Emanuela ColatostiUna delle prime notizie che rimbalzavano sui quotidiani di tutto il mondo all'inizio del 2020 riguardava l'implacabilità degli incendi in Australia. In seguito, l'umanità è rimasta intrappolata nell'epidemia da Covid 19, la cui diffusione è stata ampiamente facilitata dalla globalizzazione. L'unica cinta di contenimento del contagio è stata la rapidità nel sollevare misure di sicurezza. Nell'arco di un mese, tra marzo e aprile, più di un miliardo di persone erano in quarantena. Il 'lockdown' aveva come fine quello di preservare il numero maggiore di vite possibili e di non far collassare i sistemi sanitari di molti Paesi. Come effetto secondario e non desiderato, la Terra ha ricominciato a respirare. I dati parlano chiaro: in tre mesi, le emissioni nocive sono calate dell'8% netto. Le foto satellitari della Cina hanno fatto il giro del web in pochissimo tempo. Finalmente, il Paese della Grande Muraglia, visibile fin dalla Luna, era finalmente scoperto dalla spessa nube tossica delle industrie. Nonostante ciò, non è affatto necessario dare ragione ai 'neo-malthusiani'. Secondo le teorie di Serge Latouche, uno dei più arditi sostenitori della decrescita felice, l'industria è, per definizione, consumistica. Deduzione logica è la patente incompatibilità del progresso tecnologico con l'ambientalismo. Ma è un falso problema, quello evidenziato dai fautori dell'anti-industrialismo: gli opposti dialettici a confronto non sono 'sopravvivenza dell'ecosistema' da un lato e 'collasso dell'economia' dall'altro. Essendo solo 100 le aziende di tutto il mondo che hanno contribuito al 75% dell'inquinamento terracqueo, le responsabilità sono abbastanza limitate. Possiamo anche considerare che l'1% della popolazione mondiale consuma 175 volte l'ultimo 10%. Ma schierare i consumi contro l'inquinamento industriale significa entrare in una diatriba che non risolve il problema. Smettiamola di chiederci quanto si produca e in quanti siamo a consumare. Chiediamoci, piuttosto, 'come' si produce. La crociata contro le industrie e il progresso sarebbe di ostacolo a una soddisfazione in 'chiave-ecologica' del fabbisogno dell'intera umanità. La ricerca, nell'ambito biochimico, ha davvero le potenzialità per risolvere il problema della fame nel mondo e mantenere l'efficienza senza rinunciare ad annullare l'impatto ambientale. Bisogna rileggere con attenzione le parole di Friedrich Engels di risposta a Thomas R. Malthus: "Il limite della produzione non viene determinato dal numero degli stomaci affamati, ma piuttosto dal numero dei borsellini dei compratori in grado di pagare". Per l'economista inglese, il problema era la sovrappopolazione, mentre per l'autore del Manifesto del Partito comunista, la mancanza era da osservare dal lato della capacità di acquisto. In qualche modo, scegliere una politica ecnomica che vada verso la 'decrescita felice' significherebbe rinunciare per sempre a realizzare il sogno di sapere ogni bambino del mondo sfamato. Al tempo stesso, non è giusto accontentarsi di essere semplicemente 'nutriti'. Il 'neo-malthusianesimo' è un'ideologia inconsapevolmente classista, che sottrarrebbe ai Paesi meno ricchi e a quelli molto poveri la possibilità di migliorare le proprie condizioni socioeconomiche con lo 'spauracchio' della fine del mondo. Il limite sottile tra la sfera dei bisogni e quello dei desideri deve poter diventare compatibile con il rispetto di Madre Terra. Secondo un recente studio della Energy Transitions Commission, sarebbe sufficiente un investimento dello 0,5% del Pil mondiale per 'decarbonizzare' interamente il sistema energetico, quello dei trasporti su gomma, sia aereo, sia navale, riconvertire la produzione di plastica e cemento. Ormai, l'energia 'verde' riesce a essere produttiva tanto quanto quella proveniente da fossili e nucleare (fonte Sorgenia, ndr). Se economicamente non è sostenibile un altro 'lockdown', resta il dubbio sulla tollerabilità della decisioni politiche in campo ambientale. La maggior parte degli Stati nazionali è pronta a scaricare sulla società, attraverso la 'carbon tax', i costi economici ed esistenziali di un inquinamento di cui il cittadino medio non è neanche la 'ciliegina sulla torta'. Ecco, allora, che il grido: "How dare you?" (Come osate? ndr) di Greta Thunberg contro le autorità mondiali risulta ancor più comprensibile. Ma se basta così poco, perché non insistere? Perché non continuare a lanciarlo?


Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio