Dario CecconiSi è conclusa la VII edizione del Roma Fringe Festival, la grande vetrina di teatro indipendente che ci ha visto impegnati per tutto questo primo mese di gennaio 2019. Una rassegna nazionale e internazionale che ha messo a dura prova gli appassionati, soprattutto per motivi climatici, ma che ha segnalato alcune indicazioni interessanti rispetto alle edizioni del passato. L'aspetto organizzativo è sensibilmente migliorato, grazie alle puntuali riflessioni del nuovo direttore artistico, Fabio Galadini. E anche l'idea di utilizzare un'unica giuria di esperti ha eliminato la questione da un giudizio popolare spesso condizionato da fattori territoriali o di pubblico abbonato, o comunque di 'aficionados' alla tal compagnia o alla singola rappresentazione. Ciò ha garantito una più attenta valutazione qualitativa, oltre a liberare le fasi di discussione e di dibattito in favore di un rapporto più fecondo rispetto al passato tra la giuria stessa e la stampa di settore. Gli stessi giornalisti delle varie testate sono riuscite, finalmente, a fare gruppo e a formare un nucleo di analisi e valutazione, rafforzandone il peso, che in passato risultava, talvolta, contenuto o limitato. Gli equivoci sono diminuiti e la kermesse si è potuta svolgere più tranquillamente, abbassando un tasso di contestazione che, in passato, era stato ingenuamente alimentato. La riprova di tutto questo ha sgombrato il campo da molte problematiche, garantendo una maggior lucidità di selezione. E infatti, l'edizione del 2019 del Roma Fringe Festival ha visto un vincitore, nella categoria 'Miglior spettacolo', quasi unanimemente individuato da tutti: 'Pezzi', un testo di Laura Nardocchi, portato in scena dalla compagnia 'Rueda Teatro'. Elenchiamo qui di seguito l'intero l'elenco finale dei vincitori e dei relativi riconoscimenti, allegando orgoglisamente a tale nota informativa anche le recensioni di tutti gli spettacoli andati in scena. redatte dai nostri ragazzi delle redazioni di www.laici.it e della rivista mensile 'Periodico italiano magazine'.

I PREMI
Miglior spettacolo: 'Pezzi' di Laura Nardinocchi (Rueda Teatro)
Miglior regia: Dino Lopardo per 'Attesa' (Madiel)
Miglior drammaturgia: Mauro Tiberi per 'Un tramezzino tautologico' (Teatro Azione)
Miglior attrice: Elena Oliva per 'Attesa' (Madiel)
Miglior attore: Alessio Esposito per 'Attesa' (Madiel)
Premio Special Off: 'Un po' di più' (Lorenzo Covello e Zoé Bernabéu)
Premio Spirito Fringe: 'Un po' di più' (Lorenzo Covello e Zoé Bernabéu)
Premio della stampa: 'Pezzi' e 'Un po' di più' (ex aequo)
Premio speciale 'Periodico italiano magazine': 'La Regina Coeli' di Carolina Balucani
Menzione speciale della testata 'Laici.it' per motivi storici e culturali: 'Radici' di Millanta e De Nitto

LE NOSTRE RECENSIONI
Un tramezzino tautologico (Francesca Buffo)

All'inizio della rappresentazione, questo lavoro di Mauro Tiberi ci è apparso poco convincente. Lo stile recitativo sembra un romanesco vorticoso, troppo veloce, quasi 'scivoloso' o poco cadenzato. Poi, si comprende meglio che è proprio il personaggio a essere caratterizzato da alcune ossessioni, prigioniero dei fantasmi di un amore rimasto troppo a lungo tra le 'pieghe' dei suoi anni giovanili, se non addirittura infantili. Risolto l'argomento, non ci dovrebbe essere alcun motivo per mentire a se stessi, né per teorizzare storie che non cominciano mai, o che deragliano ben presto dal proprio percorso evolutivo e valoriale. L'idea, in fondo, è decisamente brillante: spiegare il processo di maturazione di un giovane uomo residente a Pomezia verso l'età adulta. Ma quel che colpisce, in questo lavoro, è che dovrebbe trattarsi di una maturazione rasserenante, che toglie di mezzo una questione che rischia, spesso, di diventare una sorta di 'labirinto': una vera e propria 'trappola', per molti giovani. Soprattutto, quelli più intelligenti e sensibili, dotati di interessi culturali effettivi. Un 'momento-soglia' significativo è l'incontro con Martina, una ragazza di Siena in compagnia della quale il protagonista consuma un tramezzino 'tonno e noci'. Lui le propone di rivedersi, speranzoso di approfondire un rapporto con una giovane 'ruspante', semplice, di provincia. E, infatti, i due s'incontrano una seconda volta nella famosa piazza del Campo, nel pieno centro della città toscana. Ma lei si presenta con un altro. E a lui crolla il mondo addosso. A questo punto, Tiberi ha un sussulto: la ragazza interpreta i suoi interessi più sofisticati come un generico 'superomismo nietzschiano', provocando in Mauro una risposta - anzi, una domanda retorica - alquanto felice, oltreché corretta: "Martina, ma che cazzo dici"? Probabilmente, quella frase era l'unico frammento di filosofia che la ragazzina, provincialotta e campagnola, possedeva in quanto semplice battuta rubata 'in giro', o sentita chissà dove. E la delusione del ragazzo comincia a dirigersi verso lidi alquanto depressivi. L'attore ha 'ingranato' e sta cominciando a comunicare con il pubblico. Tuttavia, il suo presupposto rimane pessimista, oltreché dolorosamente infelice: il ragazzo non riesce mai a riprendersi dai propri insuccessi e si avviluppa inutilmente in tesi e ipotesi regolarmente smentite dai fatti. Ha un evidente problema di comunicazione: pur parlando molto e agitandosi, egli non riesce a far comprendere i suoi sentimenti più profondi. Si porta tutto 'dentro', senza comprendere che proprio quella 'interiorità' è la 'sua' verità. Insomma, questo 'Tramezzino tautologico' è un lavoro decisamente interessante, che presenta spunti e punti di vista sull'amore moderno rivelandone inquietudini e complessità. E infatti, il finale suggerisce una soluzione drastica, autodistruttiva, nichilista, anche se non c'è lo 'sparo' dell'arma da fuoco ritrovata in un cassetto a condurre lo spettatore nei pressi di una risposta catartica, verso il 'coupe de théatre'. La cosa rimane sospoesa nel vago: la si può solo intuire, lasciando libero il pubblico di crearsi l'epilogo che preferisce. Una soluzione che, purtroppo, denuncia una condizione sociale di rapporti ormai svuotati e falsificati, profondamente inquinati da un materialismo pornografico che, oltre a essere banalmente statico, non conduce da nessuna parte. Comprendere di dover star bene con se stessi e di riuscire a individuare un proprio equilibrio personale dovrebbe rappresentare un qualcosa d'importante, per un ragazzo che vale qualcosa in più rispetto agli altri. Perché erano gli 'altri' il problema: erano le persone di cui il protagonista si era circondato a essere totalmente vuote, a non valere niente. Insomma, questo lavoro di Mauro Tiberi, realizzato con la supervisione artistica di Letizia Russo e Paolo Zuccari, noi lo giudichiamo apprezzabile, poiché ha saputo incuriosirci, anche se non ci ha condotti verso quell'affrancamento, quella 'liberazione' che, per lunghi tratti del monologo, avevamo auspicato. Intrigante.

Candy: memorie di una lavatrice (Vittorio Lussana)
Cominciamo la nostra 'carrellata' di recensioni di questo Roma Fringe Festival 2019 con questo piccolo lavoro di Iris Basilicata, intitolato: 'Candy: memorie di una lavatrice'. La giovane Giulia Gallone dà voce al popolare elettrodomestico, il quale ci racconta i segreti più reconditi di coloro che l'hanno acquistata, rinchiudendola in un capanno degli attrezzi del ragusano, nella Sicilia più infima e profonda. La Gallone è brava nel donare a una lavatrice idealista e un poco ingenua, che si ubriaca con l'ammorbidente, una personalità frizzante e leggera, pur rivelando fatti e 'misfatti' piuttosto 'pesanti'. La recitazione è brillante, senza sbavature o vuoti di memoria. Inoltre, questo piccolo 'gioiellino' della Basilicata ha il pregio di essere corto: una caratteristica che non guasta, poiché si possono comunicare idee anche significative senza indugiare troppo, o disperdendosi tra aneddoti e cerchi concentrici. Aneddoti che non mancano, ma che risultano opportunamente trattati in maniera asciutta e intelligente: ha ragione la Gallone nel segnalarci, a fine spettacolo, la pregevole scrittura della Basilicata. Insomma, una piccola 'gemma', semplice e senza pretese, che tuttavia si è fatta apprezzare esattamente per queste sue qualità. La Gallone, infine, ha un volto interessante, che ne valorizza l'intensità recitativa in maniera convincente, riuscendo a farsi seguire dal pubblico grazie al magnetismo dei suoi splendidi occhi azzurri, che colpiscono anche se si è seduti in fondo alla sala. Uno spettacolo discreto, basato su una piccola 'idea' - quella, appunto, di dar voce a un elettrodomestico - ma ben realizzata e interessante.

L'affare Melghera (Vittorio Lussana)
L'affare Melghera appartiene a una trilogia di testi drammaturgici di Niccolò Matcovich, intitolata: 'Il trittico delle tre bestie'. Si tratta, infatti, di 3 lavori che approfondiscono i rapporti familiari, i loro limiti e, al contempo, i loro drammi. In questo caso, siamo di fronte a due fratelli che si vogliono bene, ma che proprio non riescono ad andare oltre i rispettivi risentimenti. Incomprensioni derivanti da un rapporto logorato dal tempo, ormai carico di rancori. Il pretesto della vendita del cascinale, che fa da sfondo 'pasoliniano' alla vicenda, scatena l'Io individualista dei due ragazzi, che si ritrovano in perenne competizione. La denuncia di fondo di questo lavoro, al di là delle paure e dei sensi di colpa rappresentati da un cane che abbaia in lontananza - probabilmente a segnalare l'esistenza di un Male che circonda di paure irrazionali la vita dei singoli individui - impedisce ai due giovani di rimuovere il passato, per provare a ricostruirsi un futuro. L'opera, portata in scena al Roma Fringe Festival 2019 dalla compagnia 'Habitas', ha dimostrato sensibilità nella regia di Chiara Aquaro, anche se l'espressività di Antonio Orlando ci ha convinti maggiormente rispetto a quella di Gabriel Montesi, prigioniero, probabilmente, di atteggiamenti rigidi e omologati, da 'integrato' che tenta di redimere il fratello, ormai tendente al 'barbonismo'. Al termine della rappresentazione, emerge qualche nervosismo di troppo per una perfomance che, in ogni caso, si è dimostrata degna di nota, sebbene inserita in un contesto giocoso e 'bizzarro' come quello di un festival 'Fringe'. Lo spettacolo è infatti cominciato con un certo ritardo, andando ad accavallarsi inevitabilmente con quello di un'altra compagnia: cose che capitano anche nelle migliori famiglie, tanto per restare in tema...

Decameron: tutto in un baule (Valentina Spagnolo)
E' stato piacevole rituffarsi nelle novelle trecentesche del Boccaccio, grazie allo spettacolo 'Decameron: tutto in un baule', portato al Roma Fringe Festival 2019 dal gruppo marchigiano 'M/N Produzioni teatrali' e incentrato sull'indubbia bravura degli attori Filippo Mantoni e Michele Nardi, per la regia di Flavia Martino. Due giullari reinterpretano sinteticamente, attraverso una serie di spunti estremamente efficaci, le più famose novelle del capolavoro 'boccaccesco'. Un baule da trasportare fuori le mura della città è il pretesto per ricollegare tra loro i diversi aneddoti dell'opera: inizialmente, i due saltimbanchi sono curiosi, ma la paura di una maledizione li conduce a trovare sempre una scusa per ritardare l'apertura della cassa, la quale, in realtà, raccoglie i segreti di signori e dame, l'erotismo spontaneo e sano dell'epoca medievale, gli imbrogli e le truffe dell'Italia popolare della metà del XIV secolo. Alla fine dei racconti, i due 'giullari' trovano il coraggio per aprire finalmente il baule, che contiene ben più di un tesoro, ma i simboli stessi di un autentico capolavoro della letteratura italiana. Una rappresentazione giocosa, allegra, artisticamente autentica, che ha avuto il merito di sottolineare l'immortalità di un'opera, il 'Decameron', capace di adattarsi perfettamente allo 'spirito' del Roma Fringe Festival. Uno spettacolo che ha saputo rispondere pienamente ai 3 criteri principali che debbono caratterizzare un lavoro artistico di alto livello: il soggetto, che ha saputo dimostrare come le radici della nostra Storia affondino in un passato popolaresco allegro e colorato; le indicazioni di regia, che hanno condotto i due attori verso un'intesa reciproca praticamente perfetta; la capacità e la bravura eclettica di un gruppo teatrale che ha saputo rilanciare la regione Marche come una delle 'piazze' teatrali 'emergenti' del nostro panorama artistico nazionale. Globalmente, un avvertito risultato scenico: molto bravi.

Il signor Dopodomani (Liliana Manetti)
Lo spettacolo 'Il signor Dopodomani' dello scrittore Domenico Loddo, interpretato dall'attore Stefano Cutrupi, per la regia di Roberto Bonaventura, proviene dalla produzione del 'Teatro dei 3 mestieri' di Messina. Si tratta di un monologo sull'amore recitato come "lo sproloquio di un condannato a vivere". Nel suo rimestarsi all'interno del suo stesso dolore, l'attore narra la sua storia d'amore e di intensa passione. Lui è un uomo del sud, che e nato e che morirà al sud, mentre la bella Ada crudelmente lo ha lasciato con una sola cosa che le appartenga: una cassetta-audio in cui ha registrato tutti i ricordi della loro storia, insieme a un messaggio finale. Ada arriverà anche a tradirlo e definirà entrambi "la causa stessa del loro fallimento", perché "non siamo stati capaci di sopportare la nostra stessa felicità e abbiamo finito col soffocarla". Un amore che ha bruciato le tappe, quindi, togliendo ossigeno al rapporto, che non si è evoluto lasciando a ognuno i giusti spazi di autonomia: un rapporto che si è "mangiato da solo", esaurendosi. Quasi alla fine della storia, Ada fissa un appuntamento "a dopodomani". Lui si recherà all'incontro, ma senza riuscire a vederla. E solo alla fine dello spettacolo riuscirà ad ascoltare la fine della regisrazione, scoprendo che, proprio negli ultimissimi minuti, Ada aveva anticipato l'appuntamento al giorno prima, cambiando le 'carte in tavola' all'ultimo momento. Un finale sfortunato, per una coppia destinata a disfarsi e per un uomo che, solo dopo aver compreso di aver dato troppa importanza a una donna che non lo meritava, propone importanti e sane considerazioni sull'amore, sull'importanza di non trastullarsi nel crogiuolo di un inutile dolore, per lo meno non troppo a lungo. Quindi, egli ragiona sul fatto di dover 'amputare' quasi fisicamente l'altra da sé, per dare fine a un dolore inutile, che porta alla depressione, al male di vivere, quasi alla volontà di suicidio. Un monologo che non stanca, ben riuscito sia grazie alle capacità artistiche dell'attore, Stefano Cutrupi, con le sue doti di recitazione passionali molto forti, sia per il testo teatrale ideato da Domenico Loddo, che ha preferito l'accostamento delle parole del testo a continui intermezzi costituiti da alcune delle più belle canzoni d'autore italiane. Come, per esempio, in apertura del monologo, in cui viene fatta ascoltare al pubblico 'Cogli la mia rosa d'amore' di Rino Gaetano, quando Ada ricorda al protagonista i primi tempi, i più entusiasmanti, del loro amore. Oppure, quando al centro del monologo viene riprodotta la poetica 'C'è tempo' di Ivano Fossati, proprio nel momento della narrazione in cui Ada annuncia la fine della loro relazione. Infine, per citarne un'altra bellissima, lo spettacolo sfuma con 'Amandoti' di Giovanni Lindo Ferretti e il suo noto ritornello "amarti m'affatica...", in cui viene racchiusa la stanchezza di un rapporto che ha costretto i due ragazzi a fare esercizio di autocritica, a scoprire la giusta natura di un rapporto più adulto, che avrebbe dovuto esser vissuto in una maniera più sana di come, purtroppo, hanno saputo far loro, sabotandolo e allontanandosi definitivamente. Poetico.

Casella 17 (Liliana Manetti)
Il monologo 'Casella 17' di Diana Ripiani ed Elisa Massari, interpretato dalla stessa Elisa Massari per la regia della medesima Diana Ripiani, ci racconta in maniera del tutto originale il peggio della nostra attuale modernità computerizzata e virtuale, che fa scadere l'individuo nella spersonalizzazione e nella dissociazione, fino all'estrema alienazione. Fornisce al pubblico uno spaccato delle nostre moderne società, con i suoi drammi più brutti. Ci conduce a riflettere sulla mancanza di lavoro, che fa nascere dalla crisi economica una nuova categoria sempre più disagiata e ormai a tutti nota: quella dei tanti giovani laureati disoccupati. Una categoria composta soprattutto da donne, come nel caso della protagonista di questo monologo. Un lavoro che ha il merito di fare informazione, sciorinando, tra una 'casella' e l'altra di questa sorta di 'Gioco dell'oca' a cui sono costrette le generazioni più giovani, una serie di dati e di statistiche allarmanti, insieme a una critica sociologica delle nostre coscienze, sempre più nascoste dietro un personal computer o che fanno abuso di tecnologia. Un piccolo compendio di informazioni e riflessioni sottilmente sociologiche con due protagoniste: Elisa Massari, che in carne e ossa rivela il proprio percorso professionale e di vita, che al tempo stesso ha dietro le spalle una sorta di 'coscienza virtuale' proiettata su uno schermo, nel disperato tentativo di 'auto-guidarsi' per gestire i problemi ormai cronici dei nostri ragazzi. L'artista, alla fine del dramma, finisce con l'impazzire, anche dopo aver utilizzato, infelicemente, tutte le 'armi', messe a sua disposizione, per affrontare una realtà completamente vuota. Oltre alla critica alla modernità tecnologica, proprio la tecnologia viene utilizzata per interagire con lo spettacolo: il video proiettato e una scultura umana composta di led colorati, che aiutano l'attrice nella messa in scena, danno un tocco di colore all'intera rappresentazione. Una scenografia fuori dal comune, utilizzata quasi come reazione alle 'tinte spente' di questi anni difficilissimi. Interessante.

Attesa (Marcello Valeri)
Torna in scena nella capitale, sul palco del Roma Fringe Festival 2019, lo spettacolo 'Attesa', della compagnia lucana Madiel. Il progetto è nato da un'idea di Elena Oliva, successivamente sviluppato in un atto unico da Dino Lopardo. Rappresentato nella sua forma di studio, questo lavoro ha già vinto il premio per la miglior drammaturgia all'ultima edizione del festival 'InDivenire'. 'Attesa' é la storia di Emma, della sua ossessione per l'idea di maternità e di come la sua vita venga segnata dalla morte del padre quando era ancora una bambina: una perdita che condizionerà in modo significativo tutta la sua esistenza e il suo rapporto con gli uomini che incontrerà. L'idealizzazione della figura maschile, tra desideri infantili, conformismo e stereotipi, portano ben presto la protagonista a scontrarsi con la cruda realtà. Durante il suo viaggio, affrontato senza una guida e con gli occhi e gli strumenti di una donna contemporanea, entra in contatto con varie figure maschili, che troppo spesso non risultano all'altezza dei suoi sogni e che non condividono i suoi obiettivi. La storia di Emma è la battaglia silenziosa di milioni di donne per essere madri. La sua è una continua ricerca dell'uomo giusto, che la liberi dalla gabbia della solitudine e che permetta la realizzazione del suo sogno, prima che l'orologio biologico segni la sua ora. Ma 'Attesa' é anche il percorso di tutti noi: un viaggio di cui facciamo parte, che abbiamo già fatto, che potremmo far presto, o che non faremo mai. E' una rappresentazione sulle diversità d'animo e d'intenti, che ben descrive come, oggi, i rapporti tra uomini e donne siano divenuti particolarmente difficili, con 'picchi geniali' di dramma e comicità. Alessio Esposito ed Elena Oliva, gli attori protagonisti, divertono e rapiscono l'attenzione del pubblico grazie anche alle musiche di Mario Russo, all'ottima gestione delle luci disegnate da Matteo Ziglio e all'assistenza alla regia di Giulia Pera. Uno spettacolo brillante, a tratti esilarante, che offre numerosi spunti ironici, ma anche di riflessione. Le diverse e stravaganti tipologie di 'maschio' che affollano i social o i vari siti d'incontro offerti in carrellata da Alessio Esposito, dal maniaco dei piedi femminili al 'piazzista' di app erotiche, sono momenti decisamente divertenti, che hanno dato modo all'attore di dimostrare le proprie ottime capacità da 'caratterista', oltreché di 'spalla' nella vicenda della protagonista. Ma anche Elena Oliva ha saputo dar prova della propria personalità, sia per il suo modo assurdo di ballare in discoteca, sia per la lodevole forza d'animo dimostrata nel rappresentare un dolore che diventa ossessione. Brillante, ma anche di sostanza.

La felicità secondo Orofino (Giuseppe Lorin)
Anche quest'anno, il Roma Fringe Festival propone, dal 7 al 28 gennaio 2019, interessanti e suggestive perfomances teatrali. Nello spazio de 'La Pelanda', presso l'ex Mattatoio di Testaccio, è stato presentato, nella prima settimana di competizione 'La felicità': uno spettacolo prodotto della compagnia 'Madè' di Catania e messo in scena da Nicola Alberto Orofino, interpretato da Roberta Amato, Giorgia Boscarino e Luana Toscano. Le 3 attrici siciliane rievocano l'atteggiamento della società catanese degli anni '60. Roberta Amato è intenta nel capare i fagiolini mentre il marito, assente, non le fa mancare nulla, persino la carne in scatola pubblicizzata in tv. Un nulla che si concretizza, appunto, nel televisore, nel frigorifero, nella macchina, nella lavatrice, nella cabina al mare, nel cibo che, comunque, va cucinato. Ed è tutta qui, 'La felicità'. Giorgia Boscarino, la bionda con la rivista 'Noi Donne', sposata con un costruttore, sente i virgulti del femminismo che l'attraggono verso gli affetti sostitutivi e le carezze che le mancano. Ed ecco qui, un'altra volta, 'La felicità'. Luana Toscano, infine, madre putativa del bambino nato di 4 chili e mezzo e diventato subito orfano alla nascita, dedita alla casa e allo stiraggio perfetto delle camicie del maschio di casa e al santissimo rosario, che va praticato tutte le sere. E anche questa è 'La felicità'. Catania e Siracusa in un equilibrio perfetto, alla fine degli anni '60, sull'onda lunga del 'boom' economico. Non è la malevolenza che aiuta a crescere, ma il confronto 'buono' tra l'interpretazione di un tempo passato rapportato alla mancanza di felicità dei nostri giorni. Ed è proprio questo confronto, ciò che rende attuale il testo di Orofino: la presa d'atto di un mondo che, in fondo, non è cambiato quasi per niente. L'assenza di felicità delle tre donne siciliane non è diventata nient'altro che la nostra attuale infelicità, per l'assenza dei valori morali e civili, per il crollo degli affetti familiari e sociali, per l'indifferenza della politica nei confronti delle nuove generazioni, alla ricerca della loro strada. Può forse nascere 'La felicità' nel cuore di questa fredda, sterile, arida società? Per intanto, la città "cresce, si allarga, s'allonga, si stira come un pane in pasta...". Un testo di rilievo. Bravissime le attrici.

Denuncio tutti (Vittorio Lussana)
In 'Denuncio tutti', monologo scritto da Giovanni Gentile e portato in scena al Roma Fringe Festival 2019 da Barbara Grilli, dedicato alla figura e alle vicende di Lea Garofalo, non c'è solamente la descrizione, dettagliata e spaventosa, della rete 'ndranghetista nel mondo. C'è anche una forte critica verso lo Stato, che nel tentativo di mettere in piedi un sistema di protezione dei cosiddetti 'testimoni di giustizia' ha palesato inefficienze e disorganizzazione, finendo con l'isolare la protagonista di questa vicenda tanto orribile, quanto sconfortante. E, alla fine, Lea Garofalo ha pagato con la vita il suo tentativo di combattere la potentissima mafia calabrese. Ma c'è anche, in questo spettacolo, un delicato affetto nel raccontare la storia di Lea sin dall'inizio, a partire dagli anni della sua giovinezza, in cui viene descritto con simpatia il suo bisogno naturale di libertà nella Calabria degli anni '80 del secolo scorso. Il Paese era uscito, in qualche modo, dal periodo della contestazione e degli 'anni di piombo'. E una nuova fase di congiuntura economica positiva finì col favorire quel processo di 'riflusso', in cui molti di noi iniziarono a cercare qualche piccola soddisfazione materiale. Come, per esempio, l'acquisto di un motorino per 'gironzolare' tra quelle stradine provinciali che si inerpicano sui nostri Appennini, sino a raggiungere le località più sperdute e caratteristiche della nostra bella Italia. Un'Italia bella 'fuori', ma orribile 'dentro'. Per una ragazza calabrese come Lea, sembrava naturale provare a vivere la propria giovinezza, o riuscire a prendersi qualche soddisfazione. Ma le consuetudini più ataviche e tradizionaliste della Calabria più infima sono difficilmente contrastabili, a dimostrazione di un tessuto sociale sempre più debole e diviso al proprio interno. Negli anni '80, ognuno di noi ha cercato di far convivere tutto e il contrario di tutto, nel tentativo di far apparire come 'normale' ogni contraddizione. Si tratta, insomma, della denuncia di un ritardo culturale del nostro Paese, di fronte al suo non voler affrontare alcuni territori socialmente impervi, come quello di Petilia Policastro. 'Denuncio tutti' è un monologo di 'teatro civile' meritevole di attenzione, che tuttavia giunge - non ce ne voglia la pur brava Barbara Grilli - in un momento di sconforto, di decantazione, di delusione dei molti, se non dei più. L'impegno della Grilli, come quello, a suo tempo, della Garofalo, in questa fase rischia di non fare notizia: gli italiani sanno bene, ormai, che le mafie esistono e che esse agiscono anche e soprattutto al nord. E, infatti, fu proprio a Milano che la Garofalo incontrò la fine della propria vita. Resta pur vero che la Grilli fa bene a cercare di mantenere viva l'attenzione su questo genere di problemi, nel tentativo di ridurre il più possibile proprio queste fasi cicliche di sconforto, che ci impediscono di fare qualcosa in più: sono periodi come quello attuale che danno modo alle mafie di riprendere 'fiato', di ricompattare silenziosamente la propria rete di controllo sul territorio. Ma ognuno di noi ha anche la propria vita da vivere. E la sensazione che vi sia una parte del popolo italiano ripiegato unicamente sul privato, che se ne infischia di certi problemi poiché considerati cronici, genera un abbassamento spirituale e morale in cui si finisce col non credere più in nulla; dove si pensa che tutto è inutile; in cui tocchi con mano una realtà per cui risulta impossibile combattere certe 'battaglie campali', soprattutto se lo Stato non riesce a evitare determinati 'passaggi a vuoto'. Il teatro civile di Barbara Grilli è meritevole sia sotto il profilo artistico, sia in quello dell'impegno intellettuale e civile. Quel che le consigliamo di valutare, tuttavia, è di calcolare meglio il fattore temporale in cui proporre determinati testi. In questo momento, l'Italia è entrata in una fase di 'neoriflusso', in cui una parte del cittadini continua a far finta di non vedere certi problemi, in cui ci si ostina a voltare il proprio sguardo da un'altra parte. Il consiglio che ci permettiamo di fornire a questa coraggiosa amica pugliese è perciò quello di 'attendere l'onda', di calcolare meglio il momento in cui, anche per inerzia ciclica o per semplice energia cinetica, l'opinione pubblica sembra voler riprovare a eliminare le proprie 'tare' di fondo, i nostri mali più profondi. In questo momento, non ci sembra che gli italiani siano molto attenti, purtroppo: ci duole dirlo, ma il Paese ha imboccato un'ulteriore fase d'involuzione, nell'assurda convinzione che certi 'tarli', come per incanto, possano scomparire da soli, o che possa bastare un ministro dell'Interno con indosso l'uniforme della Polizia. C'è un Paese pulito dentro a un Paese sporco; un Paese colto in un Paese ignorante; un Paese intelligente, all'interno di un Paese stupido. Ma queste due distinte facce dell'Italia possono solamente trattare alcune periodiche fasi di compromesso, quasi come fossero due nazioni all'interno della stessa nazione. Purtroppo, siamo messi male in ogni ambiente e, persino, nelle istituzioni. E non crediamo che bastino altre vicende come quella di Lea Garofalo a condurci verso una vittoria finale e definitiva.

L'amore dietro a ogni cosa (Silvia Mattina)
'L'amore dietro ogni cosa' è uno spettacolo tratto dall'omonimo libro di Simone Di Matteo, per la regia di Guido Del Vento, insignito del Premio per la Letteratura 'Elsa Morante'. Si tratta di 'teatro di movimento', che mette in scena la parte più controversa dell'interiorità del protagonista, Simon, per rappresentare in modo dinamico e irreale il flusso di coscienza degli esseri umani. Simon è un quarantenne in coma e, in questa sua condizione, si trova ad affrontare i fantasmi del passato. In particolare, l'enorme vuoto affettivo dopo l'abbandono paterno in età adolescenziale, che condizionerà inevitabilmente tutte le sue relazioni affettive. Tra paure, ricordi, sofferenze e delusioni, i personaggi mettono in scena la nudità dell'animo e la continua lotta che deve affrontare l'uomo con se stesso. Un affascinante lavoro corale, in cui gli attori Alessandro Di Marco, Barbara Bricca, Cristina Colonnetti, Federico Maria Galante, Gabriele Planamente e Antonio De Stefano non si risparmiano fisicamente sul palco del Roma Fringe Festival, riuscendo a creare quel caos del non risolto, del non detto della vita quotidiana e dei sistemi complessi dell'esistenza umana. "Il tempo salva l'amore e l'amore salva il cuore", recita Simon, snocciolando i termini della questione, in cui i nodi fondamentali sono due: l'amore e il tempo. Gli accenti comici e grotteschi e i famosi ritornelli di alcune canzoni italiane alleggeriscono il disagio e la sofferenza del protagonista, trasportando al contempo lo spettatore verso un mondo irreale per spazio e tempo. Tutti questi espedienti narrativi, accompagnati da citazioni auliche come la famosa locuzione latina "amor vincit omnia" di Publio Virgilio Marone, svelano progressivamente le gabbie della memoria che relegano "l'amore per la vita" a valore residuo. Per l'intera rappresentazione, i personaggi si comportano come funamboli, clown, pagliacci, cercando in tutti i modi di evadere dal tempo prigioniero, che li costringe a confrontarsi ripetutamente con l'Io e i suoi ricordi, fino alla resa definitiva, all'amore per la vita. L'affresco narrativo creato da Simone Di Matteo presenta i fatti come un qualcosa che la memoria cancella e l'amore è l'unica risposta all'inesistenza del tempo. Alla fine, tornano alla mente alcuni versi del poeta Antonino Massimo Rugolo: "E l'amore guardò il tempo e rise. Un sorriso lieve come un sospiro, come l'ironia di un batter di ciglio, come il sussurro di una verità scontata. Perché sapeva di non averne bisogno...". Uno spettacolo per il Fringe, ma oltre il Fringe stesso. Una messa in scena di livelli e di livello: vorticosamente emozionante.

Out is me: unanormalestoriatipica (Raffaella Ugolini)
Lo spettacolo di Yuri Tuci merita più di altri. Si tratta, infatti, di un lavoro che di primo acchitto appare come una piccola indagine sull'autismo, di cui questo giovane pratese è affetto sin dalla nascita. Tuttavia, in un secondo momento, ci si ritrova di fronte a un monologo estremamente sincero, che riesce a prendere per mano il pubblico al fine di condurlo all'interno di un dramma reale, affrontandone aspetti e difficoltà attraverso un dolore che si trasforma in amore, in semplicità, in gioia di vivere. Viene spiegata ogni fase di questa sindrome, in particolare quella di Asperger, in cui si vive nell'incubo che vi sia uno spirito maligno che si diverte a "spegnere la luce", trascinando improvvisamente nel buio chi ne è affetto. Non sapremo mai, probabilmente, da quali cause provengano patologie di questo genere, né se riusciremo a trovare una cura realmente efficace e definitiva. Per ora, si va per tentativi. Come nel caso di Yuri, il quale, dopo una lunga e serrata lotta, sembra essere riuscito a trovare un proprio equilibrio e, perché no, ad aprirsi una strada traendo vantaggio dalla sua stessa malattia. Anche l'aspetto sessuale di chi soffre di autismo viene affrontato con coraggio, senza censure o remore, donando compiutezza a un monologo scritto in collaborazione con Lorenzo Clemente e Francesco Gori. E il rapporto con gli psicofarmaci viene descritto come la giocosa guerra di un bambino che si ritrova costretto a difendersi da questi rimedi a 'doppio taglio', rendendo divertente la descrizione di una condizione che passa da un eccesso all'altro. Estremamente importante, se non fondamentale di questi tempi, è inoltre il sotteso principio di valorizzazione della diversità, che conduce a riflettere su come esistano questi 'alieni' tra noi. I quali, non sono affatto dei 'mostri', ma più semplicemente provengono da una 'costellazione' particolare, in cui ogni aspetto della vita quotidiana viene vissuto secondo criteri ben distinti. Anzi, per certi versi, la condizione di Yuri possiede persino alcuni aspetti positivi: innanzitutto, ci costringe a interrogarci sulle nostre convenzioni sociali e sulla loro ipocrisia, che permette ai più di volgere il proprio sguardo da un'altra parte, per evitare il 'doloroso pozzo' delle malattie di questo tipo; in secondo luogo, ci obbliga a una riflessione nei confronti di coloro che sono dotati di una sensibilità decisamente spiccata e capacità persino invidiabili. Yuri vive, oggi, circondato da una ristretta cerchia di cari amici e da alcuni affetti familiari, che si occupano di lui. Una 'fotografia' che conduce a domandarsi, in fondo al nostro cuore, se noi stessi saremmo degni di appartenere a questa piccola 'corte' di persone privilegiate, che hanno saputo costituire una piccola élite di 'specializzati' dedicando un pezzo importante della propria vita, con grande generosità, a ricreare uno 'spaccato' di società che, altrimenti, non esisterebbe. E che molti non conoscono, o non vogliono riconoscere. Un impegno che non è quello di chi si è limitato a inserire Yuri in una sorta di 'limbo', come fosse uno dei tanti figli di un 'Dio minore' o una sorta di Forrest Gump in 'salsa toscana', ma che ha saputo stare vicino a un ragazzo il quale, combattendo contro se stesso, è riuscito a diventare una persona al di sopra della 'media', spingendosi 'oltre' la sua stessa malattia. Un dato che rincuora un poco gli animi è infatti quello di un nucleo di persone che hanno avuto il coraggio di combattere una battaglia difficile, che hanno saputo aiutare un ragazzo sfortunato a diventare una persona migliore di tanti altri. Esattamente come lo spettacolo che Yuri ci ha presentato.

Bianca come i finocchi in insalata (Liliana Manetti)
Lo spettacolo 'Bianca come i finocchi in insalata', scritto e diretto da Silvia Marchetti e intepretato in scena da Andrea Ramosi, della Compagnia del Calzino di Bologna, è stato semifinalista 'In-box 2018', nonché selezionato dal Teatro Stabile di Torino durante l'edizione 2018 del Torino Fringe Festival. E' inoltre rientrato nella X edizione della rassegna 'Stazioni d'emergenza per nuove creatività' del Teatro Galleria Toledo di Napoli. E' la storia di Bianca, una meastra elementare alle prese con un amore particolare per il direttore della scuola, il preside Antonino. Un amore che si macera tra tormenti e sofferenze, poiché non del tutto ricambiato. Il suo partner, infatti, è sfuggente e poco presente. Lei non è più tanto giovane e, forse, non è mai stata amata veramente, ma spera in un cambio di atteggiamento da parte del direttore, che non arriverà mai. Lui, però, a un certo punto le assegna un incarico: deve guidare una quarta elementare piuttosto impegnativa, dalla quale lei si sente mal compresa e poco soddisfatta. Un compito che non riuscirà a portare a termine in maniera positiva, anche perché le sue ansie, timori e frustrazioni sfociano in un malessere psichico e anche fisico: una brutta ulcera allo stomaco. In uno dei suoi sfoghi, Bianca confessa alla classe la sua storia con il direttore, che di conseguenza la lascerà. Un monologo interessante, che esalta le doti evidenti dell'attore Andrea Ramosi nell'interpretare il malcontento di una donna perennemente alla ricerca, tra mille problemi esistenziali, della propria identità più profonda. L'attore, inoltre, interagisce con il pubblico in sala ricreando quasi perfettamente l'atmosfera di una classe scolastica, anche se più vicina a una IV ginnasiale, secondo noi, che a una IV elementare. In ogni caso, è doveroso sottolineare la buona perfomance di Andrea Ramosi, che si è dimostrato artista valido, con i suoi toni a mezza strada tra l'ironico e l'imperativo. Buona anche l'idea di voler rappresentare una fase di vita ben precisa di molte trentenni alle prese con i primi guai e 'acciacchi' di salute: un momento generalmente poco calcolato da molti autori, non si sa bene perché. Interessante e di spessore.

Uroboro: il serpente che si morde la coda (Michele Di Muro)
In una manifestazione come il Roma Fringe Festival 2019, non poteva mancare anche il momento per una perfomance 'mimica' allegra e divertente. E' il caso di 'Uroboro', il serpente che si morde la coda, portato in scena dal duo torinese composto da Simona Ceccobelli e Sebastian O'Hea Suarez. Si tratta, sostanzialmente, di una lezione di kung fu che genera una serie di fugure mimiche divertenti, incentrato sul rapporto tra docente e discente. Il Maestro di arti orientali, però, in questo caso è lei, la Ceccobelli: un 'tipino' molto espressivo ed estremamente agile sotto il prifolo atletico, che si diverte a far soffrire un allievo 'lungagnone' e un po' goffo. Ovviamente, per quasi tutto lo spettacolo il 'ragazzone' le prende di 'santa ragione' da questo 'peperino' di docente che si è ritrovato, la quale si diverte a torturare il proprio corsista con scherzi e 'massime' vagamente poetiche e anche un po' misteriose. Una di esse viene cinicamente legata all'alluce del piede sinistro del ragazzo, costretto a cogliere tale sua valutazione attraverso un esercizio quasi contorsionistico, che riproduce proprio il fatidico Uroboro: il serpente che si mode la coda simbolo dell'infinito. Uno spettacolo che si muove tra poesia e 'clownerie', che provoca risate, ma anche momenti assai suggestivi. Un contrasto stridente tra la cultura orientale, tipicamente cumulativa e quella occidentale, teoricamente rivoluzionaria, ma in realtà stressante. Un lavoro leggero e grazioso, che ha saputo svolgere una funzione di apprezzato e giocoso 'contorno' all'interno della cornice del Roma Fringe Festival di quest'anno. Rilassante.

Apnea: la più giovane delle Parche (Liliana Manetti)
Apnea è uno spettacolo proveniente da Aosta di Verdiana Vono, interpretato da Alice Corni, Elisa Zanotto e Maria Chiara Caneparo, per la regia di Stefania Tagliaferri. Un lavoro della compagnia teatrale 'Palenoide', impegnata nella messa in scena di drammaturgie originali di prosa o di teatro per ragazzi. Un teatro che si autodefinisce "della cura", che vuole "rimarginare le ferite" delle giovani generazioni, alle prese con le proprie esperienze. Lo spettacolo è stato selezionato dall'Ordine degli psicologi di Aosta per la Giornata nazionale della psicologia 2017 e dall'Ordine degli psicologi di Trento per la Giornata nazionale della psicologia 2018. Il tutto si svolge in bagno: un luogo surreale, in cui la leggerezza delle giovani ragazze che vanno a condividere, per puro caso, lo stesso appartamento si contrappone alle profondità dell'apnea nella stessa vasca da bagno color fucsia. Anche il motivo per cui stanno sempre in bagno è surreale: in camera è entrato un pipistrello e dormono, quindi, nel bagno tutte insieme, vivendoci. Il gabinetto è senz'altro un luogo confidenziale per le donne. Qui, infatti, le ragazze si mettono a nudo con le loro esistenze strampalate: Versilia ha uno studio dentistico e vuole riempire la sua esistenza di cose nuove; Souvenir ha ereditato una concessionaria, ma a volte vorrebbe essere una barista; Narcisa, l'ultima arrivata come coinquilina, cambia identità quando si confronta con l'altro sesso. Versilia è la più giovane e la più insicura: le dà fastidio che si rimarchi la sua giovane età e la sua voglia di non fissare, da subito, dei legami. In ogni caso, tutte e tre sono accomunate dalla stessa voglia di farcela, di non mollare, di crescere e di migliorare. Si nomina Cloto, la più giovane delle Parche nella mitologia greca, per dare uno sfondo marino alla loro nuova stanza e giustificare l'apnea che attraversa tutto il testo teatrale. L'idea di fondo non è banale e vuol'essere un monito per le giovani generazioni a navigare sott'acqua senza mai perdere la rotta, anche se a volte tutto appare difficile. Un'idea originale, quindi, anche se lo spettacolo risulta, a volte, lento e dalle luci un po' spente, tranne che per i colori lanciati alla fine dello spettacolo, come il verde speranza: la speranza di farcela. Indubbiamente, colpisce il quadro d'insieme che viene comunicato in scena: una situazione quasi da 'Friends', la serie televisiva nota in tutto il mondo, anche se indirizzata criticamente a ricordarci una fase particolare della vita di molte giovani ragazze. Una nostalgia che ci ha rammentato i primi anni di università, o le prime esperienze di autonomia al di fuori dei nuclei familiari di provenienza. Una fase della vita graziosa da ricordare, anche se immersa nelle preoccupazioni per il futuro, in una società che, sin dagli anni '90 del secolo scorso, ha provveduto a mantenere a 'bagnomaria' le generazioni più giovani. Una condizione sottovalutata, carica di retaggi 'statici' e un po' ansiogeni, che ancora oggi opprimono tanti giovani da ogni lato, poiché psicologicamente costretti a una lunga fase, appunto, di apnea. Una tematica poco trattata sotto il profilo psicologico, soprattutto sul versante femminile. Repentino il passaggio verso la conclusione, probabilmente dovuto all'esigenza di ridurre la messa in scena alle tempistiche previste dal regolamento. Intermittente.

Waiting for Macbèth (Carla De Leo)
Lady Macbèth, come sappiamo, è la mandante morale dell'omicidio di Re Duncan di Scozia. E' lei che muove le fila di tutto il complotto 'shakespeariano' per eccellenza, ideato per fare in modo che Macbèth, il suo uomo, diventi il nuovo sovrano dell'antica Caledonia. Ma la signora è anche una donna molto sola, poiché l'ambizione personale, soprattutto in politica, genera guasti atroci e conseguenze imprevedibili. Come, per esempio, l'isolamento. Ecco perché la lady Macbèth presentata da Mariagrazia Torbidoni al Roma Fringe Festival 2019 è vestita come una delle tante 'donnine' di casa del 'sogno americano' degli anni '50: lei vorrebbe una vita diversa, ma tutto ciò che ha fatto - e che non può essere disfatto - è di essersi messa in una condizione di attesa perenne. E aspettando il ritorno di Macbèth, comincia a tirar fuori le sue ragioni, a cominciare da un giudizio su Re Duncan assolutamente lapidario e inappellabile. Dunque, la questione viene spostata dall'ambizione alla fragilità femminile: ovvero, ciò che si deve saper perdonare a una donna che ha amato profondamente. Lady Macbèth, oltre ad attendere il proprio consorte, è lì in attesa che arrivi la felicità tanto agognata. Invece, l'aspirante regina rimane prigioniera di un senso di vuoto - un vecchio giornale che dà sempre le stesse notizie, un telefono che non squilla mai - che rappresenta il principale indizio del suo fallimento. Una lady Macbèth originale e, a tratti, dissacrante, che rivela un'intelligenza 'registica' delle donne non sempre compresa, nemmeno nella letteratura più 'alta'. La Torbidoni, durante la prima serata, non sempre era riuscita a comunicare al pubblico tali idee. Ma nella seconda prova, questo monologo è letteralmente decollato, ridandoci indietro l'attrice che ricordavamo e allontanandoci, altresì, dal sospetto di un'involuzione, o di un momento di distrazione personale. Interessante.

La nebbia (Marcello Valeri)
Valentina Ferrante e Federico Fiorenza portano sul palco del Roma Fringe Festival 2019 la follia del 'gregge' nello spettacolo teatrale 'La nebbia': una produzione 'Quasiteatro', con la collaborazione della 'Nuova compagnia teatrale del Canovaccio' di Leonforte (Enna) e di 'Cane capovolto'. La piéce, scritta, diretta e interpretata da Valentina Ferrante e Federico Fiorenza, con le musiche di Alessandro Aiello, racconta la tendenza all'appecoronamento di un'Italia priva d'identità, nella sua inclinazione a seguire le follie dei 'mostri' che essa stessa produce. Il singolo è un individuo smarrito che, in genere, trova la sua collocazione, la sua tranquillità, nel conformismo. Ma dalla massa, di tanto in tanto, emergono dei 'mostri' che non spiccano certo per le loro qualità umane ma, al contrario, per l'assenza di esse. La coscienza della 'pecorella smarrita' viene annebbiata dal carisma del nuovo leader, inducendola a seguirlo nelle sue follie. La pazzia del singolo diventa follia del 'gregge', conducendolo a commettere azioni disumane in nome dell'adorazione del 'capitano folle'. Un capitano sensuale e spietato, vicino alla massa nelle sue espressioni più elementari, come il mangiare. Lo spettacolo trae ispirazione dalla lettura del libro 'Caro duce ti scrivo' di Roberto Festorazzi (Ares Edizioni): la collezione di missive di adorazione inviate a Benito Mussolini dagli italiani che si accosta, in modo orribile, ai fatti dei giorni nostri. Il 'loop' musicale che accompagna dialoghi e monologhi dei due attori testimonia la ciclicità, ma anche la ripetitività, degli eventi storici. Una rappresentazione acida, arricchita da un'ambientazione autunnale, fredda, quasi crepuscolare. Un testo particolare ed elettrico, per un'interpretazione, quella di Fiorenza, che in più di un passaggio suggerisce l'amarezza per il qualunquismo di fondo del nostro Paese. La voce di Valentina Ferrante riesce a rendere la drammaticità degli eventi di guerra narrati. Il dolore della madre del bambino senza colpa, che muore durante uno dei tanti naufragi nel Mediterraneo e le movenze dei corpi trasferiscono al pubblico le sequenzialità concettuali. Il passato s'intreccia, tuttavia, col presente, attraverso la rappresentazione dei segnali elettrici delle connessioni sinaptiche. Come suggeriva Luigi Pirandello, quando nei rapporti umani a farla da padrone é la 'corda pazza', la convivenza tra le persone nella società diviene un inferno, un conflitto continuo tra gli individui. Una messa in scena che riesce a trascinare il pubblico con naturalezza nell'idolatria del capitano, con lo stratagemma dell'esperienza comune. Il pubblico diventa parte integrante della rappresentazione. Uno lavoro fresco, attuale, che fa riflettere. Per non dimenticare e non farsi 'fregare'. Eccellente.

Radici (Giuseppe Lorin)
L'epopea nazista, oggi, è un doloroso evento storico, che tuttavia ci invita a un'attenta riflessione sulle moderne forme di razzismo e di pregiudizio e sul rapporto che lega, attualmente, l'essere umano ai concetti di dignità e di diversità. Il Roma Fringe Festival 2019, ospitato al Mattatoio di Testaccio nell'area de 'La pelanda', l'antica zona di scuoiamento delle bestie, ben si addice alla messa in scena del testo tragico 'Radici' di Antonio De Nitto e da lui stesso magistralmente interpretato. Un testo che ci sottopone alla riflessione esistenziale, che proprio in questi giorni vede migliaia di morti annegati nel 'mare nostrum', per colpa della irragionevolezza di un 'essere' politico "eletto dal popolo"! Si calca l'impronta di ciò che l'Europa ha già tragicamente vissuto. Ma sarà poi così vero che "l'uomo del mio tempo è ancora quello della pietra e della fionda? Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t'ho visto, dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta". Questo estratto dalla poetica di Salvatore Quasimodo, ben disegna l'assenza di cultura storica di chi, attualmente, ci governa. In ogni caso, tre personaggi proposti da Antonio De Nitto della compagnia teatrale 'Macondo' di Bologna e Pescara, splendono di luce propria, anche se le loro esistenze sono state spente da un ideale politico irrazionale. I loro gesti, le azioni e i sentimenti, però, continuano a vibrare nello spazio, anche a distanza di decenni, martellando la coscienza del popolo tedesco e dell'intera Europa, che non subito seppe reagire a quella criminalità assoluta. Eppure, la stella colorata identificava i prescelti allo 'scuoiamento', allo sterminio: gli omosessuali, i malati di mente pronti per l'operazione T4 e gli zingari, ovviamente. Antonio De Nitto ha avuto un'idea creativa e geniale, sia per il testo, sia per la sua agile e chiara interpretazione. Uno spettacolo che si fa ammirare e apprezzare, con la speranza e l'intento che si possa proporre in visione alle attuali autorità governative, che forse non capiranno... Uno spettacolo doloroso, ma importante, soprattutto di questi tempi.

Chiuso per solitudine (Michela Zanarella)
Dieci personaggi, dieci storie di solitudine. In una società in cui, apparentemente, non si è mai soli, tra folle in continuo movimento, in un mondo sempre più connesso sui social, l'individuo è in realtà alle prese con se stesso e si ritrova a fare i conti con uno stato di isolamento che provoca inadeguatezza alle emozioni a all'esistenza. Lo spettacolo 'Chiuso per solitudine', scritto da Orlando Placato e diretto da Anna Maria Loliva, con Cristina Aubry e Oreste D'Ippolito, è il ritratto grottesco del nostro tempo. Si susseguono profili di uomini e donne bizzarri, tutti uniti da una profonda solitudine. Dalla 'brutta' insicura e 'spiona', alla donna in carriera proiettata ad accrescere il proprio ego e fatturato; dall'estremista dell'Opus Dei che scopre il piacere dell'hashish, alla ex showgirl di 'Non è la Rai' pentita di non essersi concessa a dovere; dall'inviato speciale poco dotato che cerca una rivincita sessuale, alla dottoressa dominatrice; dal figlio dell'amore, alla madre che ha perso un figlio alla nascita, fino ad arrivare all'uomo più solo di tutti: un pedofilo che sceglie di mettere fine alla propria esistenza 'animalesca' gettandosi dalla finestra. La Aubry, diplomata all'Accademia nazionale d'arte drammatica 'Silvio D'Amico', vanta un percorso notevole tra teatro, cinema, radio e televisione. Nel 2014 ha ricevuto il Nastro d'Argento per la voce di Dadina ne 'La grande bellezza' di Paolo Sorrentino. In questo spettacolo è lei la colonna portante: riesce a entrare con abilità nelle diverse identità femminili, risollevando le carenze testuali. Ironica ed espressiva, l'attrice fa parlare il corpo con una gestualità efficace. D'Ippolito è 'bravino' a reggere il confronto: è una buona 'spalla' e mantiene il giusto equilibrio. La chiusura con una proiezione sulla vicenda del pedofilo ci proietta in una dimensione di teatro sperimentale, in cui l'arte visiva lascia spazio alla riflessione. La linea registica non è del tutto originale, ma nel complesso ci troviamo di fronte a un lavoro che sviluppa tematiche delicate e attuali. C'è tempo per sorridere, ma anche per pensare. Riflessivo.

Ragù bene comune (Marcello Valeri)
La ricetta del ragù perfetto sul palco del Roma Fringe Festival. Un piéce teatrale di contesto, quella inscenata da Chiara Casarico, Emilia Martinelli e Tiziana Scrocca, che dopo una partenza un po' lenta,  introspettiva, evocatrice di ricordi, accelera improvvisamente i ritmi, dividendo il pubblico tra 'pappuliatori', 'pippiatori' e 'puppiatori',  in base al rumore prodotto nelle pentole mentre viene cucinato il ragù. Lo spettacolo, prodotto dalla compagnia 'Fuori Contesto', in collaborazione con l'associazione culturale 'Il maufragarMèDolce', prende spunto dalla preparazione del cibo come atto vitale: un'azione che può generare condivisione e identificare una comunità. Una commedia influenzata dai canoni classici del teatro popolare partenopeo, con 'sketch cabarettistici' contemporanei e cenni di 'musical-style' che, alla fine, diverte e si lascia partecipare. Le attrici, grazie anche alla 'sugna' (lo strutto, il grasso di maiale utilizzato per cucinare al posto del burro o della margarina, ndr), riescono a rompere il muro del sospetto e a coinvolgere il pubblico nella preparazione di un ragù partecipato, anche attraverso improbabili tagliatori di cipolle pescati tra il pubblico. I ruoli della brigata si fanno più chiari e il gioco del cucinare diventa prima performance, poi obbligo, fino a scatenare dinamiche di potere e prevaricazione. In pochi minuti, si degenera nell'offerta di una sola semplice nocciolina 'autofinanziata', ma in cambio viene preso tutto. Un unico atto con l'azione finale, che riesce a far riflettere. 'Ragù bene comune' è uno spettacolo che affronta le dinamiche di controllo e di potere, partendo da un elemento seducente e necessario come il cibo. Una performance che lascia il palato amaro: siamo davvero sicuri che chi offre partecipazione e coinvolgimento sia ispirato da una reale coscienza sociale e obiettivi di crescita comune? L'associazione culturale 'Fuori Contesto' nasce nel 2000 come gruppo di 'teatro-danza': le loro performance mettono in scena ciò che muove le persone, la loro ricerca di equilibrio, tra abilità e disabilità quotidiane. Sono coinvolti da sempre nella ricerca di un possibile linguaggio in cui anche lo spettatore trova la sua collocazione e il suo contesto, realizzando spettacoli in teatri, luoghi adibiti o per strada, in performance urbane. L'associazione culturale 'Il Naufragarmedolce', attiva dal 1996, nasce invece come compagnia teatrale indipendente, che auto-produce i propri spettacoli. Ha realizzato rappresentazioni originali sulle tematiche della sovranità alimentare, degli Ogm, dell'acqua come diritto inalienabile, del lavoro minorile, dei diritti negati alle donne, della precarietà del lavoro, la Resistenza, l'importanza delle radici e l'utopia. La compagnia promuove il teatro anche in luoghi non teatrali, per restituire all'arte teatrale stessa la propria originaria comunicativa e il senso di arte sociale, punto di aggregazione e di riflessione della comunità. Gradevole.

Adamant (Vittorio Lussana)
Lo spettacolo scritto e diretto da Margherita Laterza pone alcune questioni decisamente specifiche o particolari. Esso, infatti, ci obbliga a prendere atto di un paio di 'cose' che stanno accadendo, o che si stanno affacciando sul nostro panorama artistico. Innanzitutto, come da noi osservato in sede di presentazione del Roma Fringe Festival 2019, stiamo entrando nell'epoca del teatro 'pop'. Ovvero, un nuovo genere di teatro giovanile, in cui gli artisti sono disperatamente alla ricerca di nuovi valori, all'interno di una società sempre più 'appiattita' tra smartphone e social network. Un modo di vivere che conduce, per reazione, a un'esistenza che verte totalmente sul presente, poiché ogni cosa appare disumanizzata, falsificata, poco spontanea. La tendenza è inesorabile, poiché legata a una concezione fortemente individualista imposta da una globalizzazione che isola i ragazzi in un'esistenza virtuale, svuotando i rapporti di ogni fattore di umanità: tutto dev'essere mantenuto sotto controllo e nulla può accadere per caso. Si tratta di una critica sociologicamente corretta, da parte della Laterza. In secondo luogo, lo sguardo drammaturgico dell'autrice ha il merito d'indirizzarsi verso un futuro che ormai ci attende: quello dominato dall'intelligenza artificiale. La scenografia stessa di 'Adamant' suggerisce rapporti divisi in 'stanze' ben distinte tra loro, poiché nati e sviluppatisi sulle chat. Da sottolineare anche qualche suggestione 'fetish': il personaggio interpretato in questo lavoro da Marta Gastini, per esempio, rimane colpita dal colore (l'adamant è anche un tipo di pantone, in certi ambienti...) della valigia di un ragazzo che incontra in uno dei vari 'non luoghi' che fanno da sfondo alla vicenda. Siamo ormai di fronte a una generazione diversa dalla nostra. E dobbiamo rendercene conto, sia nei suoi aspetti positivi, sia in quelli negativi. Tra questi ultimi, la solitudine dei nostri ragazzi, con tutte le dissociazioni che da ciò ne derivano. Il titolo stesso della pièce, 'Adamant', fa esplicito riferimento a una 'staticità' sociale che s'impone all'interno di una realtà che sembra 'liquida', ma che in verità tende ad escludere anziché includere. Ecco perché anche i 'cuori virtuali', a un certo punto, si spengono. Il 'Giano bifronte' della nostra gioventù si è nuovamente posto in movimento sul palcoscenico della realtà sociale quotidiana. Ma a prescindere dalle intuizioni dell'autrice, i ragazzi della compagnia 'Ad Amant' hanno anche il merito di rappresentare la propria dimensione di alienati procedendo per 'scossoni umorali', donandoci l'immagine di una gioventù costretta a muoversi 'a tentoni', poiché relegata ai margini da un avanzamento tecnologico che ha chiuso un'epoca, ma ne sta aprendo un'altra ancor più insidiosa. Un'epoca che rischia di immergere definitivamente il nostro futuro tra contraddizioni sempre più stridenti, cronicizzate, insanabili. Per chi ha 'orecchie' per intendere.

Childs' play (Michele Di Muro)
Quello espresso dai bambini è un linguaggio universale, che trascende le diversità culturali che, invece, distinguono ogni popolo e nazione. E' in sintesi questo il concetto di base che emerge dal gradevole spettacolo presentato al Fringe Festival di Roma dalla compagnia 'Triplet Ensemble', originaria di Israele. Ne sono interpreti e autori Alina Fishzon, Aviran Ruimy e Hadas Selbst, i quali recitano con la direzione di Zvi Fishzon. Si tratta di uno spettacolo muto, tra mimo e teatro danza, nel quale i tre attori recitano coi volti coperti da maschere su cui sono abbozzati, in maniera sintetica, i tratti fisiognomici dei diversi personaggi. Ne risulta una interpretazione tutta affidata al linguaggio del corpo, attraverso il quale rendere il susseguirsi degli eventi narrati nella storia, con il supporto fondamentale dell'accompagnamento musicale, che arricchisce e connota i singoli momenti dello spettacolo. I sentimenti, gli stati d'animo e le pulsioni messe in scena sono le stesse che abbiamo provato tutti nei nostri primi anni di vita. In tal senso, 'Childs' play' ha il merito di proiettare lo spettatore nel proprio passato. Lo spettacolo regala la possibilità di rivivere, con non poca nostalgia, un momento della propria esistenza, in cui il tempo non passava mai, in cui tutto appariva nuovo e di vitale importanza e durante il quale si possedeva ancora intatta la capacità di esprimere i sentimenti in maniera autentica e sincera: un'abilità persa con il progressivo ingresso nell'età adulta, con le sue convenzioni e costrizioni. Per questo motivo, è pressoché immediato il legame di empatia che si prova nei confronti dei tre bambini: Rosalin, Lilac e Himmel. Al momento dell'ingresso in sala troviamo un'anziana signora, anch'essa dotata di maschera che, dapprima immobile, si anima quasi in forma di marionetta e, pulendo il parco, introduce lo spettacolo. Fa dunque il suo ingresso Lilac, la quale, in compagnia della bambola Dorothy, per la prima volta affronta il parco giochi. Timidissima, insicura e impacciata incontra Roselin, ben più socievole e sicura di sé, che prima di accettarla come amica ne testa i limiti, prendendola in giro. L'arrivo di Himmel rompe l'equilibrio. Anch'egli, segretamente, adora le bambole, ma non lo da a vedere. Dorothy è l'oggetto del desiderio di tutti e la sua scomparsa porterà i tre bambini a intraprendere un viaggio di ricerca, durante il quale vengono messi ulteriormente a fuoco i profili dei singoli personaggi. Il bisogno di accettazione, la voglia di mettersi in mostra o il desiderio di seguire i sogni più reconditi espressi dai tre bambini sono gli stessi che abbiamo provato tutti noi. Lo spettacolo sottolinea, inoltre, l'elemento fondamentale del gioco come strumento sociale di aggregazione. A questo si aggiunge il ruolo della fantasia, che dilata il tempo e la realtà, permettendo, per esempio, che un semplice stura-lavandini divenga all'occorrenza una spada, una pistola o una candela. Per volontà degli stessi autori, lo spettacolo vuole mostrare il divario esistente tra il comportamento che la società si aspetta da noi e quello che, invece, siamo e desideriamo davvero. L'interpretazione dei tre attori è rimarchevole e la costruzione dello spettacolo ben riuscita, funzionale nella misura in cui, pur senza l'ausilio della parola, si riesce a coinvolgere lo spettatore tramite una felice inventiva e una puntuale caratterizzazione dei personaggi. Tutto molto bello.

La Regina Coeli (Liliana Manetti)
'La Regina Coeli' è un monologo ideato da Carolina Balucani, drammaturga e regista, interpretato da Matteo Svolacchia. La trama è ispirata alle storie dei tanti giovani ragazzi morti in carcere e dedicata al dolore delle loro madri. Un giovane ragazzo tossicodipendente viene arrestato in un parco e condotto in prigione. Nella storia, il protagonista cerca di rappresentare metaforicamente la Pietà di Michelangelo per far comprendere la profodità del dolore di sua madre. Un richiamo valoriale e religioso rappresentativo dell'amore di tutte le madri, a cominciare da quello di Maria, la madre di Gesù. Il monologo è più stratificato e complesso di quanto non sembri a prima vista, poiché strutturato mescolando alcuni elementi di 'avanguardia punk' che tendono a trasporre la figura mistico religiosa del Cristo-Uomo deposto dalla croce, entrando in un preciso rapporto di perpendicolarità geometrica e architettonica con l'elevatezza del dolore di una madre a cui è stato ammazzato il figlio. Si parla di religione in senso profondamente laico, specificando di continuo spazialità e confini, perimetri ed elevatezze. Elementi geometrici che squarciano il velo mistico-religioso, riportando alla luce un valore di rivalutazione della nostra stessa umanità. Una sorta di 'disperazione geometrica', sintetizzata in elementi che si potrebbero persino toccare. Come nella descrizione del 'confine orizzontale' generato dalla lapide, in cui tornano evidenti ulteriori elementi 'spaziali' che donano una connotazione precisa alla messa in scena, sin quasi a farci sentire il freddo del marmo che divide il corpo del figlio dalla povera madre, china sulla tomba mentre è intenta a piantare delle rose. Sono elementi fisico-estetici evidenti, che donano spessore a un monologo decisamente particolare, scavando nella storia della nostra stessa cultura nel tentativo di apportare materialità ai sentimenti, alla parte più nobile del nostro dolore. Perché se nessuno è più in grado di valutare spiritualmente la disperazione di una madre che ha perso un figlio, allora diviene necessario individuare una formula dialettica quasi fisica, al fine di farci 'toccare con mano' quel dolore. Matteo Svolacchia ha gli occhi rossi e, a volte, sembra piangere davvero, ricordando le statuette miracolose della Vergine Addolorata, che nei paesi fanno correre da tutte le parti i pellegrini, raccolti nelle più disperate preghiere. Un monologo che commuove per la sua innocenza e che, soprattutto, sottolinea i delitti che vengono commessi contro i più deboli: una grande ingiustizia da parte di chi ci dovrebbe difendere, rappresentando al meglio le nostre Forze dell'Ordine. Come non ricordare il 'caso Cucchi', l'uccisione in carcere del geometra romano che ha fatto riflettere l'Italia intera? Il testo, tuttavia, non vuol essere un riferimento preciso a taluni fatti di cronaca. Piuttosto, cerca di sensibilizzare il pubblico a riflettere sul dolore di chi resta, delle madri e delle sorelle, sulla profonda ingiustizia che rimane, per molto tempo, impunita e che, inevitabilmente, fa ancora più male. 'La Regina Coeli' è sicuramente uno spettacolo incentrato su un importante tema di denuncia sociale: è teatro civile. Fa riflettere e dà spazio a una tematica attualissima, a cui bisognerebbe concedere lo spazio che merita: una 'piaga' contro ogni tipo di diritto umano che conduce solamente verso la regressione, l'abbrutimento e l'imbarbarimento più assoluto. Edificante.

Ave (Serena Di Giovanni)
Ave è il titolo dello spettacolo portato in scena al Roma Fringe Festival 2019 dalla compagnia napoletana 'LunAzione', per la regia di Eduardo Di Pietro. Un titolo che fa riferimento a una richiesta trascendente, che si manifesta con un sogno ricorrente perseguitando Cesare, un bravo parrucchiere di Santa Maria del Pozzo. L'inizio è allegro e coinvolgente, con quattro donne completamente rapite dalle capacità professionali, ma anche psicologiche, del bravo coiffeur, disponibile a svolgere un ruolo di sostegno delle proprie clienti, aiutandole ad affrontare le loro insicurezze. Tuttavia, Cesare a un certo punto comincia a manifestare uno stato di malessere. E ogni volta che cerca di esprimere ciò che gli sta capitando, nel suo laboratorio di parruccheria accade qualcosa di 'strano'. Egli confessa alla propria consorte il sogno inquietante che lo perseguita: una strana figura femminile gli appare in sogno, presentandogli una richiesta di 'pizzo mafioso', da consegnare gettando una somma di danaro dentro al pozzo della località. Da qui in avanti, la vita quotidiana del paese risulta sconvolta. E lo stesso Cesare comincia ad avere comportamenti preoccupanti, oltre a non riuscire più a esercitare quella resa professionale che lo aveva reso popolare. Ogni personaggio della piccola comunità campana non riesce a incidere in alcun modo sul problema del protagonista, denunciando una scarsa disponibilità individuale che ci ha decisamente incuriosito e interessato. Ognuno sembra aver fondato una propria 'scuola di pensiero' attorno al problema di Cesare, senza aiutarlo realmente: una tematica antropologica tesa ad affrontare, in chiave metaforica, la profonda crisi sociale che sta attraversando il nostro Paese, avvolto tra i retaggi di un egoismo dissimulatorio di origine atavica, se non mistico-religiosa. Intrigante.

Uno splendido giorno per sempre (Gaetano Massimo Macrì)
E' l'incredibile vicenda di Tender Branson, quella raccontata al Roma Fringe Festival 2019 da David Vox, proveniente da Londra con il monologo 'Uno splendido giorno per sempre'. Un lavoro prodotto dalla compagnia teatrale britannica 'RedSand Theatre', per la regia di Justin Murray e dello stesso David Vox. Dopo aver preso un aereo, Tender Branson estrae una pistola e obbliga l'equipaggio ad atterrare in un aeroporto lasciando a terra tutti quanti, passeggeri e secondo pilota. Entrato in possesso dell'enorme airbus, obbliga il comandante a decollare nuovamente e a lanciarsi con un paracadute. Rimasto solo nella cabina di pilotaggio, Tender inserisce il pilota automatico e attende che finisca il carburante. Nel frattempo, registra sul nastro magnetico della scatola 'nera' - che in realtà è arancione - la sua storia. Nato e cresciuto in una setta religiosa estremamente ortodossa, finisce col diventare un santone televisivo: un fenomeno di successo che ha attraversato il mondo anglosassone negli anni '90 del secolo scorso. L'attore, in scena, è piuttosto vivace. E si dimostra fisicamente in ottima forma nell'utilizzare il linguaggio del proprio corpo, al fine di descrivere la curiosa educazione repressiva che ha ricevuto negli anni dell'infanzia: una di quelle rigide sette religiose che rifiutano ogni minimo accenno di modernizzazione o di secolarizzazione. Tale aspetto dello spettacolo di David Fox è quello più interessante, a dimostrazione delle molteplici forme di oppressione delle religioni trascendenti, che cioè trascendono sia le norme giuridiche e civili, sia le moderne regole pedagogiche che dovrebbero sovraintendere con equilibrio l'educazione dei minori. Una forma di oscurantismo che priva il ragazzo di ogni strumento per difendersi dall'eccesso opposto: il successo e la fama mediatica. Tender diviene un 'santone' televisivo, ma ben presto si rende conto di quanto il mondo moderno sia anch'esso truffaldino e spersonalizzante, passando da un finto matrimonio, deciso dai produttori del suo show, a una ferrea vita salutista, caratterizzata da un uso smodato di anabolizzanti e anfetamine. Una vita sacrificata sull'altare del successo, che da 'apostolo divino' lo conduce a organizzare un ultimo show decisamente 'estremo'. Il volo per New York procede costante, in una splendida giornata di sole. Ma la nafta sacrificata durante il dirottamento, mano a mano finisce. E i motori del Boeing 747 prendono fuoco uno alla volta, trasformando l'ultimo giorno di vita del protagonista in "una splendida giornata per sempre". Un monologo interessante, che spiega perfettamente la illiberale convergenza di finalità tra un'educazione tradizionalista e una modernità completamente priva di scrupoli. Due mondi solo apparentemente in opposizione, che in realtà perseguono il medesimo obiettivo: annullare la libertà del singolo individuo, per trasformarlo in un mero 'oggetto' delle decisioni altrui, della comunità religiosa nell'infanzia, della mercificazione di se stessi nella fase adulta. Ma quando un uomo non possiede alcun modo di essere artefice della propria esistenza, può arrivare al punto di decidere, per lo meno, come morire: nella maniera più spettacolare possibile. Vivace e simpatico.

Pezzi (Vittorio Lussana)
Ed ecco a voi una di quelle rappresentazioni teatrali di cui non si può che scriverne bene. 'Pezzi', infatti, prodotto dalla compagnia 'Rueda Teatro', è uno spettacolo magnifico, se non addirittura eccellente. La drammaturgia di Laura Nardinocchi è toccante; la sua regia perfetta; l'interpretazione delle 3 ragazze in scena letteralmente fantastica. Riteniamo questa 'perfomance' una di quelle destinate a fare incetta di riconoscimenti, lunedì prossimo, alla premiazione che si terrà presso il Teatro Vascello di Monteverde, in Roma. Il tema di fondo è persino semplice: è l'8 dicembre e una madre, con le sue due figliole, si ritrova a fare l'albero di Natale nonostante la recente perdita del suo compagno di vita, padre delle due ragazzine. Festeggiare in un momento disorientante della vita diviene una contraddizione stridente, feroce, quasi crudele. La figlia più grande è incattivita e vorrebbe non pensare a niente. La figlia più piccola percepisce un vuoto evidente. E la madre è quasi sul confine della follia, con una ferita divenuta uno 'squarcio aperto'. Benché letteralmente 'a pezzi', il piccolo nucleo familiare si stringe attorno al proprio dolore. E l'albero natalizio, alla fine, non è più quello di sempre, adornato con le solite luci e le consuete strenne, ma con le cravatte del marito e del padre venuto a mancare. La percezione di un momento doloroso colpisce al cuore il pubblico, sia per l'efficacia drammaturgica del testo, sia per la bravura delle 3 ragazze in scena. Una vera e propria 'gemma', che è riuscita a convincere e a commuovere tutti quanti: amici, giornalisti e giurati presenti in sala. Un dolore che si fa fatica a metabolizzare in tempi rapidi. Un'elaborazione del lutto che genera un vuoto paragonabile all'amputazione brutale di una parte di se stessi, soprattutto in una famiglia di persone modeste, semplici, dolcissime. La rappresentazione di un'Italia che quasi non esiste più e che, tuttavia, cerca di resistere ai colpi della vita, nonostante un isolamento da 'mosche bianche' e la propria attuale condizione di minorità. Questa è la società che vorremmo e che stiamo ancora oggi cercando. Queste sono le famiglie e le persone che vorremmo sempre conoscere e amare. Uno spettacolo semplicemente perfetto.

Bar moments (Ilaria Cordì)
Uno spettacolo totalmente mimico, che utilizza con efficacia il linguaggio del corpo per descrivere 'l'Italietta' del 1939, con i suoi luoghi comuni e gli stereotipi che si sono regolarmente riproposti nel presente. Un buon lavoro, questo della compagnia perugina del 'Teatro umano', che diverte, ma fa anche riflettere su quanto poco sia cambiato nell'animo di fondo di un Paese stupido e grottesco, che tende a ripetere sempre i medesimi errori di doppiezza e qualunquismo. Il bar non è un ambiente scelto a caso: nel delirio nazionalista dell'epoca, fu imposto che esso venisse chiamato 'caffetteria', in nome di un purismo linguistico tanto ridicolo, quanto anacronistico, per non dire buffonesco. Le maschere dei personaggi in scena, paradossalmente si muovono, prendono vita, esprimono senzazioni, pensieri e sentimenti. Quel che invece rimane letteralmente immobole è tutto il resto: un Paese che tende a bloccare i momenti come fossero fotografie 'al magnesio', che proprio non riesce a cambiare poiché vittima dei suoi vuoti e miserabili atteggiamenti. La povera 'Italietta' di ieri giunge, in tal modo, a confinare con quella di oggi: c'è il gerarca Truffini, ottuso e pieno di 'fisime'; la prostituta vanesia; la bambina 'impicciona' che vorrebbe diventare adulta in fretta e furia; la barista ingenua, che si lascia rubare due bottiglie di vino da sotto il naso; la suora moralista, che tuttavia si lascia corrompere dal denaro; la vecchietta che finge di star male, ma che diviene lucidissima nel sottrarre alla bambina il suo trancio di torta. Un'Italia miserabile e contraddittoria, che proprio non riesce a guardarsi allo specchio, autocondannandosi stucchevolmente al proprio provincialismo folcloristico. Rilassante.

Matteo 19, 14 (Marcello Valeri)
Jesus Emiliano Coltorti ed Elisabetta Jane Rizzo tengono gli spettatori del Roma Fringe Festival 2019 incollati alla sedia durante la loro interpretazione di 'Matteo 19, 14': uno spettacolo di teatro classico, scritto da Lorenzo Gioielli. Sotto la regia della Rizzo, i due attori prendono il pubblico per mano e lo coinvolgono nella storia, fino al colpo di scena finale. Il 'giallo', ambientato in un bar, vede i protagonisti, tra loro sconosciuti, incontrarsi apparentemente per caso. Lui, in relax, legge il giornale; lei, giunta in tutta fretta, scopre di essere arrivata in ritardo a un appuntamento importante. La ragazza è provata dalla tragedia della malattia del figlioletto, con un marito non in grado di sopportare la sofferenza, fino  a tentare il suicidio. Lui è un professionista affermato, sicuro di sé, che dispensa pillole di saggezza, mosso nella sua attività di medico dalla volontà - che si dimostrerà ben presto piuttosto interessata - di voler aiutare il prossimo. Nel ritmo serrato dei tempi in cui si svolge il dramma, la relazione dei corpi dimostra la donna ben presto affascinata dal misterioso interlocutore. E' pesante la consapevolezza di essere impotente e sola nell'affrontare un dolore quale può essere quello di una madre che scopre il figlio, piccolissimo, afflitto da una malattia congenita, che gli procurerà presto la morte. A meno che... Cosa saremmo disposti a fare, per salvare la vita di chi amiamo? E' questo l'interrogativo che pervade lo spettatore sino al termine dello spettacolo. Un crescendo di tensione accompagna il pubblico fino alla scena finale, in cui le qualità dei due attori emergono prepotentemente. 'EJ Company' è una compagnia teatrale che aveva già presentato con successo 'Matteo 19, 14' al Fringe di Edimburgo lo scorso agosto 2018, per la prima volta in inglese e con Elisabetta Jane Rizzo quale attrice protagonista. Il versetto evangelico del titolo fa espresso riferimento alla nota richiesta di Gesù ai Farisei: "Lasciate che i bambini vengano a  me". Il testo, di Lorenzo Gioielli, è stato vincitore nel 2004 del Premio 'Gran Giallo Città di Cattolica' come miglior racconto giallo e del mistero inedito dell'anno. Ed è stato pubblicato nel 2005 nella collana 'Il giallo Mondadori'. Un copione importante, diretto ed essenziale. Bravi gli attori. Bello il finale alla 'Charlie's Angels'. Coinvolgente.

Un po' di più (Dario Cecconi)
Decisamente brillante la perfomance di teatro danza di Lorenzo Covello e Zoé Bernabéu, che coronano con questo 'Un po' di più' un amore tutto imperniato su equilibri apparentemente impossibili, se non folli. Lui è solido, 'quadrato', rassicurante; lei una magnifica 'gatta', agilissima e altrettanto abile nel riuscire persino ad avvolgersi in orizzontale attorno al collo del proprio partner. Abbiamo presente come si comportano i cuccioli di gatti, quando si mettono a camminare sulle nostre spalle e persino sulle nostre teste, individuando equilibri che pensavamo impossibili? Ebbene: quando un amore è naturale, la sua forza è proprio quella di riuscire a trovare sempre nuovi punti di contatto, nuove 'pose' che prendono il posto delle frasi. A un certo punto, proprio Covello inizia a elencarne alcune tra le più tipiche. Ma sono inutili, innanzi a un amore che ti avvolge e che è capace di camminare persino su piani inclinati. La Bernabéu, a sua volta, è fantastica, aiutata da un corpo adatto persino ai contorsionismi. Un'abilità unica, specifica, decisamente particolare, quella di questi due ragazzi provenienti da Palermo, che colpisce al cuore proprio per la naturalezza dei gesti. Probabilmente, la perfomance si ispira a un genere di danza contemporanea che sviluppa l'abilità dei corpi a ricercare e a creare sempre nuove tipologie di equilibrio. Ma proprio in questo risiede il lato artistico e universale della danza: nel non stancarsi mai di cercare sempre nuove coreografie, nonostante ciò appaia impossibile e sembra quasi che tutto sia già stato proposto o fatto. Il teatro, lo ricordiamo, non è il luogo della semplice rappresentazione, bensì del gesto, dell'atto per essere precisi. Ed ecco, dunque, il vero senso dell'esercizio di apertura, in cui i due ragazzi si cimentano in un esercizio con le sedie che risulterebbe vietato in ogni famiglia, magari accompagnato anche da qualche 'scappellotto'. Ma la 'sicurezza del sogno' di questi due ragazzi li trascina ben oltre ciò che viene considerato normale. Perché l'amore va sempre al di là di ogni convenzione, innovando e rinnovando. Romantico.

Gli arrovesciati (Vittorio Lussana)
Si tratta di un testo di Giorgio Cardinali, che è anche il narratore della vicenda, accompagnato in scena dalle musiche di Francesco Ciccone. Una storia realmente accaduta negli anni '50 del secolo scorso nella Sicilia del latifondo e delle baronìe: una realtà rimasta immobile per interi secoli, su cui sia l'Italia prefascista, sia il regime 'mussoliniano' non erano riusciti a incidere in alcun modo. Il racconto è quello di uno sciopero all'incontrario: ovvero, la costruzione di una strada per raggiungere la montagna, facendola passare per i terreni e le proprietà di baroni e latifondisti. La vicenda ha un proprio indubbio valore sociologico di valorizzazione del lavoro e di raggiungimento di un obiettivo tramite la devoluzione di sè. Tuttavia, oltre ad alcuni dubbi recitativi relativi al tono con cui ia vicenda viene presentata, il racconto porta a pensare più al cavallo de 'La fattoria degli animali' di George Orwell, piuttosto che a un'impresa solidaristica e popolare, in cui le Forze dell'Ordine si ritrovarono costrette a fronteggiare la popolazione contadina in base a normative che, fino ai tentativi di riformismo agrario di Fausto Gullo - giustamente citato nel racconto - non prevedevano l'esproprio amministrativo di pubblica utilità: un regolamento divenuto fonte di diritto solamente con l'entrata in vigore della Costituzione italiana, che ne ha riconosciuto la valenza giuridica. In buona sostanza, si tratta di un episodio che si potrebbe e si dovrebbe attualizzare alla luce di una modernizzazione che tende, al contrario, a liberare l'uomo dalla schiavitù del lavoro, che dunque prevede una sempre maggior specializzazione delle professioni, abbandonando definitivamente le vecchie logiche, 'generaliste' e ideologiche, le quali comportano, spesso e volentieri, incoerenze, parassitismi, scarsa meritocrazia. La vicenda fotografa un momento storico ben preciso, rappresentando come valore positivo un ideale di solidarietà dal basso che, tuttavia, oggi si esporrebbe ingenuamente al tradimento del singolo individuo non appena se ne ha la possibilità. Un valore di speranza estremamente utile per l'Italia dell'immediato dopoguerra, ma totalmente inattuale oggi, poiché entra in conflitto con l'anello forte della catena capitalistica, senza riuscire a determinarne la direzione di marcia. Insomma, i presupposti sociologici di questa vicenda risultano corretti. La direzione suggerita, purtroppo, appare palesemente errata, in quanto divenuta inattuale. Una realtà di cui nessuno può esserne considerato, politicamente o socialmente, colpevole. Utopico.

Bianco d'inchiostro (Marta De Luca)
Uno spettacolo portato in scena da Giulio Bellotto e Alice Guarente che vorrebbe ricordare e omaggiare la poetessa russa Anna Achmatova, la quale fece circolare, tramite un 'samizdat' diffuso in tutta l'Unione sovietica del terrore staliniano, un proprio poema composto durante i 17 mesi di prigionia del figlio. Il problema è che la rappresentazione risulta talmente declamatoria e confusionaria da non far capire quasi nulla al pubblico, nonostante la circolazione del testo poetico in sala. Una messa in scena di cui non resta niente, se non qualche bandiera rossa sventolata sul palco, una marcetta militare da regime totalitario e una recitazione che sembra quasi indirizzata verso uno spettatore ideale anziché reale. Probabilmente, la riduzione a 50 minuti della piéce ha costretto a una sintesi che ha finito con l'amputare il copione. Tuttavia, riteniamo che un riassunto meno 'bizzarro', su una tematica così importante, fosse possibile. L'impressione di fondo è che si sia mal compreso lo spirito del Roma Fringe Festival, fino a spostare la rappresentazione su un terreno surreale. Ma il teatro Off non è affatto un mondo di artisti folli o 'borderline', bensì un difficile dosaggio tra elementi estetici e recitativi: forma e contenuto che finiscono col coincidere in maniera originale o innovativa. Un metodo diverso per raccontare una storia o la Storia stessa. Una poetessa in crisi esistenziale e un soldato dell'Armata Rossa, probabilmente un Commissario del popolo, che urla e fa casino: questo è quanto rimane nella testa del pubblico, totalmente schiacciato da musiche, rumori e declamazioni dirette verso gli orizzonti infiniti della poesia. Potrà forse apparire alquanto strano, ma per uno spettatore normale tutto ciò che è infinito, alla fine della 'fiera' finisce. Sempre e comunque. Narcotizzante.

Le sorelle Prosciutti (Vittorio Lussana)
La compagnia milanese 'Teatri reagenti' porta in scena questo spettacolo, 'Le sorelle Prosciutti', scritto e interpretato da Francesca Grisenti ed Eva Martucci con l'aiuto di Massimo Donadi, che ne è anche il regista. La Grisenti e la Martucci, in scena sono molto simpatiche, riuscendo a raccontare con leggerezza la vicenda familiare di due sorelle legate indissolubimente all'azienda di famiglia, che produce i prosciutti di Parma e li esporta, per interi decenni, in tutto il mondo. Tra ricordi e flashback divertenti, le due attrici descrivono la storia di un'azienda che assomiglia molto a quella di tante altre imprese mandate a 'gambe per aria' dalla globalizzazione. E infatti, con l'arrivo del nuovo millennio, alle due ragazze crolla il mondo addosso. Vi è indubbiamente una cesura, una frattura ben precisa, tra gli anni '80 e '90 del secolo scorso e il nuovo millennio, che ha desertificato molti settori i quali, invece, erano sanissimi e che risultavano essere la nostra vera 'spina dorsale' industriale e produttiva. La segnalazione è meritevole: è accaduto qualcosa, a un certo punto, perché troppe vicende di fallimenti, chiusure e licenziamenti avvenuti nei primi anni duemila si assomigliano troppo. Alla fine dello spettacolo, le due ragazze osservano in televisione, con tanta malinconia, un servizio di 'Unomattina' sulla produzione dei prosciutti nel parmigiano. Ed è quasi come osservare un qualcosa di assai distante da loro, nonostante si sappia benisismo di cosa si stia parlando. La sensazione di estraniamento, di aver vissuto una giovinezza 'altra', come se le due sorelle fossero, oggi, due ragazze completamente diverse rispetto a tutto ciò che hanno vissuto nella loro infanzia e adolescenza, basta da sola a far comprendere il disastro devastante di una crisi economica che ha obbligato moltissime persone a cercare nuove strade per 'reinventare' la propria stessa vita. Non si tratta solamente di attraversare un ponte per ritornare alle origini del prosciutto prodotto artigianalmente, ma di trasferimenti in altre città per ricostruire l'intera propria esistenza praticamente da zero. Tutto ciò, dopo aver garantito lavoro e benessere per molte persone e per lunghissimo tempo. Tanto lavoro per nulla in un Paese profondamente disonesto, in cui, anche se si è mossi da buona volontà e grandissima onestà, si viene 'ammazzati' comunque. E ingiustamente. Uno spettacolo simpatico e, al contempo, 'verista'.

Ladro di saponette (Vittorio Lussana)
Un 'giallo' a sfondo erotico, quello presentato da Pietro Naglieri e Ida Vinella durante le ultime serate del Roma Fringe Festival 2019. Si tratta di un soggetto di Nicola Grimaldi, in cui due coniugi finiscono in un labirinto di perversioni sessuali, sino a condurre il protagonista maschile verso una morte misteriosa, all'interno della stanza da bagno dei vicini di casa. La vicenda viene ricostruita dal protagonista medesimo, che per tutta la durata della piéce non si rende conto di essere proprio lui la vittima e non l'assassino, come si pensa per larga parte della rappresentazione. Il colpo di scena finale, probabilmente, doveva esser questo: un effetto 'Il sesto senso' senza avere tra i piedi un minore che "vede la gente morta", o qualcosa del genere. L'intento era probabilmente quello di inserire la vicenda all'interno di una lunga allucinazione in punto di morte. Ma come possa una vittima essere interrogata da un magistrato in carne e ossa, per poi trascorrere un'intera settimana in un carcere, proprio non si riesce a comprenderlo: più che un'esperienza 'premorte', ci sono venuti alla mente i lungometraggi di John Cassavetes. Una serie di elementi di cronaca 'nera', intercettazioni, interrogatori, testimonianze false o manipolate e rapporti adulterini con la vicina di casa - siciliana, oltretutto, perennemente e ansiosamente preoccupata per la gelosia del marito 'cornuto' - arricchiscono il tutto con alcuni elementi di morbosità non sempre riusciti. Interessante, in ogni caso, il personaggio interpretato dalla formosa, ma armoniosa, Ida Vinella, che trascina il proprio uomo in un vortice di perversioni sessuali e confusi giuochi di ruolo, anche se, per tutto il tempo dello spettacolo, ci si chiede cosa conduca due persone sane e adulte a ricercare determinate complicazioni, in un Paese che continua a perdere posizioni nelle classifiche relative ai tassi di attività sessuale e in quella di natalità, già da decenni negativa. Insomma, il risultato di quanto visto non ci ha convinto del tutto: qualche meccanismo ci è apparso da 'limare'. E alcuni intrecci della trama sono sembrati poco chiari. Uno strano bisogno di contraddizioni patologiche, in una società divenuta patologicamente contraddittoria.

Dopo il diluvio (Annalisa Civitelli)
'Dopo il diluvio' è un buon testo, poetico e mai banale, che tuttavia ci ha dato l'impressione di aver un poco sofferto la riduzione a 50 minuti imposta, per forza di cose, dal regolamento del Roma Fringe Festival. Un amore gay tra un giovane poeta e un docente universitario, interpretato da Diego Parlanti, rianalizzato da quest'ultimo a 20 anni di distanza e alla luce dell'esperienza e della consapevolezza. Tuttavia, anche quando un sentimento si raffredda non lo si può certo ripudiare, negando di averlo provato o vissuto profondamente. Il docente, tra l'altro, è anche uno di quelli 'bravi', che proprio per questo si ritrova alquanto emarginato da un mondo accademico che conduce approfondimenti assurdi, mescolando ogni cosa con scarso criterio scientifico. Ecco perché ci si rende conto, durante la rappresentazione, che questo testo presentava molti spunti che valeva la pena fossero sviluppati, caratterizzando maggiormente i due personaggi in scena. Per esempio, la critica contro un mondo della cultura che "sguazza da 30 anni nella pozzanghera dell'Apocalisse" meritava di essere ampliato, poiché tocca una questione reale, che tutti si guardano bene dal voler affrontare per mero conservatorismo di principio. Tale aspetto, infatti, spiega assai bene l'innamoramento del professore per il giovane poeta conosciuto per caso, il quale non risulta nemmeno laureato e non frequenta i suoi corsi. E' la classica situazione della 'pecorella smarrita', da recuperare al fine di riportarla nel gregge dell'omologazione e dei cosiddetti 'integrati'. Ma proprio lo spessore poetico del ragazzo fa comprendere al giovane docente come la verità spirituale della società risulti malignamente ribaltata e contraddetta: è la coscienza collettiva a risultare disorientata e smarrita, poiché mal sopporta la possibilità di un amore tra due persone che si percepiscono in piena sintonia, sentimentale ed elettiva. Il testo di Dario Postiglione è indubbiamente di spessore: degli amori gay si ha un'idea moralistica profondamente sbagliata, come se l'omosessualità fosse una sorta di identità ideologica. Niente di più falso: l'amore gay, al di là di quanto si dica o si pensi per 'perbenismo' o motivazioni di questo tipo, risulta ancora oggi marchiato dall'abominio, marginalizzato sino al punto da costringere gli individui a vivere esistenze tristi e infelici, poco tollerate dalla morale comune. Solo un bel diluvio universale, o qualcosa di questo genere, potrebbe dar modo alla società di rinascere dal basso, ricreando un qualcosa di sincero. Pur non essendo dei rivoluzionari, riteniamo di aver compreso il massimalismo di principio di Postiglione e dei ragazzi della compagnia 'Radioantartide'. Apprezzabile.

Ecco la Commedia dell'Arte (Vittorio Lussana)
Da originario delle Serenissime Terre di San Marco, quando si parla di Commedia dell'Arte si tocca un tasto sensibile. E non solo per le antiche 'ruggini' tra bergamaschi e veneziani sulla figura di Arlecchino. Siamo cioè di fronte a un genere teatrale che, per il nord del Paese, ma anche per il sud - come nel caso napoletano di Pulcinella - ha un'importanza culturale e identitaria non di poco conto. Oltre a ciò, siamo in periodo carnevalizio, anche se ormai i nostri bambini si travestono da cartone animato giapponese o da personaggio horror, piuttosto che da Arlecchino o Brighella. La Commedia dell'Arte, se proprio la si vuol fare, va fatta bene. L'approccio un poco improvvisato del gruppo 'Luoghi dell'Arte' - lo scriviamo con rispetto e urbanità - ci ha convinto poco. Luciana Codispoti è persona simpatica e di spirito, ma la sua Colombina (o Smeraldina, o Corallina che dir si voglia...), più che una spiritosa 'servetta' sembra una Marisa Laurito 'impazzita'. Dei 4 episodi rappresentati al Roma Fringe Festival, solo l'Arlecchino dell'oliva è apparso convincente. Il dato d'interesse della famiglia Luly per la nostra Commedia dell'Arte è la sola cosa che possiamo apprezzare realmente. Una famiglia romana appassionata di queste cose, ripescando lodevolmente la figura di Zanni, è certamente un'eccezione che, tuttavia, conferma la regola: la Commedia dell'Arte è un genere teatrale in profonda crisi perché è la nostra memoria a non essere coltivata, né culturalmente incentivata. Con in più, il problema di una parte di questo Paese che si ostina a rimanere immobile, imbottigliata nel proprio gretto materialismo, egoisticamente insensibile a rendere il nostro patrimonio culturale un'inesauribile materia prima per il futuro sviluppo del Paese e dei nostri giovani, che non si vedrebbero costretti ad andarsene da un un Paese ormai connotato da una mentalità truffaldina e furfantesca. Malinconico.


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