Valentina CorsalettiQuattro persone sono morte e altre cinque sono rimaste ferite a Yangon, la città principale del Myanmar (ex Birmania) in seguito alla repressione delle forze di sicurezza locali finalizzata a disperdere la più grande dimostrazione degli ultimi 20 anni contro il regime militare di quel Paese, al potere dopo il colpo di Stato del 1988. Tutte le persone hanno ferite da arma da fuoco e tre di esse sarebbero, a quanto pare, monaci buddisti. Stamattina, l’esercito ha nuovamente sparato in aria sopra la folla nel centro di Yangon, spingendo i manifestanti a cercare riparo. La folla di civili si era radunata nei pressi della pagoda Sule, punto di arrivo delle manifestazioni organizzate dai monaci in questi ultimi giorni, al fine di attendere l’arrivo di un corteo di circa 10 mila persone tra monaci buddisti e civili. Le forze di sicurezza del Myanmar hanno anche utilizzato i lacrimogeni contro i monaci che cercavano di entrare nella pagoda Shwedagon, il più importante santuario buddista del Paese e punto di partenza delle proteste contro la giunta militare che governa la nazione. Testimoni e monaci hanno raccontato che molti dei più importanti religiosi sono stati picchiati e maltrattati dalla polizia, costringendoli con la forza ad uscire dalla pagoda. Oggi, le truppe governative hanno inoltre preso posizione attorno ai sei più grandi monasteri di Yangon, per evitare che i monaci organizzassero nuove manifestazioni di protesta contro una dittatura che opprime il Paese sin dal 1962. Altre centinaia di soldati sono rimasti nel parco che circonda la pagoda Sule, pronti a prevenire ogni manifestazione simile a quella di ieri. Il clima tra manifestanti e polizia è molto teso: uno scontro aperto potrebbe portare ad una ripetizione della rivolta soffocata nel sangue dal regime già nel 1988. Il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha oggi espresso “la sua più viva preoccupazione per quanto sta accadendo in Birmania e per l’arrivo di notizie sconcertanti sull’azione repressiva nei confronti dei pacifici manifestanti che ha, secondo quanto si apprende, prodotto le prime vittime. La comunità internazionale deve mobilitarsi per il rispetto dei diritti umani in tutte le parti del mondo, affinché venga assicurata la libertà di esprimere le proprie opinioni ed il proprio dissenso in modo pacifico”. Il Presidente del Consiglio, proprio ieri, nel corso del suo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite tutto incentrato sul rispetto dei diritti umani, aveva ricordato come “i principi ed i valori alla base delle organizzazioni delle Nazioni Unite siano minacciati e violati in molte parti del mondo. In questo senso, il governo italiano è al lavoro con i propri partner, in ambito europeo ed internazionale, per promuovere tutte le iniziative suscettibili di far cessare le violenze delle forze di polizia nei confronti dei manifestanti e far ripartire il dialogo”. La Presidenza del Consiglio è infatti in costante contatto con la Presidenza portoghese dell’Unione Europea e con la nostra Ambasciata in Birmania. Nel corso della giornata Prodi ha comunicato telefonicamente con il Primo Ministro portoghese, Socrates, al fine di chiedere una riunione urgente in ambito comunitario in cui esaminare le misure atte a far cessare ogni violenza. Ma le notizie che provengono dall’ex Birmania riporta in evidenza anche un altro tema fondamentale, anche e soprattutto da un punto di vista laico: quello della libertà religiosa. Un regime che impedisce ogni forma di libera espressione della coscienza umana, soprattutto nei termini della impedire al popolo di professare un proprio culto o una propria fede, impedisce nel mondo l’affermazione del principio laico della libertà come diritto fondamentale dell’umanità. Il tema è scottante, in verità, poiché sottende ogni ragionamento teso ad inquadrare la delicatezza, se non la sottigliezza, del rapporto di relazione esistente tra legge temporale e norma religiosa. La legge umana e divina, infatti, non sono ripartite verticalmente, ossia in ambiti diversi e ben limitati in modo da non contrastare, bensì vengono entrambe dalla coscienza secondo una ripartizione ‘orizzontale’ per la quale entrambe agiscono legittimamente su ogni aspetto della vita. Ciò perché la legge non sempre riesce ad esaurire il singolo caso o le questioni di coscienza dell’individuo e, in numerose circostanze, è costretta ad interrogarsi su come agire nel rispetto di regole generali di valore universale. Naturalmente, noi siamo abituati a considerare il dogma religioso come un vincolo che rischia di snaturare la natura laica della legge umana, impedendogli cioè di avere effetti validi per tutti. Tuttavia, nei casi di alcuni regimi politici assolutisti, come appunto quello della Birmania, accade esattamente il contrario: è la norma statuale che impedisce al singolo individuo la libertà di un rapporto di carattere spirituale con il proprio culto, poiché ritiene di poter avocare a sé anche la ‘sfera divina’ del potere, oppure di negarla sulla base di un’ottusità ‘pseudoscientifica’ tesa a rinchiudere la sfera dell’intera esperienza umana esclusivamente negli angusti ambiti della vita terrena. La distinzione non è di poco conto, insomma, in termini filosofici, poiché una cosa è definire scientificamente ‘inattuale’ la religione, ben altra è negarle ogni genere di validità morale. Eppure, se il mondo riuscisse a comprendere tale distinzione, riassumibile proprio nella massima cristiana del “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, forse esso riuscirebbe anche a cogliere appieno soprattutto la ‘ricchezza spirituale’ della democrazia, che è appunto quella di essere disposti a dare anche la propria vita purché l’uomo sia libero di esprimere le proprie opinioni e le proprie credenze, di qualunque genere esse siano.


 

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