Giuseppe LorinLa polisemìa del termine 'laico' e del suo derivato, 'laicità', è un dato di fatto ben noto e di esperienza comune. Semmai, è comunemente meno avvertito il fondamentale dualismo di accezioni dei loro molti significati, sia nel linguaggio religioso, sia in quello politico. Ma tale polisemìa, in questo caso, attiene tutta ed esclusivamente a quest'ultimo campo, riferito al termine politico. Infatti, per quanto riguarda il primo senso, quello religioso, 'laico' e 'laicità' costituiscono un esempio tipico del processo di 'innesto' del cristianesimo nella classicità greco-romana; più ancora, di quell'incontro tra Gerusalemme e Atene, tra fede biblica e filosofia greca. Il cristianesimo delle origini trasse dalla lingua universale del tempo, il greco, il termine làos, piegandone però il significato alle proprie peculiari esigenze. Fu in questo modo che si modificò il vocabolo greco, che si trasformò da significato generico, a uno specifico: quello del popolo che aveva ottenuto il battesimo. Il termine 'làikòs' cominciò, letteralmente, a caratterizzare coloro che, in quanto battezzati, "appartenevano al popolo". Nei tre primi secoli di vita del cristianesimo, si sviluppò un versatile processo di adattamento di questo originario vocabolo greco alle nuove esigenze poste dalla vita della Chiesa, producendosi contestualmente un'ulteriore connotazione. Nel senso che, abbastanza rapidamente, il termine, dalla primitiva valenza, indicativa di tutta l'intera comunità dei battezzati, passò a significare la porzione di questi costituita da quei fedeli che non erano stati investiti del sacro ministero. Dunque, cominciò a delinearsi, all'interno dei cristiani, una distinzione profonda tra i fedeli, che contrappose i 'laici' ai 'chierici': una separazione che si radicò rapidamente. Con l'affermarsi dell'impero romano, la distinzione tra chierici e laici si accentuò, fino a stabilizzarsi. Da quel momento in poi, chierico e laico saranno i termini chiamati a indicare, con assoluta precisione, nella Chiesa istituzionale, due differenti categorie di battezzati, distinte a seconda della recezione o meno dell'ordine sacro e, quindi, della appartenenza o meno alla struttura gerarchica della Chiesa. Ma a un certo momento della Storia della cristianità, di cui i termini in questione, 'laico' e 'laicità' sono inevitabilmente figli, essi vennero a conoscere alcuni processi di trasmigrazione nel linguaggio secolare, i quali, attraverso varie fasi, li ha condotti alla odierna pluralità di significati, di cui manifestazione estrema è la laicità come espressione di laicismo. In sintesi, si può ricordare che la prima trasmigrazione avvenne in pieno medioevo, tra l'XI e il XII secolo, nel contesto della lotta per le investiture, che vide contrapposti il papato e l'impero al punto da intendere il potere profano, pro-fanum, cioè prossimo ma esterno alla Chiesa. Dunque i laici non solo appartenevano, ab originem, all'istituzione ecclesiale, ma nella prospettiva delle conflittuali relazioni tra Chiesa e politica, cominciarono a rappresentare un potere, benché diverso, distinto ed estraneo a quello ecclesiastico e che, anzi, a quest'ultimo si contrapponevano. La secolarizzazione dei termini 'laico' e 'laicità' era ormai avvenuta. Come per tutte le "pietre scartate" che divengono "testate d'angolo", il processo di estraneazione dei termini procedette dal terreno 'fertile' della politica a quello della cultura. Nell'età dell'umanesimo, tra il XIV ed il XVI secolo, la riscoperta delle opere filosofiche, letterarie e artistiche dell'antichità greco-latina indusse un'atmosfera intellettuale che si tradusse in una educazione e produzione culturale che pose, come elemento di principio, l'uomo. Alle litterae divinae si contrapposero le litterae humanae. E accanto agli studia divinitatis nacquero gli studia humanitatis. È un altro aspetto del processo di secolarizzazione, fenomeno anche questo propriamente cristiano, che portò alla nascita e alla contrapposizione di una cultura laica rispetto a una religiosa. Un ulteriore passaggio è dato, nel XVII secolo, dalla nascita delle scienze naturali in senso proprio e moderno, di cui rimane emblematica la cosiddetta 'questione galileiana'. Il conflitto tra pensiero teologico e pensiero scientifico, che costituisce ancora oggi il nucleo forte delle posizioni di laicità-laicismo, cominciò ad attingere al terreno epistemologico e toccò il problema del metodo: il sapere è solo quello scientifico? Il metodo per l'allargamento delle conoscenze è solo quello empirico? Ecco l'elemento nuovo, che ben presto si identificò con l'incompatibilità: dove la religione è favola, mito, dogma, ovvero paradigma non dimostrabile, la scienza è invece razionalità, sapere critico, sperimentazione. La laicità non solo si contrappone alla religione, ma in molti casi con essa è radicalmente incompatibile. L'ultimo passaggio si attuò con l'illuminismo, che segnò il definitivo passaggio del singolo individuo, attraverso la sua emancipazione, dalla tradizione, dalla metafisica e dalla fede religiosa alla piena libertà e alla concomitante affermazione filosofica della propria autonomia. La laicità fu lo 'strappo finale' da tutto un passato e si riflette, tra l'altro, in una concezione dello Stato, del diritto e della politica non solo marcatamente segnati dall'autonomia dell'individuo, ma anche nel promuovere tale autonomia. La laicità divenne, quindi, programma politico, qualificazione dello Stato, funzione del diritto positivo. Il processo di risemantizzazione dei termini in esame fece, in tal guisa, un ulteirore passo in avanti. Ciò non significa che 'laico' e 'laicità' abbiano assunto un significato nuovo, diverso, contrapposto a quello cristiano originario: significa, al contrario, che è in atto un processo di pluralizzazione di significati che non pare doversi arrestare e che induce a porsi l'interrogativo più radicale. Vale a dire, se tali termini non debbano essere abbandonati perché ormai inutili, ovvero non utili in quanto non compatibili e non in grado di mettersi in comunicazione tra loro. Il fenomeno appare assai rilevante sul terreno giuridico, dato che il diritto, sia come norma, sia in quanto dottrina, presupporrebbe termini chiari e univoci, idonei a esprimere concetti lineari e distinti, privi di ambiguità. Pur tenendo presente la questione dell'uniformità di giudizio, che rimanendo sullo sfondo delle finalità filosofiche ed empiriche può prevedere alcuni aspetti spirituali, declinando una laicità capace di coniugare alcune posizioni di principio tipiche della filosofia morale, la laicità può insomma avocare a sé anche la sfera religiosa, relegando gli aspetti mistici e antiscienfici a mere ritualità private, mosse da sentimenti morali o princìpi di coscienza. Tuttavia, ciò ripropone la questione di una laicità che si presenta come filosofia contraddistinta da un 'doppio binario'. Ovvero, in quanto teoria della prassi basata su un presupposto di religiosità dubitativa. Il dubbio diviene metodo, mentre la prassi scientifica resta solamente un fine, un mero obiettivo verso cui dirigersi, ma non facilmente raggiungibile. Può anche darsi. Tuttavia, tali elementi rendono la laicità un metodo dinamico, capace di "bruciare i ponti della staticità", cioé quei tipici atteggiamenti, puramente formali, destinati a trasformarsi in "mero meccanismo", per dirla con Benedetto Croce; oppure, nel campo artistico-culturale, in "pura rappresentazione", parafrasando Carmelo Bene.


Lascia il tuo commento

Fra Diavolo - Roma - Mail - giovedi 8 giugno 2017 1.28
Gentile Lorin, avevo dichiarato che avrei trovato il tempo di argomentare il mio profondo dissenso su quanto da lei scritto. Per fortuna mia il suo incipit costituisce una falsa partenza che più o meno inficia, se non tutto il suo argomentare politico, almeno la malevola critica verso i "chierici" (ci tengo a precisare che non appartengo a quella categoria). Sulla disinvoltura con cui lei e il sig. Ormanni sembrate credere che i fondatori della nostra scienza fossero sì dei geni, ma che poi si comportassero un po' da allocchi e credenti a tutta prova, mi rifaccio alla questione già dibattuta su Galileo/Bellarmino, per cui il primo aveva torto e l’altro ragione.
Lei inizia con una falsa partenza perché fa intendere (almeno a me che spero di aver capito bene) che nei primi tre secoli sia iniziata e si sia consolidata una contrapposizione tra chierici e laici e che questa contrapposizione fosse una novità rispetto agli inizi. Ma questo non è vero. La Chiesa nasce già gerarchicamente strutturata. Le sarei grato se mi risparmiasse la fatica di citare per esteso gli Atti degli Apostoli e le lettere di San Paolo, dove la questione risulta manifesta (per non citare il mandato pietrino e il «Pasci le mie pecorelle» dai Vangeli). Già dall'immagine del "pascere le pecorelle" risulta evidente che qualcuno ha l'incarico di "guidare" e si suppone che ci sia qualcuno da guidare. Potrei aggiungere il «Tutto ciò che legherai sulla terra…» Opppure il Concilio di Gerusalemme, ecc.
Fra Diavolo - Roma - Mail - lunedi 5 giugno 2017 2.38
E questa sarebbe una risposta?
Ad occhio e croce, il prof. Bonera, come professore di un Dipartimento di Fisica, sembra avere più titoli di lei. Può anche darsi che lei sia nettamente più attendibile del Bonera. Se fosse così, ci convinca.
Il metodo scientifico richiede che una teoria debba essere confermata da opportune osservazioni sperimentali. Il prof. Bonera afferma che Galileo non avesse le prove sperimentali per poter affermare la realtà dell’eliocentrismo. Lei, dal momento che rigetta la sua autorità, può pensare che sia una bufale pavese (nel senso dell’Università di Pavia). Non è così: le prime prove sperimentali si ebbero nel 1728 (Bradley, aberrazione della luce stellare) e nel 1838 (Bessel, parallasse stellare).
Pertanto, Bellarmino, in modo corretto, affermò che, in mancanza delle prove, fosse opportuno «parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato il Copernico» e «che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo […] e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allora bisogneria andar con molta considerazione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l'intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra.» [Lettera al card. Foscarini]
Galileo era convinto erroneamente di aver trovato la prova sperimentale nel fenomeno delle maree per cui credeva di poter affermare che l’eliocentrismo fosse già allora una verità scientifica. Per questo si può affermare, senza essere sanfedisti o schiavi dei dogmi cattolici, che Galileo aveva torto e Bellarmino ragione.
Roberto Ormanni - Roma - Mail Web Site - domenica 4 giugno 2017 15.42
Ah, beh! Se lo dice il professor Bonera! 😁
Fra Diavolo - Roma - Mail - venerdi 2 giugno 2017 16.55
Che bello quando ti si ricordano! Sono felice che il caro Ormanni mi tenga presente nel suo cuore e non mi abbia dimenticato, anche se metà del suo intervento è finalizzato a dare una definizione del sottoscritto tale da squalificare in automatico le mie affermazioni (per favore! evitiamo argomenti ad personam) e l’altra metà è sbagliata. Contrariamente a quel che lei afferma, neanche ai tempi di Galileo gli strumenti di osservazione consentivano di ottenere prove sperimentali attendibili della rivoluzione terrestre. Non lo dico io e non è un dogma, lo afferma il prof. Bonera del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pavia, il quale chiude il suo breve saggio “Dal sistema tolemaico alla rivoluzione copernicana” con le seguenti parole:

«Le prove sperimentali, quelle stesse che il cardinale Bellarmino chiedeva a Galileo, verranno solo molti anni più tardi. Nel frattempo il riconoscimento del sistema copernicano fu ancora una questione di fede, questa volta però di fede nella Scienza.»

Aggiungo che i “molti anni più tardi” sono all’incirca un secolo! Non riporto, per ora, ma solo perché spero che il Bonera le sia sufficiente, le parole del Bellarmino relative a quale sia l’atteggiamento teologicamente e scientificamente corretto nel caso che ci si trovi di fronte ad una possibile incongruenza della Scrittura rispetto a quanto dimostrato con certezza sperimentale.

P.S. Il piccolo saggio del Bonera lo si trova a questo indirizzo
http://ppp.unipv.it/PagesIT/6Dif/6Videoconf/1VideoC.htm
Roberto Ormanni - ROMA - Mail Web Site - venerdi 2 giugno 2017 10.58
Interessante l'articolo ma ancor più il commento del redivivo colonnello sanfedista che, non a caso, difende il dogma (sebbene per paradosso) scambiandolo per "metodo scientifico". Il metodo scientifico è il frutto dell'osservazione mentre la "scienza" di Bellarmino era frutto della convinzione. Sarebbe giusto dire che ai tempi, ad esempio, di Aristotele, il metodo scientifico desse ragione ad Aristotele e non a Galilei. Perché gli strumenti di osservazione non consentivano, oggettivamente, di andare oltre la visione aristotelica dell'universo. Ma non così ai tempi di Bellarmino quando, proprio le osservazioni oggettive di Galilei permettevano al metodo scientifico conclusioni diverse. Che però si scontravano con convinzioni pregresse. Ma è noto che il buon colonnello Pezza, alias Fra Diavolo, non la pensava così.
Fra Diavolo - Roma - Mail - martedi 30 maggio 2017 20.16
Caro Signor Lorin, cercherò di trovare il modo di argomentare il mio profondo dissenso su quanto lei ha scritto (per altro, in modo anche un po’ logorroico).
In questo momento non ho il tempo necessario e pertanto mi limito a farle presente che, al momento storico della disputa, Galileo aveva torto e il cardinal Bellarmino aveva ragione. Paradossale? Per niente! almeno per chi volesse adottare una sana metodologia scientifica.


 1