Annalisa CivitelliLuigi Fontanella è un critico letterario, poeta, scrittore e traduttore che vive tra Firenze e Long Island (New York). Docente di Italianistica presso la State University of New York e direttore della casa editrice Gradiva Publications ha fondato l'Ipa (Italian Poetry of America) di cui è anche presidente. In occasione dell'evento 'Percorsi d'autore', una serie di incontri poetici e letterari ideati dal poeta, scrittore e saggista Elio Pecora, organizzati presso la sede del Fuis (Federazione unitaria italiana scrittori), lo stesso Elio Pecora ci ha introdotti nel mondo di scrittori e letterati prima di presentarci quest'autore, accompagnato dal suo ultimo libro di poesie: 'L'adolescenza e la notte', edito da Passigli. La Federazione unitaria italiana scrittori coinvolge e unisce scrittori, autori e poeti di tutto il Paese. Costituitasi nel 2009, essa è nata grazie alla volontà delle organizzazioni di categoria degli scrittori, del Sindacato libero degli scrittori italiani e dell'Unione nazionale scrittori e artisti. La struttura, situata a Roma, in piazza Augusto Imperatore, organizza incontri con poeti, scrittori e autori di primissimo livello. 'Percorsi d'autore', per esempio, ha tenuto a raccolta i maggiori esponenti della cultura e della poesia italiana, tra i quali Donatella Bisutti, Silvia Bre e tanti altri. In ogni caso, in questi giorni di vivo dolore per la scomparsa di Umberto Eco, abbiamo scelto di incontrare Luigi Fontanella, al fine di affrontare insieme a lui una riflessione sulla nostra letteratura, su come sta cambiando il nostro modo di scrivere e il nostro stesso linguaggio, anche al fine di approfondire i differenti punti di vista che legano o distinguono Italia e Stati Uniti, in cui le dimensioni scolastiche e le rispettive lingue giocano un ruolo fondamentale. Ecco dunque, qui di seguito, questa nostra intervista.

Luigi Fontanella, innanzitutto può dirci cosa prova in questi giorni molto tristi per la scomparsa di Umberto Eco?
"Sono giorni di lutto per tutti: se ne va un autentico filosofo della comunicazione letteraria, colui che ci ha fatto comprendere l'importanza dei simboli nel linguaggio scritto e tutti quei fenomeni di 'significazione' e di narrazione a cui essi sono legati. Eco ci ha trasmesso l'importanza del dire una cosa riferita a un fatto pratico e materiale che, tuttavia, poteva significare o riferirsi a qualcos'altro, oppure l'importanza dei diversi 'codici' linguistici che si possono utilizzare quando si scrive. In più, personalmente ci metto anche il suo tentativo di assoggettare la tecnologia alla cultura umanista, in netta controtendenza con quanto avviene generalmente: un'intuizione che considero molto coraggiosa. Insomma, abbiamo perso un letterato vero: così come Alessandro Manzoni è risultato fondamentale per la cultura liberalcattolica, allo stesso modo Umberto Eco rappresenterà uno dei principali 'pilastri' della nostra modernità laica".

Lei vanta una grande esperienza di insegnamento all'estero, in particolare in America: può spiegarci quali sono le principali differenze di insegnamento tra Italia e Usa e i distinti comportamenti adottati dagli studenti dei due Paesi?
"La mia esperienza d'insegnamento e di ricerca negli States è cominciata nel lontano 1976, alla Princeton University, come Fulbright Yellow; nel 1977-78 alla Columbia; dal 1978 al 1981 presso la Harvard University e, infine, dal 1982 a oggi presso la State University of New York, dove sono tuttora titolare della cattedra di Lingua e letteratura italiana. Le differenze sostanziali tra gli Usa e l'Italia sul rapporto docenti/discenti consistono, sostanzialmente, in un utilizzo molto più facilitato, in America, degli strumenti pedagogici e di ricerca: biblioteche ove si può accedere e prelevare quanti libri si vuole fino a notte inoltrata e in qualunque giorno della settimana; molteplici strumenti di tipo audiovisivo; aule scolastiche ottimamente attrezzate, nelle quali puoi usare dvd, film, smart boards (in italiano si potrebbero definire 'lavagne elettroniche'), impiego di teleconferenze, l'utilizzo pressoché generalizzato di 'Power Point', corsi interdisciplinari e via dicendo. Gli studenti americani, devo dire, sono decisamente più competitivi e - non se se sia giusto o no - hanno voce in capitolo sugli stessi docenti. Alla fine di ogni 'Semester', gli studenti di ogni corso hanno l'obbligo di esprimere un parere (motivato) sull'effettiva qualità dell'insegnamento che hanno ricevuto: puntualità del docente; capacità e chiarezza pedagogica; piano di ogni lezione; obiettivi prefissati e raggiunti; disponibilità e rispetto delle ore d'ufficio, in cui qualsiasi allievo può chiedere chiarimenti e ulteriori delucidazioni sulla materia che sta apprendendo. Queste evaluations hanno grande importanza e sono tenute in considerazione, insieme alle pubblicazioni e alla presenza attiva, sia nel Campus, sia presso gli eventi culturali di ambito nazionale e internazionale, dal momento dell'entrata in ruolo (tenure) a quello dell'aumento di stipendio (merit increase) e della promozione (promotion), fino al successivo 'rango', ovvero quello di Assistant Professor (che corrisponde grosso modo al nostro titolo di Ricercatore). Infine, si passa all'Associate Professor e, da questo, al Full Professor (docente ordinario) e al Distinguished Professor. Insomma, un sistema che, volendolo sintetizzare in due parole, potremmo definire meritocratico  e competitivo".

Quale sarebbe, secondo lei, la soluzione per riportare in 'auge' la scuola e l'istruzione italiana?
"Sono più di tre decenni che ho perso dimestichezza con il sistema scolastico italiano, pur trascorrendo più di un terzo dell'anno qui da voi. Tuttavia, proprio in giorni come questi, in cui stiamo piangendo Umberto Eco, credo sia giunto il momento di segnalare, in tutta onestà, che il livello di preparazione linguistica, sia sintattico, sia grammaticale, degli studenti italiani si sia molto indebolito rispetto a qualche decennio fa. Me ne accorgo ogni volta che tengo conferenze e seminari come 'Visiting Professor' presso gli Atenei italiani, in cui mi ritrovo di fronte a un vero e proprio 'tracollo', evidentissimo per un Paese anglofono come gli Usa".

I nostri studenti attualmente riversano le loro scelte verso gli studi linguistici, abbandonando il latino: perché si considera così poco la lingua dalla quale è disceso l'italiano?
"Si tratta di un problema reale: una disaffezione inspiegabile verso una lingua così ricca, così decisiva per la costruzione razionale dei periodi sintattici dell'italiano nella sua formulazione letteraria più corretta, sia per quello 'scritto', sia nella 'koiné' del parlato 'medio'. Ormai, l'orientamento culturale, in Italia come nel mondo, è sempre più diretto verso studi di tipo latamente scientifico: informatica, economia, indirizzi e dottrine sempre più tecniche, se non tecnocratiche, come se studiare il latino fosse un 'lusso' e non una necessità basilare, che ti permette di esprimerti meglio. Negli Stati Uniti, specialmente presso le università private, il latino, come disciplina universitaria, permane e resiste, ma temo che l'America sia destinata a diventare, sempre più, una specie di 'insula felix' per questo suo amore per la Storia antica e la nostra poesia medioevale. Personalmente, la conoscenza del latino e del greco, che da ragazzo ho studiato per tanti anni al ginnasio, al liceo classico e presso l'università 'La Sapienza' di Roma, mi ha aiutato moltissimo in ogni senso. Perfino nell'apprendimento dello stesso inglese, il cui lessico è composto, al 65 per cento, da termini di origine latina. Questa disaffezione verso il latino si riflette anche nello studio e nell'insegnamento della letteratura italiana tout court".

Quali sono le sue considerazioni sul nostro lessico?
"Piuttosto tristi, ahimé, a causa di un pubblico di lettori sempre più scarso, versus un pubblico di scrittori, o aspiranti tali, sempre più massiccio quanto impreparato: schiere enormi di scriventi che considerano, per esempio, la scrittura poetica un puro 'sfogo' o un passatempo, legittima, si capisce, ma senza alcuna dignità letteraria. Ovviamente, ci sono lodevoli eccezioni: esistono siti di poesia di tutto rispetto, come per esempio 'Dedalus', gestito da Ivano Mugnaini, o 'Compitu re vivi', diretto da Sebastiano Aglieco, tanto per menzionare i primi due che mi vengono in mente. Ma internet e la rete in generale ha contribuito, purtroppo, a ingrossare "intere schiere di imbecilli", tanto per citare, ancora una volta, Umberto Eco. Intorno a tale argomento, mi permetto di rimandare a un mio articolo intitolato 'Il poeta internauta', apparso qualche anno fa sul numero 25 della rivista 'Poeti e Poesia' (aprile 2012). Durante la stesura di quella mia riflessione, ho voluto esprimere come, per un poeta, un'efficace conoscenza della propria lingua sia, ancora prima della comunicazione, un mezzo per rivelarsi al mondo. Credo, inoltre, che alla base dello scrivere debba esserci un'autentica passione, una necessità, un vero e proprio 'impegno' individuale e civile".

Apprendere le lingue straniere influenza il nostro modo di pensare?
"Apprendere le lingue straniere serve, innanzitutto, a conoscere l'antropologia culturale del Paese di cui si sta, per l'appunto, imparando la lingua. E ritengo che ciò sia un dovere per ogni scrittore che voglia di esprimersi attraverso forme di 'plurilinguismo'. Alle lingue straniere ci si avvicina cominciando, preliminarmente, da una prima 'piccola base' grammatical-sintattica, per poi procedere, quasi direttamente, alla lettura di testi letterari, a partire da una buona letteratura per l'infanzia. Ovviamente, è necessario anche recarsi in quel Paese, fruire delle sue principali opere cinematografiche in lingua originale e stabilire una qualsivoglia corrispondenza 'pen-pals', che aiuta moltissimo. Purtroppo, negli Stati Uniti, un Paese piuttosto 'sciovinista' per alcuni aspetti, molti ritengono superfluo l'apprendimento di una lingua che non sia l'inglese. Ciò tende a rafforzarla come lingua egemonica nel mondo, Italia compresa e in quanto Paese esterofilo per eccellenza. Tale tendenza e influenza è quella che poi ci costringe ad assistere, quotidianamente, al massiccio ingresso di 'forestierismi', soprattutto attraverso il lessico e il linguaggio pubblicitario e commerciale".

Come si evolve la poesia e come divulgarla in modo più incisivo?
"La poesia, per sua stessa natura, è un genere che ha sempre avuto difficoltà a imporsi in quasi tutte le società, specialmente quelle occidentali. Paradossalmente, essa è la più inutile e, al tempo stesso, la più preziosa delle attività umane. Si tratta di un'espressività creativa, che si pone in conflitto nei riguardi del sistema sociopolitico in cui si trova a operare. Il suo è un vero e proprio conflitto di ordine economico, etico e psicologico verso le altre attività, ben più importanti sul piano della produzione economica. Eppure, un poeta degno di questo nome è ben consapevole di tali ostacoli ed è più sensibile di altri alle rovine, alle carenze, alle ingiustizie della società in cui sta vivendo. Al contempo, il poeta non ha mezzi sufficientemente idonei per fronteggiarle. Epperò, egli ha il dovere di reagire nella maniera a lui più congeniale, cioè con il suo dire e il suo denunciare, senza per questo sacrificare l'immaginario che vive dentro di lui. Ce lo ha insegnato già Dante, il nostro primo grande poeta: è una problematica che richiede una lunga riflessione".

In qualità di fondatore e presidente dell'Ipa (Italian poetry in America) e come direttore della casa editrice Gradiva Publications, che ruolo dà alla poesia nel mondo?
"Quanto alla Ipa (Italian Poetry in America) e all'editrice Gradiva Publications, casa editrice che affianca e potenzia il lavoro dell'omonima rivista, posso semplicemente affermare che ambedue hanno come obiettivo di base la promozione e una miglior conoscenza della poesia italiana in Nordamerica e, più in generale, nei Paesi anglofoni, in cui la nostra la nostra letteratura è poco conosciuta, se non in forme assai limitate. Da più di tre decenni a questa parte è stato fatto tanto lavoro, sia da parte della rivista Gradiva (ora gestita e distribuita dalla casa editrice Olschki), sia da parte della Ipa: numerose pubblicazioni bilingui, convegni e seminari sulla traduzione (il prossimo, in aprile, sarà tenuto da Valerio Magrelli proprio presso il nostro Dipartimento), letture bilingui, frequenti incontri transnazionali e interdisciplinari e così via. Mi permetto di rimandare almeno a due pubblicazioni: un imponente volume, curato nel 2004 da Alessandro Carrera e Alessandro Vettori per l'editrice Cadmo-Casalini (Binding the Lands) e le tre puntate relative a una mia recente, ampia panoramica sui poeti italiani della diaspora, uscite sulla rivista 'Poesia' nel numero di dicembre 2015. Rimando anche al sito stesso di Gradiva (cliccare QUI)".

Cosa pensa degli attuali problemi di pubblicazione e del recente fenomeno delle case editrici a pagamento?
"Penso che occorra distinguere: molto schematicamente, la questione riguarda soprattutto la pubblicazione di libri di poesia, benché anche nella narrativa si annoverino casi storici addirittura clamorosi: basti pensare che il primo romanzo di Moravia, 'Gli indifferenti', fu pubblicato a pagamento. Oggi, per qualsiasi editore, pubblicare una raccolta di poesie comporta un investimento che, al 90%, si tramuta in perdita, a parte rarissime eccezioni. Nel nostro mercato delle lettere operano, inoltre, tanti 'editori-pescecani', i quali non solo impongono che un buon numero di copie venga acquistato dall'autore, una richiesta accettabile se non si tratta di una quantità esorbitante, anche perché l'autore, in fondo, spende dei soldi per avere un certo numero di copie del proprio libro a un prezzo 'scontato', ma pretendono perfino un cospicuo contributo per le spese di stampa. In tal modo, non esiste più alcun rischio finanziario e imprenditoriale da parte di queste 'pseudocase' editrici: questo, secondo me, vuol dire semplicemente stampare e non 'pubblicare', ossia rendere pubblico, un'opera o un libro...".


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