Emanuela ColatostiPatrizia Bernardini non solo è la 'regina che non regnò mai' in 'Giovanna sotto il sego del tempo', ma anche ragion d'esistere del copione di Adriano Marenco, che sottostà allo spettacolo diretto da Alessandra Caputo. La Bernardini nasce, artisticamente, a Roma con Franco Molè e Pippo Di Marca. Lavora, tra gli altri, con Ennio Coltorti, Mario Moretti, Marco Carlaccini e Claudio Boccaccini, ricoprendo ruoli da protagonista e copratagonista, calcando il palco di teatri come l'India, il Valle, il Brancaccio, il Ghione, l'Ambra, il Garbatella e il Vascello. Dal 2000 al 2014 ha fatto parte della compagnia del 'Metateatro' di Roma, diretta da Pippo di Marca. Nel cinema lavora soprattutto in corti cinematografici, vincendo manifestazioni nazionali come 'Attori in cerca d'Autore', con un corto diretto da Andrès Arce Maldonado. Nel 2014, esce il suo primo film da protagonista, 'Carta Bianca', vincitore del Premio Microcinema/Distribuzione Indipendente al Riff del 2013, candidato al David di Donatello 2015. Possiede, da sempre, una buona tecnica attoriale, con una sensibilità critica che solo una laurea in Filosofia della psicologia poteva darle.

Patrizia Bernardini, la drammaturgia di 'Giovanna sotto il sego del tempo' arriva potente e immediata grazie a una sinergia di gruppo: come ha fatto a far emerge il suo contributo attoriale tra i due 'fuochi' dell'autore e della regista?
"Il progetto nasce dalla mia passione per questa regina, passata alla Storia come fragile di mente: una fragilità che l'avrebbe resa pazza. Dalla lettura della sua biografia risulta, invece, una donna la cui potenza caratteriale e la sua autonomia di pensiero avevano reso 'scomoda' a chi più avrebbe dovuto amarla e averne cura: il padre, la stessa madre, il marito e il figlio. Una donna tradita dai suoi amori più grandi. Una regina che mai abdica, ma mai può regnare, che resiste fedele all'amore per il suo Filippo e devota alla sua stirpe e che, al contempo, vi si oppone nel pensiero e nei comportamenti - nei limiti concessi da un sistema di potere tutto maschile, anche quando ad esercitarlo è la madre, Isabella di Castiglia. Adriano Marenco ha poi scritto questo testo evocando una donna che sa essere originale rispetto alle strette regole del potere. Il copione in sé risulta surreale, a tratti grottesco, nello stile proprio di questo autore, ma possiede una potenza evocativa che aiuta molto a entrare in contatto con quanto narra. Il racconto si focalizza, coerentemente alla sua linea poetica, sull'essenza del potere: una struttura che ingabbia sia chi lo esercita, sia chi lo subisce. L'autore, diversamente dalle poche versioni cinematografiche che raccontano solo la smodata passione e il delirio d'amore che l'ha legata al suo sposo, si concentra soprattutto sulla 'resistenza' al potere, svelando la brutalità dell'abuso. Questo aspetto mi ha guidata nel ricercare in me tutte le possibili reazioni emotive di una donna che subisce, continuando strenuamente a opporsi come meglio riesce alle imposizioni, alle torture, ai legami del sangue a cui cede, ma da cui prende umanamente le distanze. 'Resistenza' e 'critica' sono molto presenti nel testo, aiutandomi a considerare il suo amore per Filippo, la sua opposizione alla madre - amata e odiata - e il suo rifiuto del sistema politico della sua amata Spagna. Tutto ciò non in senso 'psicoanalitico', legato cioè a una deriva patologica, ma sotto un profilo strettamente 'umano'. Il linguaggio adottato evita il 'patetico', sempre in agguato quando si affrontano storie di questo genere".

E la regia?
"La regia di Alessandra Caputo mi ha supportata nel recupero degli aspetti più 'femminili' e 'umani' che non erano esplicitati, chiedendo anche all'autore di scrivere o riscrivere delle parti. Si è molto lavorato per rendere più teatrale possibile un monologo in cui non c'è azione drammaturgica e caratterizzato da una struttura poematica: arduo sarebbe stato, altrimenti, ritrovare un senso coeso e chiaro della storia solo ascoltandola. Dunque, è stata una collaborazione sviluppata in sinergia tra noi, musicista compreso, che ci ha aiutate a dare corpo sonoro alle 'voci' che, di volta in volta, scoprivamo nell'animo di Giovanna. Un monologo, più di altre forme teatrali, vive immediatamente della capacità espressiva dell'interprete. Ma se non hai qualcosa da dire, va a finire che in bocca hai solo parole. Invece, io ho avuto a disposizione un testo ricco. Ho lavorato con molta libertà per far salire tutto quello che Giovanna mi ha ispirato, riversandovi lo studio fatto sulla biografia, cercando tutte le possibili sfumature emotive da 'incollare' a ogni passaggio della storia. Mi appassiona, ogni volta, prestare a Giovanna il mio corpo e la mia voce".

Entrare nella pelle di Giovanna sembra prima di tutto un'esperienza per la performer: qual è stata la parte della sua storia più difficile da restituire al pubblico?
"Credo sia difficilissimo restituire fino in fondo un'esperienza del genere: vivere 46 anni reclusa, spogliata del più piccolo oggetto che una persona del suo rango aveva diritto di possedere, lasciata ad affrontare i meandri della sua stessa mente sempre più sfilacciata, in balia di ossessioni, di ricordi, di sogni perduti. Cucirsi addosso un'esperienza del genere, immaginarla, elaborarla: nessuno saprà mai cosa si prova davvero. Più che la difficoltà, c'è un importante interrogativo: 'Quanto sono riuscita ad arrivare in profondità'? E quindi: 'Quanto sono stata in grado di far avvicinare il pubblico alla comprensione del vissuto di persona così vilipesa'? Il commento di una spettatrice mi ha colpita, in questo senso, nel sottolinearmi di aver ritrovato anche il linguaggio interrotto e confuso, lo sguardo e la postura di una persona che si sta perdendo, riconoscendovi la madre, malata di Alzheimer".

Al di là dell'approfondimento storico, in che modo produzioni teatrali come questa possono orientare l'attenzione del 'sesso forte' sugli effetti terribili che il potere ha sulle donne?
"In genere, i testi politico-sociali fanno breccia su chi già è predisposto a comprendere. E 'Giovanna sotto il sego del tempo' ha lo stesso destino. Un conto, però, è avere generiche opinioni sull'atrocità dell'esercizio della violenza; ben altro, assistere a uno spettacolo che mette in scena una storia di abusi. Il teatro ha la magia di mettere attori e spettatori dentro lo stesso cerchio magico, in cui il tempo della rappresentazione è immerso nel tempo di vita interrotto, per cui emozioni, sensazioni e appercezioni inconsce hanno una potenza catartica. L'intento è di stimolare dubbi in chi sottovaluta questi temi, perché pensa che non lo riguardino. La speranza è di lasciare domande e inquietudine su quanto c'è di violento nel discorso sul femminile. E mi auguro che, anche chi si sente innocente, si porti a casa compassione per le vittime di abusi e un rispetto rinnovato a tal punto da farsi carico della responsabilità di non diventarne mai complice, con la svalutazione del rischio. Mi auguro che Giovanna parli anche a tutte le donne come monito e non solo come ricordo. Sicuramente, è una pièce che va in questa direzione, perché più di una volta ci è stato chiesto come 'punta di diamante' per iniziative contro la violenza di genere".

Se Giovanna abitasse nel nostro secolo, quale sarebbe la sua storia?
"Mi vengono in mente tante donne reali, che ho scoperto esser state abusate, picchiate, recluse in un cerchio di omertà e connivenza. Giovanna era una regina, quindi il riferimento più immediato è in tutte quelle donne che ricoprono ruoli di potere, o che a questo sono molto vicine: anche loro possono essere vittime di abusi terribili, per quanto sembrino vivere in un mondo dorato. La violenza non è confinata nelle periferie: è trasversale. La pretesa di avere potere decisionale su una moglie, una figlia, una fidanzata non è il retaggio di un mondo culturalmente e/o socialmente degradato, né fa parte esclusivamente di una concezione del femminile inquinata da motivazioni religiose o culturali lontane da noi occidentali. Il virus della violenza è in ognuno di noi: non solo infetta il maschio eterosessuale, per la pericolosità con cui l'idea di possesso si lega un concetto distorto di amore, ma anche quelle donne che sottovalutano, che non 'vedono' perché non 'riconoscono', macchiandosi a loro volta di omertà. Giovanna è ogni donna che combatte per veder riconosciuto il suo diritto a esserci: ricca o povera, commessa o attrice, imprenditrice occidentale o principessa araba. La 'regina che non regnò mai' vive in ognuna di noi, che lotta per il diritto all'autodeterminazione. C'è una Giovanna in tutte le donne che non subiscono abusi, in apparenza, così gravi: la denigrazione dell'Altro si rintraccia in ogni piccolo gesto quotidiano, anche in una sola parola. Là dove c'è un rapporto, si annida un gioco di potere. Giovanna è in ogni donna che si vede riconosciuta solo in quanto madre; in ogni colpevolizzazione subita per il tentativo di fuoriuscita da un ruolo sociale imposto come 'giusto'; nell'affermazione del diritto alla vita di un 'non nato'; nella negazione della libertà di decidere del proprio corpo e della propria vita. Giovanna è in ogni donna sottopagata rispetto a un uomo, che sconta ciò che le viene riconosciuto come valore: la capacità di portare in grembo una nuova vita. La violenza è in ogni giudice che non dà il giusto significato alle narrazioni dei ruoli, in relazioni in cui il potere diventa abuso. Ed è nella società, che non sa riconoscerne i segnali".

Quale parte della storia di Giovanna porterai sempre con te?
"Tanti anni fa ho recitato un testo di Ugo Betti, dal titolo 'La regina e gli insorti'. In esso, la protagonista chiudeva più o meno così: 'Qualunque cosa il mondo, o un altro, possano farmi, o qualunque scusa io possa individuare per non affrontare la verità su me stessa, posso dire sì, oppure no'. Questa consapevolezza, al di là di ogni conseguenza, mi rende libera. Giovanna mi ha restituito questa consapevolezza con il suo coraggio di dire 'No' nonostante tutto, raccontando con la sua vita un'altra storia. L'arte e la memoria storica hanno il potere di portare alla luce vicende sommerse. Ma quel che più conta è sapere che si può dire 'No'. Anche se ciò comporta la morte; anche se tradisci te stessa; anche se non assumi il compito della consapevolezza di te stessa e di ciò che sei, con tutti i rischi e gli errori che ciò comporta".


Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio