Vittorio Lussana'A sciuquè', lo spettacolo che ha vinto la VI edizione del Roma Fringe Festival, è un grido di allarme nei confronti di un problema, quello del 'gioco d'azzardo', che sta generando danni devastanti, in una società che non sembra cogliere la pericolosità di comportamenti divenuti, in molti casi, patologici e autodistruttivi

La VI edizione del Roma Fringe Festival 2017 è stata vinta dallo spettacolo 'A sciuquè' (letteralmente: A giocare, ndr) diretto da Ivano Picciallo e nato dalla collaborazione tra le compagnie 'Malmand' e 'I nuovi scalzi'. In scena, Adelaide Di Bitonto, Giuseppe Innocente, Igor Petrotto, Francesco Zaccaro e lo stesso Ivano Picciallo hanno emozionato il pubblico con una rappresentazione solo apparentemente a 'due facce': nella prima parte, viene narrata la felice e giocosa infanzia di un gruppo di amici che crescono insieme; nella seconda, l'improvviso e tragico 'tracollo' del protagonista, che ingenuamente finisce col far naufragare la propria esistenza in una società malata e indifferente, che utilizza le debolezze umane per distruggere l'umanità stessa delle persone. Una piéce complessa, dunque, che ha saputo toccare molte 'corde' e che ha avuto il coraggio di sollevare un problema spesso sottovalutato: quello della ludopatìa. Ne abbiamo parlato con Ivano Picciallo, che oltre a un'interpretazione personale convincente, ha saputo dirigere con attenzione e amore per il dettaglio un gruppo di giovani attori decisamente appassionati e molto interessanti.

Ivano Picciallo, 'A sciuqué' ha vinto la VI edizione del Roma Fringe Festival: ve lo aspettavate?
"Certo che no! Sicuramente, abbiamo creduto nel valore del nostro progetto e nella sincerità del nostro lavoro. Per completare il tutto, mancava un riconoscimento effettivo da parte di un pubblico reale e della critica. E il premio del Roma Fringe Festival, oltre a renderci felici e soddisfatti, ci ha dato un pizzico di fiducia in più nel continuare a portare avanti i nostri progetti".

E ora? Quali progetti avete in serbo, dopo questa vittoria?
"Ora spenderemo le nostre energie e lavoreremo affinchè 'A sciuquè' abbia ciò che pensiamo si meriti: la possibilita di poter 'giocare' ancora su molti palcoscenici e che si replichi ancora, affinché sia noi, sia il pubblico, possiamo continuare a cercare quell'impossibile perfezione alla quale tanto tendiamo. Ricercare, modificare e plasmare il lavoro con un pubblico sempre diverso: questo è quello che desideriamo. A breve, inizieremo con un nuovo progetto. Anche in questo caso, la tematica trattata sarà forte e di stampo sociale. Il nostro intento e augurio è e sarà, in fase di ricerca, quello di ripercorrere il processo creativo che abbiamo ottenuto con 'A sciuquè'...".
 
Secondo la giuria, la vostra performance è risultata la più completa, con una regìa effettiva, assai ben studiata e un testo particolare: siete d'accordo con un simile giudizio?
"Il giudizio della giuria è insindacabile, no? Battute a parte, credo risulti completa perché c'è una compagnia di 5 attori, che si è messa a servizio di un 'testo'. Testo che abbiamo lavorato, masticato, 'risputato', cambiato e rinnovato più volte. Considerando che, in una prima fase ancora embrionale, era solamente un monologo e che siamo arrivati insieme a costruire uno spettacolo con 5 attori, devo riconoscere che di strada ne abbiamo fatta. Questo è successo perché gran parte del lavoro è figlio di una scrittura scenica, nata dalle improvvisazioni. A questo, poi, si è aggiunto il sostegno e il lavoro delle luci, dei costumi, delle scene, dell'aiuto regia, tutti a servizio del progetto. Credo sia stata la sinergia e la collaborazione tra tutti noi ad aver fatto sì che il lavoro risultasse completo".

Il tema di fondo sembra essere la ludopatìa, che distrugge la vita del protagonista lasciandolo in balìa degli strozzini: è questo il vero 'grido di allarme' di 'A sciuquè'?
"Sì: al centro dello spettacolo c'è la ludopatia. Ovvero, il gioco d'azzardo considerato come un passatempo, un tentativo, un diversivo, una distrazione, un'evasione. Un gioco, appunto, che tuttavia diventa patologia, 'febbre', malattia. Non è forse anche questa una dipendenza grave, tanto quanto lo è la tossicodipendenza? I danni della prima non causano meno vittime dell'altra. Esiste una sola differenza: la società non attribuisce al 'gioco d'azzardo' lo stesso peso, valore e gravità che invece dà, giustamente, ad altri tipi di dipendenze, alcolismo e tossicodipendenza su tutte. Un gioco, dunque. E noi ci siamo chiesti che cos'è il giocare, che cos'è il gioco...".

Qualcuno ha notato un cambiamento piuttosto 'repentino' tra gli anni giovanili e spensierati del gruppo amici descritti in scena e il drammatico 'tracollo' finale: da cosa è dipeso? Forse dall'esigenza di ridurre il 'copione' a 50 minuti, come imposto dalla competizione teatrale?
"E' dipeso da diversi fattori: sicuramente, avere a disposizione un tempo limitato e l'impossibilità di farci aiutare dalle luci a scandire meglio il tempo, dal passato al presente, rende il capovolgimento drammaturgico troppo repentino agli occhi del pubblico, più di quello che noi avremmo voluto. Tuttavia, è stata anche una scelta consapevole, da parte nostra: c'era la volontà di un cambiamento rapido, spiazzante, 'a schiaffo'. Quello 'schiaffo', quella 'doccia fredda' che arriva, nella vita di qualcuno, quando scopre che un proprio caro, un amico o un conoscente, è dipendente dal gioco d'azzardo ed è un malato. E' un 'click': un momento. E non c'è nulla che ti prepari. Volevamo raccontare anche questo".

A nostro avviso, la vostra piéce ha il merito di descrivere bene le ambientazioni di un Mezzogiorno che, seppur povero, saprebbe ancora essere felice, nella sua semplicità, mentre l'arrivo della modernità irrompe corrompendo situazioni e persone: non è un 'quadro' eccessivamente pessimista?
"Descriviamo il Mezzogiono perché è lo 'sfondo' che conosciamo. E il 'quadro' è necessariamente pessimista in questa storia, utile a fotografare una realtà che non sempre ha un lieto fine. E' importante, per noi, descrivere come un qualcosa che viene venduto come un 'gioco' non abbia nulla a che fare con l'essenza del gioco: è questo il 'parallelismo' su cui si è fondata la nostra ricerca. Mostriamo una realtà pessimista e antieroica, con l'intento e la speranza di evitarla".

'A sciuquè', alla fine, non ricalca la vecchia tesi 'pasoliniana' di uno sviluppo voluttuario e 'caricaturale' spacciato per progresso? E' questo il 'grande inganno' di una modernizzazione troppo accelerata: lasciar credere che la vita stessa, in fondo, sia un giuoco?
"Prendere la vita come un 'gioco' non è un presupposto totalmente errato, se volessimo analizzarla, per un attimo, ancestralmente, poiché significherebbe confronto, parità, trasparenza, lealtà, crescita, democrazia, ergo: socialità. Il vero dramma sta negli angusti mezzi 'maleducati' con cui l'istituzione, storicamente gerarchizzata, s'intromette nella società, facendo volutamente leva sulle debolezze di quest'ultima e generando una reale e inevitabile tragicità, ponendo fine a quel meraviglioso gioco che è la vita".




(intervista tratta dalla rivista mensile 'Periodico italiano magazine', n. 32 - ottobre 2017)

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