Silvia MattinaAl Teatro Tordinona, nel pieno centro della capitale, dal 16 al 19 novembre scorsi la compagnia 'Enter' ha ricordato i cinquant'anni dalla morte del più giovane 'Cavaliere della rivoluzione' della Storia, riportando in scena lo spettacolo del peruviano Edgardo De Habich con nuovi attori e piani narrativi differenti. In collaborazione artistica con il 'TeatroSenzaTempo', il regista Luca Milesi ha messo in scena una rappresentazione storica da 'manuale' della figura del 'Che'. Dalla scenografia, al ritmo sempre sostenuto della recitazione degli otto attori, lo spettatore s'immerge sin da subito nella vita e nel clima politico di quegli anni così turbolenti e si interroga sulla dimensione umana di un volto che, ormai, è diventato una leggenda e un'icona senza tempo. Mai sopra le righe la corale interpretazione degli attori: Maria Concetta Liotta, Serena Renzi, Alberto Albertino, Francesco Sotgiu, Ilario Crudetti, Stefano Di Giulio, Eleonora Zepponi e, soprattutto, Antonio Nobili nel ruolo di 'El', mostrando al pubblico, con facilità e immediatezza, le tappe principali di un viaggio nell'animo di un uomo votato alla rivoluzione. La stessa che 'prenderà la sua vita'. Tutto ha inizio una notte di tempesta, quando un 'ranger' dell'esercito regolare boliviano chiede riparo a un piccolo sacerdote di montagna, che sta scrivendo un libro sul Cristo di Vallegrande: il soprannome dato al 'Che' in quei luoghi. Il diavolo e l'acquasanta, l'assassino e l'assolutore: è questo il dualismo giocato tra i due personaggi che hanno il compito di raccontare "i fatti come unica fonte del reale", sostiene il 'ranger'. La ricerca della verità di cronaca è messa più volte in discussione dalla figura del nipote del sacerdote, che manifesta l'insoddisfatto desiderio di giustizia nei confronti di chi ha ucciso una 'figura-guida' per tanti giovani che, come lui, hanno creduto nel sogno della rivoluzione. Dalla voce e dalla scrittura del prete, gli uomini protagonisti accanto al 'Che' della rivolta cubana prendono vita attraverso una serie di 'flashback', che pongono i termini della questione sul ricordo di Guevara. Il regista espone inoltre le ipocrisie, le diffamazioni e le tante chiacchiere su una delle 'figure-chiave' del ventesimo secolo, esautorandole di tutta la retorica annessa nell'intento di far emergere, con determinazione, la lotta per un mondo più giusto. Nelle prime scene del 'Che medico' che parte, il sacerdote insiste su una delle tipiche associazioni, proposte spesso dai giornali, tra il rivoluzionario e l'eroe romantico del 'Don Chisciotte', che lascia tutto per inseguire il sogno. Le vicende successive raccontano, invece, una storia ben diversa, da legare inconfondibilmente e intensamente con la figura del Cristo: il lavoro nel 'lebbrosario'; uno straniero in terra altrui; la morte per tradimento. Attorno a questo paragone, lo spettatore viene posto innanzi a diversi interrogativi: semplice fanatismo rivoluzionario o 'dovere' di essere umano? Feroce dittatore o martire cristiano del XX secolo? A dissipare tali dubbi, vi sono le azioni da sincero internazionalista di 'El', al quale non interessa veramente vincere la rivoluzione, ma essere in prima linea, nonostante l'asma logorante e la consapevolezza di andare incontro al suicidio. "La cosa peggiore che possa accadere a un rivoluzionario è vincere una rivoluzione", scrive il poeta sudamericano Arzubide. L'intenso dialogo tra El e Fidel, interpretato con sensibilità dagli attori Antonio Nobili e Alberto Albertini, sottolinea con efficacia e potenza un momento controverso nella storia del rivoluzionario: l'addio a Cuba e l'abbandono della poltrona da ministro dell'Economia, in favore del suo aiuto agli Stati bisognosi del mondo. Non solo un 'Che' pubblico, insomma, ma l'Ernesto privato in quanto uomo tormentato e angosciato nella sua scelta di sacrificare la famiglia, alla ricerca di un'identità e una missione. In mezzo a tanti uomini, la bravissima Eleonora Zepponi porta in scena lo sguardo commovente della moglie/madre, che non può far altro che accettare la dipartita dell'uomo amato, strappato al proprio destino. La parabola 'cristologica' termina con il corpo disteso dopo la fuciliazione sugli altipiani sperduti della Bolivia. Anche nella dipartita, le due figure sono accomunate sia da un punto di vista ideale, sia in quello figurativo: l'immolazione delle due giovane vittime incontra la sublimazione visiva in uno dei dipinti più famosi di Andrea Mantegna, il 'Cristo morto', databile tra il 1475-'78. Lo spettacolo merita di essere portato nelle scuole, per il suo impegno nel delineare la purezza degli intenti di un uomo che, con i suoi pensieri e la propria vita, non ha mai smesso di opporsi alle ingiustizie. Un messaggio ancora oggi più attuale che mai.


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