palestinesi e con la durissima reazione israeliana.
Il carattere poco realistico di questo approccio è peraltro ben confermato dal comportamento di Shimon Peres, cioè di quello che tutti consideravano fino a qualche tempo fa il politico israeliano schierato più apertamente a sostegno della linea del negoziato.
Pure occupando l’importante posizione di Ministro degli Esteri, Peres, negli ultimi mesi, ha invece di fatto lasciato che questo ruolo venisse svolto dallo stesso Sharon, che non a caso ha compiuto ben cinque viaggi a Washington in un arco temporale assai ristretto.
E se si vogliono interpretare le non chiare ragioni di questo suo “coprire a sinistra” un capo di Governo tanto più estremista di lui, si può solo dire che la “colomba” Peres stia seguendo il detto siciliano “calati junco ca passa la china”, che cioè si limiti a preservare - in un momento in cui non solo la maggioranza degli israeliani, ma quella del suo stesso partito laburista, condivide la linea dura di Sharon – la possibilità di riprendere una strategia negoziale in futuro.
E probabilmente è stato proprio al fine di segnalare che la linea del negoziato rimane quella a cui, per necessità se non per convinzione, entrambe le parti, e persino il “falco” Sharon, dovranno prima o poi riaprire uno spiraglio, che il Ministro degli Esteri israeliano ha rotto un silenzio durato a lungo – troppo a lungo – ed è tornato sul proscenio ventilando un’ipotesi che poterebbe ridare centralità al dialogo e ruolo al Presidente americano.
Una vera e propria svolta diplomatica sarebbe infatti segnata se venisse confermata l’ipotesi, messa in circolazione da Shimon Peres all’inizio di giugno, in una conferenza tenuta di fronte ad un gruppo di uomini d’affari e che riprende e sviluppa con due importantissimi dettagli il Piano di pace saudita.
Si tratterebbe niente di meno che della rinuncia di Israele agli insediamenti ebraici creati negli ultimi trentacinque anni al di fuori dei confini del 1967, in cambio di una rinuncia dei Palestinesi a far tornare i loro connazionali rifugiatisi nei paesi limitrofi dal 1948 ad oggi.
La proposta ha suscitato un immediato vespaio di smentite un po’ troppo categoriche per essere completamente credibili e di mezze ammissioni da parte di funzionari americani assai attaccati all’anonimato.
Essa è infatti una proposta che implicherebbe un sacrificio assai serio per entrambe le parti; sacrificio che sarebbe però compensato dalla minaccia che ciascuna di esse avverte come la più temibile.
Dal lato palestinese, verrebbe meno la minaccia di ottenere uno Stato falsamente indipendente, dal territorio spezzettato ed inframmezzato da aree densamente popolate da Ebrei e per di più collegate tra loro da una fitta rete di strade militari israeliane.
Dal lato israeliano, verrebbe meno la minaccia di un ritorno in massa di Palestinesi che vivono all’estero, ritorno che comporterebbe la quasi certezza di vedere capovolta la loro attuale maggioranza numerica.
Come tutte le proposte di questo tipo, il solo fatto che Peres ne abbia ventilato l’ ipotesi ha doto vita critiche ed a dubbi che essa provenisse veramente da Washington e che fosse qualcosa di più di un semplice ballon d’essai.
Comunque, anche a prenderla per buona, questa ipotetica proposta americana è per ora un semplice rumour, riportata come un sentito dire non ufficiale, solo una speranza e forse anche meno di essa.
Ma se dovesse essere confermata tornerebbe a porre Arafat al centro della scena, e a caricarlo di una pesante responsabilità.
L’anziano rais, infatti, è uscito rafforzato dall’offensiva israeliana, e la sua credibilità presso i Palestinesi – che era assai bassa fino a qualche mese fa – non cessa di essere rafforzata dal fatto che Sharon lo accusa della responsabilità di tutto ciò che accade, cerca di screditarlo in tutti i modi, ed è andato a chiedere esplicitamente a Bush un “semaforo verde” per espellerlo dai territori occupati.
Il comportamento di Sharon – che nei confronti di Arafat potrebbe esser confrontato ad un disco rotto oppure al delenda Cartago di Catone il Censore – ha finito per rafforzarlo.
Oggi più che mai egli appare come l’ unico leader arabo che, firmando anche uno straccio di pace o di tregua, può ottenere che ad essa si senta vincolata una quota forse minoritaria, ma non insignificante di palestinesi. Ed è probabilmente proprio per questo motivo, e non per i gravi errori talora commessi in passato, che gli estremisti dei due campi lo vorrebbero eliminare.
Neanche Bush lo ama. Al contrario. E non perde occasione per farlo sapere. Ma il Presidente americano sa che, se vuole mantenere qualche credibilità alla sua dichiarata adesione al presupposto che il processo di pace è ancora possibile, ha bisogno di un interlocutore palestinese credibile. E sa anche benissimo che – proprio per l’indiscutibile impegno a protezione di Israele – non può favorire l’emergere di un altro leader senza che questo risulti immediatamente bruciato agli occhi dei Palestinesi, che lo considererebbero un semplice fantoccio in mano ai loro nemici.
Perciò, se si riaprisse uno spiraglio di pace, toccherebbe ancora una volta ad Arafat giocare la carta più importante.
Prevedere come il Presidente dell’Autorità palestinese si comporterebbe di fronte ad una tale occasione non è possibile.
Non solo perché l’ipotesi avanzata da Shimon Peres è ancora troppo evanescente. E non solo perché l’uomo ha una personalità assai complessa.
Ma anche perché deve tenere conto di giochi di potere infinitamente sottili e bizantini degli attori minori di questa tragedia: le fazioni palestinesi, i Paesi arabi, gli alleati e gli avversari di Sharon dentro e fuori Israele.
Per riaprire uno spiraglio negoziale, occorre che sia l’America, la massima potenza mondiale, a prendere l’iniziativa. Essa vi giungerebbe così al termine di un’escalation che, partita da un coinvolgimento a livello assai modesto (la missione del Generale Zinni) ha via via coinvolto il Direttore della Cia, il Segretario di Stato Colin Powell e persino il Vice Presidente Cheney.
Con un’iniziativa di così ampia portata è possibile, anche se improbabile, che la cupa situazione mediorientale venga un po’ a rischiararsi. Ma purtroppo non è certo né che Washington si decida a muoversi, e ancor meno che gli altri attori aspettino che si decida. Perché nessuno in Medio Oriente ha il monopolio dell’iniziativa.
Troppi soggetti sono coinvolti, troppe ferite sanguinano, troppe vendette attendono di essere compiute, e troppi odi difficili da sradicare complicano il sanguinoso conflitto arabo-ebraico.

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