Valentina Corsaletti

Si voterà in primavera: queste le voci di corridoio che continuano a circolare in tutti gli ambienti politici della capitale. Di certo, la stabilità di un esecutivo dovrebbe rappresentare un valore, affinché la sua attività di governo possa dispiegarsi pienamente. Ma la debole maggioranza che Romano Prodi dispone al Senato non sembra più funzionare come antidoto di ricompattamento del centro-sinistra, bensì come pretesto per un vago sentimento di deresponsabilizzazione. In sintesi, il ragionamento non sembra essere più: “Restiamo compatti, altrimenti ci tocca ricominciare tutto da capo”, bensì, anche se con qualche scrupolo di circostanza: “E’ proprio la labile maggioranza al Senato a causare ‘vacillamenti’, non il nostro partito”, oppure: “Non siamo noi i ‘complottisti’, ma quegli altri”. Il quadro generale che ne viene fuori, tuttavia, continua a rimanere quello di un premier costretto ogni giorno a ‘barcamenarsi’ tra continue diatribe interne alla sua stessa maggioranza, che depotenziano enormemente, soprattutto in termini di immagine e di percezione esterna dei cittadini, alcuni positivi risultati conseguiti. Romano Prodi è stato posto, sin dall’inizio della legislatura, nelle condizioni di non poter disporre a pieno della possibilità, che in politica si definisce con la parola ‘potere’, di aggredire strutturalmente i problemi del Paese. Ma ciò, non è certo colpa dei cittadini, né di quelli che lo hanno votato e neppure di quelli che lo hanno contrastato. Di tutto questo è innanzitutto responsabile la nostra classe politica, di destra, di centro e di sinistra, che si ostina a non voler comprendere che il Paese avrebbe bisogno di un sistema elettorale diverso, di un effettivo ricambio generazionale, di un abbandono definitivo del vecchio modello corporativista di uno Stato che, ancora oggi, è pressocché quello discendente dal regime fascista. Uno Stato moderno e democratico, per natura incontra ‘crisi evolutive’, le quali tuttavia andrebbero gestite in forme maggiormente sincere, anziché procedere ad operazioni di mera immagine al solo scopo di sostituirsi a chi in precedenza dominava la scena politica. Ed è stato questo l’errore compiuto nel 1993, attraverso il passaggio referendario al bipolarismo: ai cittadini non venne spiegato che si mirava a sostituire un sistema ‘bizantino’, regolato intorno a logiche di schieramento meramente ideologiche, con un altro basato intorno ad una richiesta di schieramento a prescindere, quello delle ‘scelte di campo’ tout court. Senza tener conto che le tare di fondo del nostro tessuto socio-economico erano fortemente più urgenti e necessitavano di risposte univoche da parte di tutta la classe politica, non del perpetuarsi di una campagna elettorale infinita e totalmente propagandistica. Prendiamo l’esempio più banale, in grado di spiegare almeno una delle motivazioni del fallimento della cosiddetta II Repubblica: il programma. Esso viene steso in accordo tra le assai eterogenee forze di una coalizione sulla base di un ‘bilancio’ della situazione in un determinato e preciso momento. In seguito, però, dopo che una coalizione ha ottenuto la vittoria, le emergenze, gli imprevisti ed una lunga serie di fattori ‘esogeni’ rendono la ‘piattaforma di interventi’ prevista in sede di campagna elettorale, realizzabile solo in parte e solamente attraverso continui compromessi che snaturano gli intendimenti di ‘partenza’. Ciò dimostra come la transizione tra prima e seconda Repubblica sia avvenuta praticamente a metà, gettando via l’antico spessore qualitativo della politica dei Craxi, dei Moro, dei La Malfa e dei Berlinguer e mantenendo, anzi erigendo ‘a sistema’, i vecchi vizi di fondo: un continuo ricorso al potere di interdizione dei singoli partiti, una forsennata ricerca di visibilità pubblicitaria, un vuoto formalismo parolaio incapace di individuare alcuni valori comuni intorno ai quali raccogliere il consenso collettivo dei cittadini. Ai tempi del 'pentapartito', Craxi poteva anche umanamente non piacere. Tuttavia, intorno ad alcuni provvedimenti, persino cittadini dotati di una differente visione politica o di una distinta sensibilità ideologica potevano convenire sull’opportunità di un provvedimento varato dal suo esecutivo. Dunque, i cittadini riuscivano quanto meno ad incontrarsi intorno ad una serie di considerazioni concrete, a parte qualche ala politica estrema o maggiormente intransigente che, non a caso, veniva tenuta eternamente ai margini. Oggi, nulla è più come prima e tutti ritengono di essere titolati ad esprimere il proprio parere intorno ad ogni cosa, su ogni singolo problema, pur non avendone, spesso, alcun ‘titolo’: si è preferita la quantità, rispetto alla qualità della politica. Ci dispiace, ma la sentenza definitiva può essere solamente la presente, poiché è principalmente questo il ‘delitto’ di cui la nostra attuale classe politica risulta essersi ‘macchiata’.


Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio