Maria Elena GottarelliPubblicata in Gazzetta Ufficiale il 30 settembre 2020, la determina dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sulla gratuità del trattamento ormonale per la transizione di genere non smette di far discutere. Anche in seno al mondo trans e lgbtq+, le correnti di pensiero non sono omogenee e vedono opposti chi sostiene l'iniziativa e chi la critica in ragione di una presunta "patologizzazione" della disforia di genere. Quest'ultima attiene alla condizione di chi vive in maniera più o meno traumatica uno 'scollamento' tra il suo sesso di assegnazione alla nascita e la sua identità. Al centro del dibattito e recentemente finito nell'occhio del ciclone è il Mit (Movimento d'identità trans, ndr), celebre associazione lgbtq+ con sede a Bologna, che dal 1979 si batte per i diritti sociali delle persone trans (ma non solo). La gratuità delle terapie ormonali per il percorso di affermazione di genere è da sempre uno dei cavalli di battaglia del Mit, che nella sua pluridecennale attività di sostegno e di lotta socio-politico-culturale non ha mai smesso di rivendicare la necessità di garanzie e tutele pubbliche per chi decide di intraprendere questo percorso. Una vittoria, quindi, quella del primo ottobre? Sì e no. Nelle scorse settimane, numerose associazioni lgbtq+ si sono scagliate contro il Mit, identificato come il principale responsabile di una determina - quella dell'Aifa - che non solo contribuirebbe alla patologizzazione delle persone trans, ma renderebbe più difficoltoso l'accesso ai farmaci. Infatti, l'allegato A della determina prevede l'intervento di un'equipe multidisciplinare (psicologi, medici, endocrinologi) che diano il loro 'nulla osta' all'assunzione dei farmaci per la terapia ormonale. Questi ultimi, inoltre, non vengono erogati nelle classiche farmacie, ma solo all'interno di quelle ospedaliere. Secondo molti, quindi, il percorso penalizzerebbe gravemente chi risiede all'interno di regioni sprovviste o scarsamente provviste di consultori per persone trans, come nel caso di Calabria, Molise, Abruzzo, Marche, Valle d'Aosta, Sicilia e Puglia.

Una determina "patologizzante"?
Ma cosa si intende per "patologizzazione"? E l'entrata in vigore di questa determina, implica davvero un passo indietro in questo senso? Lo abbiamo chiesto a Valentina Coletta, portavoce politica del Mit e attivista transfemminista. "Nelle ultime settimane", esordisce la Coletta sorseggiando un caffè nel suo studio bolognese, "sono circolate diverse fake news anche in seno al mondo trans. E credo che a questo punto un po' di chiarezza sia d'obbligo. In primo luogo, va detto che il Movimento d'identità trans ha chiesto solo la gratuità dei farmaci, che continuiamo a rivendicare come un traguardo di civiltà. Per quanto riguarda il resto della determina, in particolare l'assegnazione di equipe multidisciplinari per ottenere le terapie, si tratta di iniziative prese dall'Aifa in maniera indipendente, in conformità con i protocolli internazionali. Il Mit in questa decisione non c'entra nulla". I protocolli del 'W Path' (World Professional Association for Transgender Health) rappresentano un punto di riferimento imprescindibile a livello internazionale, per quanto attiene alla salute psicofisica delle persone transgender e transessuali e per l'accesso ai farmaci. "La mediazione di un'equipe multidisciplinare", spiega Valentina Coletta, "composta da psicologi ed endocrinologi è prevista dagli Standards of Care del W Path, a cui si adegua la determina dell'Aifa. Non si tratta né di una proposta del Mit, né tantomeno di qualcosa di nuovo". Secondo la portavoce del Mit, sostenere che la gratuità dei farmaci è "patologizzante" è scorretto diversi due motivi. In primo luogo, è stata la stessa Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) a decretare, nel 2018, la "depatologizzazione della condizione trans" con l'Icd-11 (Classificazione internazionale delle malattie, ndr), in cui l'incongruenza di genere non è descritta come una patologia. "Tra l'altro", sottolinea la portavoce del Mit, "chi esperisce un'incongruenza di genere, non necessariamente desidera assumere ormoni o sottoporsi a operazione chirurgica". E' il caso dei 'non-binary', persone che non si identificano né come appartenenti al genere maschile, né a quello femminile e che possono esprimere la loro identità non binaria in diversi modi (scelta di capi di abbigliamento, microdosaggi ormonali o altro). "Se ciò non bastasse", aggiunge la Coletta, "la gratuità della terapia ormale non implica una patologizzazione più di quanto non lo faccia la gravidanza, che pure è presa interamente a carico dello Stato. In realtà, nella stessa determina dell'Aifa c'è già un uno spiraglio che va verso la depatologizzazione, con la dicitura 'incongruenza di genere' riportata nell'Icd-11, che andrà a regime l'anno prossimo". E affonda: "La gratuità è un traguardo di civiltà da interpretarsi come un passo decisivo, ma non l'unico, verso la parità dei diritti delle persone con disforia di genere". Gli altri passaggi fondamentali individuati dal Mit sono la distribuzione omogenea sul territorio nazionale di consultori dedicati alle persone transessuali, convenzionati dalle Asl, e la riforma della legge 164/82 nel senso di una maggiore autodeterminazione.

Accesso ai farmaci e distribuzione sul territorio di consultori specializzati
Da lungo tempo (inizio degli anni '80 del secolo scorso), l'Emilia-Romagna è un punto di riferimento fondamentale in tutta Italia per i diritti lgbtq+. Il Cassero, a Bologna, è stata la prima associazione in assoluto ad aver ricevuto una struttura fisica da parte del Comune nel lontano 1982. Ed è proprio l'Emilia-Romagna ad aver implementato per prima la gratuità della terapia ormonale per persone trans, successivamente adottata su scala nazionale a partire dal 23 settembre 2020. Il problema si crea sulla base della disparità di distribuzione su scala nazionale dei consultori: "Ora", insiste Valentina Coletta, "la battaglia consisterà nell'estendere questi servizi a tutte le regioni, perché le terapie siano accessibili a tutti". Infatti, nei territori in cui l'associazionismo lgbtq+ è meno radicato, si riscontra una scarsità (o addirittura l'assenza) di strutture pubbliche dedicate al trattamento della disforia di genere. Le regioni più problematiche sono la Calabria, il Molise, l'Abruzzo, le Marche e la Valle d'Aosta, ma anche la Sicilia, dove è presente un unico centro. Secondo le ultime stime dell'Istituto superiore della Sanità (Iss), in Italia ci sarebbero, in tutto, 400 mila persone trans e 'non binary'. Per quanto si tratti solo di una stima (un vero e proprio censimento non è ancora mai stato fatto), questa cifra rende l'idea della necessità di strutture adeguate per dare sostegno a chi si trova in questa condizione, mentre attualmente sono solo 10 le regioni con centri pubblici specializzati (come il Mit) e non tutti sono ugualmente performanti. "La presa a carico da parte dello Stato delle terapie ormonali", riflette la Coletta, "è un passo importante, perché va a vantaggio delle fasce più deboli delle persone trans, ovvero di coloro che, altrimenti, non potrebbero permettersi i farmaci. L'alternativa, per chi non ha grosse disponibilità economiche e non può permettersi il trattamento privato, è spesso il ricorso al mercato nero e a dosaggi 'fai-da-te'. Questi ultimi possono comportare squilibri molto gravi, fino all'insorgere di vere e proprie malattie come il cancro al fegato, allo stomaco o all'intestino, con costi ben più alti a carico della spesa pubblica".

Riforma della Legge n. 164/82 sulle norme sulla rettificazione del sesso
Un tema particolarmente sentito dal Mit è quello del confronto che spesso viene fatto tra l'Italia e gli altri Stati europei in materia sia sanitaria, sia giuridica. "Spesso, si tende a descrivere l'Italia come particolarmente retrograda rispetto ad altri Paesi della Ue, ma ciò non è sempre vero. Penso ad esempio all'Ungheria, che impedisce alle persone trans di cambiare nome, mentre da noi vige la 164/82, che permette di farlo. All'inizio degli anni '80, erano solo l'Italia e la Germania ovest a garantire questo diritto", spiega Valentina Coletta, auspicando comunque una riforma della legge verso una maggiore possibilità di autodeterminazione. "In tal senso", aggiunge, "sono anche da ricordare le due sentenze della Cassazione del 2015, quando è stato abolito l'obbligo di castrazione per le donne trans che volevano cambiare nome". Certamente, ci sono ancora diversi passi in avanti da compiere. In Italia, per esempio, l'aspetto giuridico e quello medico sono concatenati, con effetti quantomeno discutibili: non è infatti possibile, nel nostro Paese, sottoporsi all'operazione per cambiare sesso senza l'autorizzazione da parte del Tribunale, in quanto l'intervento avviene su "un organo vitale sano. Tuttavia", fa notare Valentina, "la mastectomia non concerne un organo vitale - il seno - eppure richiede il nulla osta di un giudice". Questi temi sono materia di dibattito di queste ore, mesi e anni. E una risposta univoca al problema, attualmente, non c'è: "Sento spesso dire che il Regno Unito", sottolinea l'attivista, "sia un modello da seguire in materia di diritti lgbtq+, ma non è del tutto vero. E' innegabile che, sotto il profilo legale. il Regno Unito sia più avanti rispetto all'Italia, in quanto garantisce la piena autodeterminazione. Non si può dire, tuttavia, la stessa cosa sul piano sanitario, laddove c'è un unico centro nazionale che si trova a Londra, con liste d'attesa di minimo due anni. In Italia, ci sono 10 centri pubblici e l'obiettivo è quello di arrivare almeno a 20 - uno per regione - ma siamo comunque messi meglio di tanti altri Stati", conclude la Coletta.

Transfobia: un problema socio-culturale
Al di là dei passi avanti (o presunti tali) compiuti dal nostro Paese verso una maggiore inclusività per la minoranza trans, permangono innegabilmente diversi problemi a livello sociale e culturale. L'Italia, infatti, è il primo Paese in Europa per omicidi di matrice transfobica. Secondo l'indice 'Trans Murder Monitoring' di 'Transrespect versus Transphobia', tra il 2008 e il 2016 sono stati 36 i casi di crimini aventi questa matrice, senza contare tutti i casi non assurti alla cronaca nera che potrebbero far aumentare esponenzialmente il dato. Va anche notato che, nella maggior parte dei casi, si tratta di donne migranti, spesso sud-americane, vittime di tratta, nonché prive di documenti e garanzie. La loro doppia condizione di donne straniere e transessuali le espone pesantemente a violenze di matrice misogina, razzista e transfobica, con l'aggravante di trovarsi spesso a vivere ai margini della società e della legalità.


Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio