Giuseppe LorinI genitori che dopo vari tentativi di riappacificazione decidono irrimediabilmente di separarsi per varie incomprensioni, in genere lo fanno per voltare definitivamente 'pagina'. Ma troppo spesso, questa 'pagina' schiaccia i figli della coppia, quando ci sono, andando a produrre in questi delle disfunzioni psicologiche e psichiche. La chiusura di una relazione è dolorosa, sia per chi la decide, sia per chi la subisce. Sia se essa è condivisa, sia se non lo è. E i figli avvertono questa 'tragedia' nella vita dei loro genitori e se ne fanno psicologicamente carico. Eppure, il padre ha sempre svolto, nei confronti del bambino, la funzione di organizzatore morale e socializzante. La figura paterna, infatti, entra in modo determinante nella vita del bambino già verso la fine del secondo anno di vita. Ovvero, proprio all'inizio delle fasi che porteranno il bambino a superare il complesso 'edipico'. Il bambino vede il padre come una autorità, ambita e amata dal desiderio materno. Il rapporto diadico 'madre-figlio' si trasforma nel rapporto triangolare 'madre-padre-figlio'. È qui che inizia il vero complesso edipico, durante il quale il bambino desidera sostituirsi al padre nel rapporto con la madre e, contemporaneamente, teme che il padre, geloso, possa punirlo in qualche modo. Subentra allora nel bambino l'angoscia di castrazione, che fa sì che il minore rimuova l'amore per la madre, trasformandolo in tenerezza, rimuovendo al contempo l'ostilità verso il padre identificandosi in lui. Si ha così il superamento del complesso edipico e il formarsi del 'super io', che costituisce la futura coscienza morale dell'individuo stesso. In sostanza, il padre è il secondo modello del bambino, in quanto gli facilita l'apprendimento morale e sociale al fine di rassicurarlo, aiutandolo a inserirsi nella realtà della vita. Nella fase finale della crisi edipica si sviluppa, infatti, il senso sociale del bambino. L'assenza della figura paterna produce regressione della maturità e disorientamento. Squilibri affettivi che lo inducono alla ricerca di un individuo spesso più grande, per avere affetto. Il concetto di bene e di male si consolida, nel bambino, attraverso il padre. E nell'adolescenza, quando il ragazzo deve costruirsi una propria identità, diversa dai modelli che fino a quel momento ha imitato, affiorano drammaticamente tutte le carenze patologiche che ci sono state nei periodi precedenti. La disgregazione della famiglia nel mondo 'moderno', con separazioni e divorzi, nonché il disorientamento degli adulti stessi, che non hanno più modelli da trasmettere ai loro figli, ha fatto sbiadire la figura del padre come persona rassicuratrice e protettrice. Tutto ciò ha come risultato la fissazione, o il 'blocco', del bambino agli stadi regressivi, con la conseguenza di provocare disfunzioni psicologiche che si trascinano nell'età adulta. Conviene, perciò, dopo esserci dedicati alla distruzione del nucleo genitoriale, andare a invadere anche quello dei nostri figli, immensamente più delicato? Un tempo si diceva: "Restiamo uniti per i nostri figli". Oggi, invece, ce ne 'freghiamo' altamente. È questo il giusto comportamento da mantenere? Oppure, siamo ormai di fronte alla grande vergogna sociale di una società alla deriva? Tutta questa premessa potrebbe far intendere che siamo improvisamente divenuti contrari allo strumento del divorzio, ma le cose non stanno così. Al di là di ogni ipocrisia, se due persone non si amano più è giusto che si separarino. Ed è anche corretto, dopo alcuni anni, divorziare. La maturità adulta serve esattamente a questo: a comprendere che un amore può anche finire, che il sogno della famiglia perfetta, apologetica e immodificabile era, per l'appunto, solamente un sogno, anche un po' ingenuo. Certamente, non è giusto che di questo ne debbano soffrire i nostri figli. Ma per insegnare pure a loro che debbono sapersi gestire anche nei momenti difficili dobbiamo comunicare, attraverso il nostro comportamento, che possiamo uscire a 'testa alta' anche dalle situazioni più dolorose e complesse. Molte ex coppie, dopo aver divorziato, scoprono di essere diventati buoni amici. E molti padri, avendo dimostrato maturità e voglia di ricominciare da capo, pur avendo perso un amore importante hanno guadagnato la stima della loro ex compagna. E molte volte, anche quella dei propri figli. Quando le tempeste si placano e le nebbie si diradano, tutto comincia ad apparire più chiaro. Ma si tratta di un processo interiore, individuale, di natura esperienziale e personale. Un processo di maturazione nel quale lo Stato, le istituzioni e il giudice che ha deciso come e a chi affidare i figli possono solamente avviare, secondo una funzione di mero indirizzo. Servono, dunque, margini di riflessione, di razionalità, di avviamento verso una nuova vita, in maniera tale che i nostri figli non soffrano più di tanto. Imporre per legge una parità astratta degli affidi, come nel caso del 'ddl Pillon', finisce col limitare questo processo di maturazione individuale, poiché toglie al giudice la facoltà di analizzare il caso concreto nella sua specificità, nel tentativo di cominciare sin da subito a ridurre le cause principali di ogni conflittualità. La nostra auto-organizzazione dev'essere una qualità che nasce da noi stessi. E non può essere imposta da una norma, la quale rischia, invece, di forzare le situazioni. Se qualcuno proprio non ce la fa a maturare e a ricostruirsi una nuova identità è inutile imporgli delle regole di comportamento da Stato etico, perché chi passa la propria vita a cercarsi un'etica dimostra non soltanto di non possederla, ma persino di non conoscerla affatto come valore di comportamento civile. Impedire a un giudice di sottrarre i figli a uno dei due genitori significa mettere a rischio lo sviluppo e la crescita dei soggetti più espostii, sino a generare un vero e  proprio 'sdoppiamento' della sua personalità adulta, soprattutto in quei casi in cui uno dei due genitori proprio non riesca a liberarsi dalle catene con le quali si è auto-imprigionato. Imporre dall'alto una 'bigenitorialità perfetta', come se questa esistesse realmente, significa non aver capito nulla della vita reale delle persone e dei cittadini. E significa non essere nemmeno nelle condizioni di poter legiferare. La nostra società, già di per sé, non è molto equilibrata. Ma decidere scientemente di generare future generazioni di cittadini ancor più 'matti', o con maggiori problemi rispetto a quelli da noi già superati a fatica, significa tornare indietro rispetto a tutto quel che la modernità ci ha insegnato. Vuol dire chiedere al cittadino di chiudersi in se stesso anche quando non c'è alcun motivo, né bisogno, per farlo, insegnandogli a fuggire dalla realtà, come se tutto ciò che proviene dall'esterno fosse negativo a prescindere. Significa stimolare una diffidenza e una sfiducia nei confronti del prossimo che sono l'esatto contrario non soltanto della fede, ma persino rispetto a ogni altra 'scala di valori', a qualsiasi etica della convinzione. Si tratta di una condanna al qualunquismo privo d'identità: una pena terribile, che nessuno dovrebbe essere mai messo nelle condizioni di comminare. Nemmeno inconsapevolmente. Nemmeno in buona fede.


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Giuseppe Lorin - Roma - Mail - lunedi 12 novembre 2018 12.50
Gentilissimo dott. Giavazzi, ho letto il suo pregiatissimo commento e mi rendo conto che purtroppo, imbrattano i seggi del Senato della Repubblica dei traditori della vanga, che pur di respirare con gli organi vocali, spesso emettono dei suoni irriverenti alla Cultura di genere! Cordiali saluti, Giuseppe LORIN
Giovanni Giavazzi - Vigevano - Mail - lunedi 12 novembre 2018 9.28
Confido che le rigorose e convincenti argomentazioni del dr. Gorin siano rese note al signor Pillo, così che possa convincersi che i pregiudizi che lo hanno condotto a concepire il suo ddl sono assolutamente assurdi e vadano a complicare situazioni già di per sè difficili e delicate.
Per il bene dei genitori e dei figli che devono vivere queste esperienze il signor Pillon - se è in buona fede - si convinca a ritirare il suo ddl.


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