L’On. Marco Boato è Presidente del Gruppo Misto alla Camera dei Deputati, nonché primo firmatario del noto disegno di legge di riforma dell’istituto giuridico della grazia.

Presidente Boato, qual è il suo pensiero sulle lunghe vicissitudini, personali e giudiziarie, di Adriano Sofri?
“Io ho sempre affermato, sin dall’inizio di questa storia, cioè dal 28 luglio 1988, data in cui venne spiccato il mandato di cattura nei confronti di Adriano Sofri – in merito, si può anche controllare l’intervista che rilasciai il giorno successivo a Giuliano Ferrara per il Corriere della Sera -, di ritenere Adriano Sofri totalmente innocente da tutte le accuse che gli sono state mosse. Nel corso di questi sedici lunghi anni, seguendo personalmente tutta la vicenda processuale, sia in fase istruttoria, sia nei diversi processi che si sono alternati e conclusisi con condanne, assoluzioni e poi di nuovo con condanne, ho sempre ricavato la forte convinzione della sua piena innocenza. Diversa è, naturalmente, la valutazione politica, etica e culturale sulle vicende di quegli anni. Tuttavia, è anche bene tener presente che Adriano Sofri non ha di certo aspettato che si formasse un’accusa nei suoi confronti per fornire una propria riflessione critica sull’estremismo ideologico degli anni ’70 e, più in particolare, sulla campagna di stampa condotta contro il commissario Calabresi e portata avanti da Lotta Continua, soprattutto nella fase editoriale in cui quel giornale era ancora un periodico. So per certo, e Sofri lo ha anche detto più volte, che lui non ha mai scritto nemmeno una riga di quella campagna: letteralmente non se ne è mai occupato. Quella campagna venne condotta da Milano, città dove a quell’epoca vi era la sede del quotidiano. Nel periodo dell’assassinio Calabresi, infatti, il quotidiano Lotta Continua aveva sede in Roma, ma solo da poche settimane, mentre tutta la fase centrale di quella campagna, che si era sviluppata, come tutti ricordano, dopo l’omicidio dell’anarchico Pinelli, era stata condotta, con toni molto esasperati, dalla redazione di Milano, rispetto alla quale Sofri non ha avuto alcun tipo di responsabilità”.

Dunque, Adriano Sofri sarebbe totalmente innocente?
“Adriano Sofri è innocente. Io l’ho sempre ritenuto tale per conoscenza diretta degli ambienti di Lotta Continua, avendo fatto parte di quel movimento dal primo all’ultimo giorno. La storia di quell’esperienza l’ho raccontata dettagliatamente nell’estate del 1988, quando mi presentai spontaneamente al giudice istruttore Lombardi, allora titolare dell’inchiesta. Per molte ore - esiste un verbale della mia deposizione di circa 30 pagine – io ho raccontato quella storia per come l’ho conosciuta e ho spiegato le ragioni per cui ho sempre ritenuto Adriano Sofri assolutamente estraneo a tutta la vicenda. Ripeto e sottolineo, inoltre, che Sofri non ha di certo aspettato il processo per fare una riflessione, critica ed autocritica, sull’estremismo ideologico degli anni ’70, e quando questo si è poi celebrato, si è assunto la piena responsabilità politica di quella campagna di stampa - non dell’omicidio naturalmente -, ritenendola sbagliata e usando parole limpide ed anche molto pesanti. Se ne è assunto la responsabilità politica in quanto egli è stato, dall’inizio alla fine, il leader indiscusso di Lotta Continua e ha dunque ritenuto doveroso fare ciò in forza della propria leadership. Tuttavia, una cosa è la responsabilità politica, ben altra è quella giudiziaria…”.

E la questione della responsabilità morale?
“In sede di assunzione di responsabilità politica, egli si è assunto anche quella morale”.

Ovvero, Sofri ha implicitamente ammesso di non aver chiesto al movimento di fermare quella campagna?
“Lui ha sempre detto di ritenere Lotta Continua estranea a quell’omicidio e che quella campagna di stampa è stata sbagliata, inaccettabile: ha usato parole inequivocabili nell’assumersi, in quanto leader di quel movimento, la responsabilità politica della campagna contro il commissario Calabresi, a cui personalmente, però, è sempre rimasto estraneo. Inoltre, quando purtroppo eravamo nel pieno degli anni di piombo e ricorrevano dichiarazioni del tipo: “Mi considero prigioniero politico”, egli ha dichiarato esplicitamente di considerarsi “prigioniero apolitico” e di voler condurre la propria difesa perché certo di dimostrare, sul piano giudiziario, la propria estraneità ai fatti contestatigli. Egli ha poi dichiarato di voler espungere dalla sua linea di difesa qualsiasi valutazione di ordine politico, ovvero di non voler considerare l’accusa nei suoi riguardi un fatto politico. E ha utilizzato tutti gli strumenti giudiziari a sua disposizione per cercare di affermare, accettando le regole stesse del giuoco giudiziario, la propria innocenza. La sua battaglia aveva avuto, ad un certo punto, un duplice risultato, molto positivo. Pochi se ne ricordano e parlano genericamente di sette - otto sentenze di condanna ma, in realtà, non è andata così: le sentenze di condanna sono state solo tre. La vicenda giudiziaria si può riassumere in questi precisi passaggi: dopo le condanne di primo e di secondo grado a Milano, il processo arrivò in Cassazione, che lo esaminò a sezioni unite. Al termine di quel giudizio, siamo nel 1992, la condanna venne annullata con una splendida sentenza, nella quale furono destituite di legittimità formale le motivazioni dei primi due gradi di giudizio. La questione venne perciò rinviata, per un nuovo processo, ad una diversa sezione della Corte di appello di Milano. L’anno dopo, il secondo processo venne celebrato a Milano e vennero assolti tutti gli imputati: anche questa è una sentenza che ricordano in pochi. La questione, dunque, nel 1993 era conclusa, perché nel 1992 la Cassazione aveva annullato le precedenti condanne, aveva ordinato di rifare il processo, questo era stato ricelebrato e si era poi concluso con una generale assoluzione degli imputati coinvolti. A quel punto, la Cassazione avrebbe dovuto confermare l’assoluzione, avendo già in passato annullato due sentenze di condanna. Ma un giudice a latere del processo di Milano, dissenziente rispetto alla maggioranza che si era formata in Camera di Consiglio, credo di ricordare che si chiamasse Pincione, scrisse, proprio lui, le motivazioni di quella sentenza, e lo fece in una maniera ‘suicida’: scrisse, cioè, una motivazione che, per il 99 per cento delle trecento pagine, era a sostegno della responsabilità di Sofri e degli imputati, mentre solo nelle ultime tre, ne dichiarava l'innocenza. Si trattò, insomma, della motivazione di un giudice dissenziente scritta in modo tale da provocare, inevitabilmente, l’annullamento anche di questa sentenza da parte della Corte di Cassazione, la qual cosa puntualmente avvenne, due anni dopo, per difetto di motivazione e con l’ordinanza di una nuova celebrazione del processo presso la III Corte di appello di Milano. Il processo venne poi ricelebrato, e secondo quanto emerso dai giudici popolari, non vi era una maggioranza colpevolista in Camera di Consiglio. Il Presidente di quella III Corte d’appello, mi pare si chiamasse Della Torre, chiese tuttavia ai giurati di votare a favore della colpevolezza degli imputati affermando, e ciò risulta dagli atti processuali del successivo processo svoltosi a Brescia, che quello era il suo ultimo giudizio prima di andare in pensione, e che quindi non voleva essere smentito dai giudici popolari. Alla fine, si arrivò dunque alla condanna, con sentenza confermata in Cassazione. Adriano Sofri, pur ritenendola ingiusta, si consegnò spontaneamente in carcere, nonostante un iter processuale travagliato e contraddittorio in un procedimento di accusa per omicidio per il quale era stato prima assolto e poi condannato con giudizi alterni. Risultava evidente che le prove contro di lui non sussistevano. Ma la sentenza era ormai definitiva, e venne consegnata in carcere nel gennaio del 1997. Il comportamento di Sofri può esser definito ‘socratico’, poiché ricalca quello di un cittadino, come Socrate a suo tempo, che riconosce le leggi del proprio Paese e a queste si sottomette pur rivendicando la propria innocenza. Nel 1999 egli riuscì ad ottenere, dopo tre nuove vicende giudiziarie - era stato richiesto a Milano e Milano l’aveva rifiutato -, un giudizio di revisione del processo. Quella era infatti l’ultima carta che Sofri poteva giuocarsi: richiedere, sulla base di nuove prove emerse - su questo era stato fatto un ottimo lavoro dall’avvocato Alessandro Gamberoni, che aveva preso in mano il caso in quell’epoca -, e sulla base di elementi non valutati nei precedenti processi, un giudizio di revisione. Sofri chiese dunque la revisione del processo alla Corte di appello di Milano, la quale, però, la respinse. La Corte di Cassazione annullò il rigetto di Milano e ordinò che l’istanza di revisione venisse invece valutata a Brescia. Brescia si comportò esattamente come Milano, respingendo la richiesta di revisione, ma la Corte di Cassazione annullò anche questo rigetto, decidendo che l’istanza venisse nuovamente valutata a Venezia. A Venezia, la Corte d’appello accettò il giudizio di revisione ma, alla fine di quel nuovo processo, che si tenne a cavallo tra il 1999 e il 2000, venne invece rigettata la revisione della condanna, che venne così confermata. A questo punto, per la seconda volta Adriano Sofri ha accettato di ritornare in carcere pur ritenendo ingiusta anche questa decisione della Corte. Complessivamente, Sofri è in stato di detenzione da sette anni e mezzo, ma di certo non può venir considerato come una persona condannata da decine di giudici, come spesso si suole affermare: credo proprio che non esista, nella storia giudiziaria italiana, una vicenda più lacerante di questa…”.

Passiamo invece all’altra questione, quella dell’iter parlamentare della sua proposta di legge per l’istituzione di un provvedimento di grazia: il Presidente della Commissione Affari Costituzionali, Donato Bruno, ritiene che il centrosinistra abbia commesso un grave errore politico abbandonando l’aula nel corso dell’approvazione di quella proposta. Lei cosa risponde?
“Pur essendo in rapporti di stima e di amicizia con il presidente Bruno, mi sembra che accusare l’opposizione di aver fatto saltare la proposta di legge di riforma dell’istituto della grazia sia politicamente infondato. Io posso capire che Forza Italia si sia in difficoltà, rispetto al proprio comportamento, intorno a questa vicenda, tanto che, come tutti ricordano, il giorno dopo quella drammatica seduta, il 17 marzo di quest’anno, Giuliano Ferrara ha ritenuto opportuno scrivere quell’editoriale sul ‘Foglio’ intitolato: “Destra cialtrona’’, nel quale ha accusato violentissimamente il centrodestra, e in particolare Forza Italia e Udc, di incoerenza. Posso in ogni caso comprendere che, a posteriori, si cerchi, in qualche modo, di ‘metterci una pezza’, per usare un eufemismo…”.

E allora qual è la sua versione dei fatti?
“La ricostruzione di quel passaggio parlamentare è agli atti: io presentai la mia proposta di legge a fine luglio del 2003. Era stata sottoscritta da esponenti di tutti i gruppi parlamentari, eccetto la Lega Nord. L’avevano firmata persino il Capogruppo di Forza Italia in Commissione Affari Costituzionali, Michele Saponara, e un deputato di An, l’On. Cola. A questa proposta, il Presidente Bruno aveva designato, in qualità di relatore, l’On. Carlo Taormina, il quale, pur accettando l’incarico, inizialmente era su posizioni ostili al progetto, anche se poi ha cambiato atteggiamento e nella fase finale della vicenda ha scritto, sia sul ‘Foglio’, sia su ‘Il Giornale’, che quella era una proposta pienamente in linea con la Costituzione. Il 15 dicembre del 2003, in sede di Conferenza dei Capigruppo io avevo chiesto di calendarizzare il dibattito sul disegno di legge in aula, il quale venne perciò fissato per la fine del mese di febbraio. Successivamente, il 30 dicembre, si verificarono due fatti significativi: in un’intervista rilasciata a Guido Passalacqua, dalle colonne di “la Repubblica” il ministro delle Riforme Istituzionali, Umberto Bossi, dichiarava che la proposta che portava la mia firma era da considerarsi condivisibile e che poteva venir approvata nel giro di un paio di mesi, mentre, quello stesso giorno, su ‘La Padania’, l’organo ufficiale della Lega Nord, il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, scriveva di proprio pugno di essere personalmente contrario a concedere la grazia a Sofri, pur riconoscendo che, di fatto, stava esercitando un potere di interdizione nei confronti del Presidente della Repubblica e che ciò, pur essendo conforme alla prassi consolidatasi negli anni, non corrispondeva alla lettera della Carta Costituzionale. Castelli scrisse, inoltre, che l’unico modo per superare quella situazione era una modifica legislativa e che in Parlamento esisteva la proposta Boato che era da considerarsi ragionevole ed approvabile. Ciò spiega perché, sempre il 30 dicembre, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, dopo aver visto in Parlamento una proposta firmata da tutti i gruppi parlamentari eccetto quello della Lega e dopo aver preso atto che i due esponenti principali di quella stessa forza politica, il ministro per le Riforme Istituzionali, che ne rappresenta anche la leadership politica, e il ministro della Giustizia - che di proprio pugno aveva scritto di ritrovarsi, di fatto, ad esercitare un potere di interdizione nei suoi confronti e che ciò era sbagliato - ritenere la situazione superabile mediante la proposta Boato, da considerarsi ragionevole e la cui eventuale approvazione poteva addirittura rivelarsi utile all’intero ordinamento, decise di rivolgersi al Presidente della Camera, Pierferdinando Casini, per chiedergli a quale punto fosse l’iter parlamentare proprio di quella proposta. Il Presidente Casini rispose che il progetto era all’esame della Camera, ma che avrebbe convocato una Conferenza dei Capigruppo per decidere il successivo iter in aula. Convocata infatti per il 5 gennaio 2004, la Capigruppo decise che il ddl dovesse andare in discussione per la fine di gennaio o, al massimo, per i primi giorni di febbraio, nonostante la precedente Conferenza avesse già deciso, il 15 dicembre, che quel provvedimento sarebbe comunque arrivato all'esame dell'aula entro la fine del mese di febbraio del 2004. In ogni caso, quando la pdl al fin giunse, vi arrivò con un testo molto modificato per iniziativa del relatore Taormina. Pur essendo molto diverso dal testo originario, il progetto venne tuttavia ritenuto, da me e da altri deputati, un positivo compromesso in quanto, pur depotenziato nel suo complesso, l’articolato prevedeva la possibilità, al 7° comma del nuovo articolo 681 del c. p. p., dell'istituzione del procedimento di grazia su iniziativa del Presidente della Repubblica. Questo testo arrivò in aula il 5 febbraio per il dibattito generale, ma l’11 dello stesso mese venne messa in discussione anche una questione sospensiva, presentata dalla Lega e sostenuta anche da An, che venne poi respinta dalla cosiddetta ‘maggioranza dell’indultino’, cioè da tutto il centrosinistra più Forza Italia, Udc. A quel punto, la legge sembrava avere politicamente il via libera per l’approvazione. Subito dopo, però, si verificò una vera e propria provocazione da parte del Coordinatore Nazionale di An, l’On. Ignazio La Russa, il quale si precipitò in aula aggredendo letteralmente sia il presidente Bruno, sia il relatore Taormina, al fine di diffidarli dal proseguire l’iter di approvazione della legge e intimando loro l’approvazione di alcuni emendamenti di An che, sostanzialmente, svuotavano la legge stessa”.

Fu a quel punto che il centrosinistra decise di abbandonare l’aula?
“No. La provocazione di An, con insulti, grida e urla rivolte a Bruno e Taormina, aveva semplicemente causato la sospensione di quella seduta. Di settimana in settimana, la reintroduzione nell’ordine del giorno dell’approvazione della legge si vedeva rinviata più volte, nel tentativo di ritrovare un accordo all’interno della Casa delle Libertà che, già dal voto sulla sospensiva, si ritrovava divisa. Il ‘Comitato dei Nove’, l’organo che rappresenta la Commissione di fronte all’assemblea parlamentare, si riunì infatti svariate volte senza trovare mai un accordo. Si tornò dunque in aula con il testo ed il parere sugli emendamenti già concordati in precedenza. Il parere non era condiviso da An e dalla Lega, ma lo era da Forza Italia (lo proponeva il relatore, che era appunto di quel partito), dall’Udc e da tutto il centrosinistra. Quel 17 marzo, però, contrariamente al parere del relatore, il centrodestra decise di votare l'emendamento di An che riproponeva, all’interno dell’articolo 681 c. p. p., il potere di proposta del ministro della Giustizia, svuotando fortemente il disegno di legge. Era poi prevista la valutazione di un ultimo emendamento: quello che prevedeva la soppressione dell’intero 7° comma del 681 c. p. p., cioè quello che prefigura comunque l’iniziativa autonoma del Presidente della Repubblica. Insomma, il 17 marzo venne messo in votazione un primo emendamento di Alleanza Nazionale su cui Taormina aveva espresso parere contrario e intorno al quale era stato raggiunto un accordo affinché venisse respinto. Con l’approvazione di questo, i colleghi di Forza Italia e dell’Udc presenti al tavolo della Commissione dei Nove a questo punto affermarono, di fronte alla mia meraviglia per il clamoroso cambio di atteggiamento, di aver votato il primo emendamento di An perché poi sarebbe stato bocciato quello sulla soppressione del settimo comma del 681 c. p. p. riguardante l’iniziativa autonoma del Presidente della Repubblica, ovvero l’ultimo stralcio rimasto dell’intera mia proposta di legge. Ma quando si è poi giunti al momento di votare, con voltafaccia incredibile, anche sul piano morale, l’intera CdL, salvo sette deputati, ha invece fatto passare anche la soppressione dell’intero settimo comma del 681 c. p. p., cioè la possibilità di un’iniziativa autonoma del Presidente della Repubblica nell’atto di concessione della grazia. Tutto ciò aveva reso la legge non solo una maschera di se stessa, ma addirittura molto più arretrata del c. p. p. oggi in vigore, poiché l'articolo 681, al quarto comma, prevede che la grazia possa essere concessa anche in assenza di domanda o di proposta e, in pratica, veniva approvata dal parlamento una norma la quale, partita per dare maggior pienezza di poteri di concessione della grazia al Capo dello Stato rispetto al Ministro della Giustizia, finiva col sottrargli del tutto la facoltà di una sua libera iniziativa. Dopo quel voto, che per me ha rappresentato una ferita anche sul piano personale, sono stato proprio io, a nome di tutto il centrosinistra, a dichiarare che ritiravo la mia firma da un progetto ormai irriconoscibile. E sono stato ancora io ad annunciare che non avremmo più partecipato a quel voto e che saremmo usciti dall’aula. Purtroppo, quanto dichiarato dal Presidente Bruno è solo un tentativo a posteriori di dare un minimo di decenza al comportamento del centrodestra in quel frangente parlamentare. Il centrosinistra, invece, non solo è stato lealissimo, ma si è pure reso disponibile a compromessi e mediazioni che potevano persino venir considerati eccessivi. Inoltre, per abbandonare del tutto la legge ed uscire dall’aula ha addirittura aspettato di veder saltare gli accordi per ben due volte, al fine di verificare sino in fondo quale fosse l’effettiva volontà politica della Casa delle Libertà. Ripeto: cancellando anche il comma che prevedeva la possibilità di un’iniziativa autonoma del Presidente della Repubblica in materia di concessione della grazia, quella legge avrebbe rappresentato un arretramento rispetto al codice attualmente in vigore, e questo è il vero motivo per cui il centrosinistra ha abbandonato l’aula. Del resto, il relatore stesso, resosi conto della gravità di quanto accaduto, a centrosinistra ormai fuori dall’emiciclo ha poi proposto di bocciare definitivamente il ddl in quanto, l’approvazione di una normativa stravolta sino a quel punto, sarebbe risultato comportamento istituzionalmente sadico non tanto nei confronti del centrosinistra – la proposta non era mai stata una legge solo del centrosinistra, ma risultava bipartisan fin dal primo momento -, quanto nei riguardi del Presidente della Repubblica”.

E adesso? Dobbiamo aspettare le riforme costituzionali dei ‘saggi’ del centrodestra per poter riformare l’istituto della grazia?
“Secondo me, ciò non è necessario. Dopo la bocciatura della legge c’è stata un’ulteriore iniziativa, che è importante ricordare: quella di Marco Pannella, il quale, prendendo atto che il ddl era stato prima snaturato e poi stravolto in parlamento e che, dunque, si tornava alla casella di partenza, ha preannunciato uno sciopero della sete per rivendicare, in qualche modo, che il Presidente della Repubblica venisse messo nelle condizioni di utilizzare i poteri che la Costituzione gli conferisce. Infatti, non vi era una modifica costituzionale in discussione a Montecitorio: la mia norma sarebbe stata, se fosse nata, una normale legge ordinaria dello Stato di mera attuazione della Costituzione...”.

Ma il Quirinale non aveva emesso un comunicato con il quale dichiarava che l’interpretazione corretta dell’art. 89 C. era quella di un potere ‘duale’ del Presidente della Repubblica e del ministro di Grazia e Giustizia, ai fini della concessione di un provvedimento di grazia?
“No, non è andata esattamente così. Quel comunicato faceva riferimento alla questione della controfirma del ministro Guardasigilli, che è un problema più ovvio di quanto si possa pensare: è normale che la controfirma ci sia, ci deve essere ed io ho sempre specificato che anche nella mia proposta era prevista. Ma la controfirma è una cosa, il potere di interdizione dei poteri presidenziali, un’altra. Vi faccio l’esempio più semplice: il messaggio di Ciampi alle Camere di metà dicembre, mediante il quale il Presidente ha respinto, per vizio di costituzionalità, la legge Gasparri. Quell’atto di rinvio venne controfirmato proprio dal Ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, il quale, naturalmente, non era felice che venisse respinto un proprio disegno di legge. Costituzionalmente, però, egli era tenuto a controfirmare il rinvio stesso come atto di attestazione della legittimità formale dell’iniziativa presidenziale. Gasparri, cioè, non ha controfirmato il contenuto del messaggio di Ciampi, ne ha attestato la legittimità. Ora, la controfirma del Ministro della Giustizia sulla grazia, che io ritengo ci debba essere, anche in questo caso deve interpretarsi come attestazione di legittimità formale dell’atto di clemenza medesimo. E proprio a questo concetto si è richiamato, opportunamente, Marco Pannella. Il comunicato a cui fate riferimento, perciò, è quello del luglio del 2003. In quel momento, al Quirinale si riteneva che l’iniziativa dovesse esser presa esclusivamente dal Ministro della Giustizia, tanto che Ciampi dichiarò di essere in attesa di una proposta di questi, la quale però non era mai arrivata. Ma, dopo il dibattito parlamentare e dopo aver ascoltato i giuristi e i pronunciamenti che molti costituzionalisti avevano reso, al Quirinale vi fu un cambio di atteggiamento, tant’è vero che, il 30 marzo del 2004, il Presidente Ciampi decise di inviare una lettera al ministro Castelli per chiedergli, esplicitamente e formalmente – è una lettera resa pubblica il 1 aprile e stampata integralmente -, che gli venisse inviata l’intera istruttoria che riguardava Ovidio Bompressi, coimputato e cocondannato di Sofri. Ovidio Bompressi aveva presentato per ben due volte la richiesta di ottenimento della grazia. Inutilmente, a dimostrazione dell’ipocrisia dei vari Gasparri e Giovanardi allorquando affermano che basterebbe che Sofri ne facesse domanda, per ottenere la concessione dell'atto. Il codice di procedura penale non prevede la richiesta di grazia, e Bompressi, che addirittura l’ha presentata due volte, se l’è infatti vista sistematicamente affossare dal ministro della Giustizia. Il Quirinale, perciò, ha chiesto al ministro Castelli gli atti istruttori su Bompressi e, ulteriormente, ogni eventuale atto di istruttoria preparato per la concessione della grazia ad Adriano Sofri, oppure di iniziare ad aprirla nel merito. A tali richieste, il Ministro Castelli ha risposto che l’istruttoria su Bompressi esisteva e, infatti, dopo sette giorni di attesa, si è deciso ad inviarla al Presidente Ciampi. Per quanto riguardava Adriano Sofri, dopo aver dichiarato la non esistenza di un’istruttoria, Castelli ne ha ordinato l’adempimento. In seguito, come sappiamo, Pannella ha interrotto il proprio sciopero della sete dopo un nuovo comunicato del Quirinale, quello del 6 aprile 2004, in cui veniva dichiarato che, su questa vicenda, si andrà sino in fondo e che, se il Presidente Ciampi fosse deciso a concedere la grazia e il ministro Castelli non dovesse controfirmarla, verrà sollevato un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale".

Lei ritiene sia ormai maturo il tempo per gettarci dietro le spalle i cosiddetti ‘anni di piombo’ con un atto di superiorità morale da parte dello Stato?
“Questa è una questione diversa: personalmente, pur ritenendo che la vicenda del terrorismo non sia definitivamente conclusa come, ahimè, hanno dimostrato gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi, la possibilità, come avvenne nell’immediato dopoguerra con la cosiddetta amnistia Togliatti, che ci sia la capacità, da parte dello Stato, passando ovviamente per il Parlamento, di assumere un’iniziativa di pacificazione generale, io non solo la condivido, ma ne sono stato promotore in diverse misure. Anche in questo caso, a mio parere emerge l’ipocrisia di chi ha detto, più volte, no alla legge sulla grazia e sì ad amnistia o indulto senza, però, mai assumere iniziative concrete in tal senso. Io presentai, nel 2000, con il centrosinistra in maggioranza, una pdl su amnistia e indulto che ho poi ripresentato anche all’inizio di questa legislatura. Tuttavia, è assolutamente impensabile ed impossibile che qualunque parlamento approvi una legge di amnistia e di indulto finché resta l’articolo 79 della Costituzione così come è stato modificato, e a mio parere stravolto, all’inizio del 1992. Infatti, fino a quell’anno avevamo persino troppi provvedimenti di questo genere, tanto e vero che se n’era criticato l’abuso, e la critica era fondata. Nel 1992 si fece, però, una modifica che io definisco ‘emergenziale’ della Costituzione, che introdusse, all’art. 79 C., il principio secondo il quale, per approvare una legge di amnistia e indulto diveniva necessario fosse votata, nei suoi singoli articoli e nel voto finale, da una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna delle due Camere. Ora, per cambiare la Costituzione, in prima lettura può bastare la maggioranza semplice e, in seconda lettura, serve la maggioranza assoluta. Qui, invece, abbiamo una situazione in cui, per far nascere una semplice legge ordinaria dello Stato, ci ritroviamo ad affrontare delle rigidità addirittura maggiori che per cambiare la Costituzione, cioè la fonte superprimaria di tutto l’ordinamento italiano. Tutto ciò ha comportato che l’istituto, dal 1992 ad oggi, si vedesse, di fatto, vanificato. L’anno scorso ho poi presentato una proposta di modifica costituzionale che, anche in quel caso, mi vedeva primo firmatario e che, anche in quel caso, era stata firmata da componenti di tutti i gruppi parlamentari. Essa proponeva di abbassare la maggioranza di approvazione richiesta, quella dei due terzi, per portarla alla maggioranza assoluta, cioè la stessa che ci vuole per cambiare la Costituzione - che, in ogni caso, sarebbe maggiore rispetto a quella che ci voleva sino al 1992 -. Ciò, al fine di mantenere una rigidità, che però non fosse tale da impedire l’approvazione di qualunque provvedimento di amnistia e indulto. Questa proposta è stata votata all’unanimità in commissione Affari Costituzionali ed io ne ero il relatore. Ma quando è andata finalmente in aula, è rimasta ferma un anno e un mese. Nel dicembre del 2003 ho chiesto io, in sede di Conferenza dei Capigruppo, di toglierla dal calendario legislativo della Camera, poiché era diventata un’ipocrisia mantenerla ferma in quel modo…”.

Chi ha bloccato l’iter legislativo di quel ddl di modifica costituzionale?
“Esattamente come nel caso della grazia, An e Lega Nord, con un’opera di ricatto ideologico nei confronti di Forza Italia e Udc”.

I provvedimenti di clemenza possono apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, come atti di debolezza, secondo lei?
“Possono apparire atti di debolezza se non sono equilibrati e se non sono motivati. Amnistia e indulto sono due provvedimenti, in verità, giuridicamente distinti: l’amnistia cancella il reato, e quindi può valere solo per questioni di carattere minore. L’indulto, invece, cancella o riduce la sanzione. Siccome nel caso dei reati di terrorismo le sanzioni comminate sono state enormemente superiori rispetto a quelle di analoghi reati senza finalità terroristiche, l’indulto avrebbe riequilibrato misure decise all’epoca delle leggi antiterrorismo. Insomma, su questo tipo di problemi il rapporto con l’opinione pubblica può derivare da due aspetti: il primo, discendente dal fatto che determinati provvedimenti si possano discutere se si fanno davvero, e oggi ciò non è possibile per le rigidità giuridiche di cui vi ho già detto; il secondo, che siano approvate da una convergenza ampia, bipartisan, in Parlamento, in modo che nessuna parte degli schieramenti pensi di utilizzare strumentalmente o demagogicamente la questione per fini di lotta politica. Se tali condizioni politiche non ci sono e settori del centrodestra, in particolar modo Lega e An, utilizzano questo tipo di iniziative a fini di lotta politica non solo contro il centrosinistra, ma anche all’interno della propria coalizione, è ovvio che simili provvedimenti non possono fare molti passi avanti. L’indultino, ad esempio, che infatti è arrivato in porto fortemente depotenziato, è stata la verifica chiarificatrice, al riguardo…”.

Un’ultima domanda di carattere culturale per concludere l’intervista: lei ritiene che il popolo italiano possa ancora vantare, oggi, quel famoso primato morale e civile di cui tanto scrisse Cesare Beccaria?
“Io, se potessi, farei stampare una nuova edizione di quel libro e lo farei distribuire in tutte le scuole. Risulta infatti assai più famoso il nome di Beccaria di quanto non lo siano i contenuti della sua opera. Purtroppo, nelle viscere della società civile italiana - lo abbiamo visto all’epoca di Tangentopoli -, ma anche all’interno del corpo politico rappresentativo, esiste una forte componente giustizialista. Secondo me, questa non sarebbe prevalente se ci fosse una maggior capacità di assunzione di responsabilità politica e di rivendicazione dei valori dello Stato di diritto da parte della maggioranza del corpo politico. Ed uso quest’espressione, 'corpo politico', per non utilizzare i termini 'maggioranza' od 'opposizione', poiché personalmente ritengo che se ognuno sentisse la responsabilità e il coraggio delle proprie posizioni, il giustizialismo non sarebbe prevalente in parlamento e avremmo solo una piccola parte, prevalentemente di destra, ma anche di sinistra, contrapposta ad un grosso corpo centrale non giustizialista. E’ infatti evidente, che se all'opinione pubblica vien fatta pervenire solo una voce, quella giustizialista, poi si rischia di far prevalere gli istinti peggiori…”.
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