Questo racconto si interseca con le tante storie vissute o ascoltate in questi anni di violenze in Medio Oriente e che il mio giornale ha più volte narrato. La storia è quella di un giovane arabo di nazionalità israeliana, Asel Asìeh, che, attivo in una delle tante organizzazioni internazionali che promuovono scambi tra ragazzi di tutto il mondo, aveva le idee chiare sul conflitto mediorientale: “Non dobbiamo mai aspettare che sia l’altro a cercarci – sosteneva Asel – ma siamo noi che dobbiamo fare il primo passo; e se tutte e due le parti la pensano allo stesso modo, ecco che allora la ricerca è più facile”. Asel, manteneva varie corrispondenze con ragazzi ebrei d’Israele; occasionalmente riusciva anche ad incontrarli. I contatti erano continuati anche dopo il settembre del 2000, quando, nei giorni della “seconda Intifada”, scendevano in piazza anche tanti arabi israeliani proprio in Galilea, dove Asel abitava.
Il processo di pace si allontanava sempre più e mentre gli analisti politici si affrettavano ad immaginare strategie, il fuoco covava sotto la cenere e la famosa visita di Sharon sulla Spianata delle Moschee, non fu altro che il detonatore di una situazione degenerata. Asel non partecipava all’Intifada, semmai la temeva. Aveva solo diciassette anni, ma in Medio Oriente i ragazzi crescono in fretta e lui aveva capito che la strada era un’altra. Non so se Asel abbia mai tirato dei sassi; quel che è certo, guardando decine di foto di famiglia, è che Asel andava fiero della sua maglietta verde e del logo dell’organizzazione di cui era membro dove campeggiava un ramoscello d’ulivo sul quale spiccava la scritta “Seeds of peace”, ossia: Semi di Pace.
Il 2 ottobre del 2001 Asel moriva, ucciso da un colpo d’arma da fuoco sparatogli alle spalle nel corso di un’azione repressiva condotta dalla polizia contro una dimostrazione organizzata da cittadini arabo-israeliani. Nell’inchiesta seguita a questa tragedia si seppe che Asel non era tra i dimostranti e che era disarmato. Ma un’altra associazione che in M.O. cerca, da anni, di abbattere i muri dell’odio e della violenza, è quella che raccoglie centinaia di famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso i loro cari in questi anni di conflitto armato. I genitori di questa associazione non si sono fatti affogare dalla disperazione. Hanno trasformato l’odio in amore. Ricordo di un fatto che, all’epoca, trovò poco spazio sui giornali. Era il marzo del 2002 quando seicento tra arabi e israeliani allestirono seicento bare proprio sotto il grattacielo delle Nazioni Unite a N.Y. Trecento con la bandiera Israeliana e trecento con la bandiera palestinese. In terra campeggiava una grande scritta: “Questo è il prezzo della guerra: siamo stanchi di pagarlo”. Se fino ad oggi la società civile dei due popoli è riuscita ad esprimere segni di questo tipo, vuol dire non solo che la pace è possibile, ma che, forse, non è così lontana.


Direttore Responsabile della rubrica televisiva di Rai Due ‘Protestantesimo’ e del mensile ‘Confronti’.
Brano tratto dal libro ‘Quella striscia di pace in Terrasanta’ di Salvatore Lordi, edito da Koiné Nuove Edizioni
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